Blu: Conservative Party, Rosso: Labour Party, Giallo: Scottish National Party, Arancione: Liberal Democrats, Rosa scuro: Democratic Unionist Party, Verde scuro: Sinn Féin, Verde: Plaid Cymru, Bianco: Rielezione dello Speaker della Camera.

Il Partito Conservatore (detti Tories) del Primo Ministro uscento Theresa May ha conquistato la maggioranza relativa nelle elezioni politiche di ieri nel Regno Unito, assicurandosi il 42,4% dei voti e 314 seggi alla Camera, ottenuti tramite il sistema delle circoscrizioni uninominali (in ogni circoscrizione è eletto deputato il candidato che prende più voti): un risultato che, mancando un premio di maggioranza simile a quello tanto sognato dai politici borghesi italiani, non permette un governo monocolore, creando una situazione che nel Regno Unito è chiamata hung Parliament (“Parlamento appeso”).

 

Il tentativo dei Tories di consolidare un consenso maggioritario sulla scia della Brexit e della crisi dello UKIP di Nigel Farage, nonostante gli attentati di Manchester e Londra fornissero argomenti ai discorsi nazionalisti e autoritari della May, non è andato a buon segno come sperato: hanno sì (quasi) monopolizzato il voto a destra liquidando lo UKIP, ma rimangono lontani dalla maggioranza assoluta e “solo” 56 seggi e 800.000 voti li separano dal Labour Party: una vittoria di Pirro, rispetto alle aspettative. Un Labour, quello guidato da Jeremy Corbyn, che rispetto a due anni fa (cioè quando ancora il partito era dominato dall’ala destra ultra-filoborghese rifacentesi a Tony Blair) guadagna 30 seggi (ora sono 262) e 3 milioni e mezzo di voti, arrivando alla cifra di circa 12.875.000 voti: un risultato che vede la migliore prestazione in voti assoluti dei Tories dal 1983 e del Labour dal 2001 grazie a un’affluenza (69%) più alta del solito (nel 2015, dove pure il dato era in crescita, l’affluenza era del 66,4%).

I Tories conquistano in sostanza seggi nell’Inghilterra settentrionale e in Scozia (dove non regge il dominio elettorale pressoché assoluto che aveva lo Scottish National Party di Nicola Sturgeon), mentre il Labour conferma il suo radicamento nelle circoscrizioni urbane, delle aree metropolitane di Londra, Birmingham e Manchester, a conferma che ampi settori di gioventù, classe lavoratrice e piccola e grande borghesia cittadine, già perlopiù schierati come Corbyn nel fronte del Remain nel recente referendum sull’uscita dall’UE, si sono raccolti attorno al Labour, assicurando a Corbyn un sostegno di massa ben più amplio di quello già conquistato dentro il suo partito, e garantendo così alla borghesia britannica, specie a quella finanziaria e più attiva sul mercato mondiale, la garanzia di una forza politica forte “a sinistra” che disinneschi eventuali reazioni “eccessive” alla Brexit e alle politiche di tagli del prossimo futuro.

Theresa May, a seguito del tradizionale colloquio con la regina, ha ricevuto comunque il mandato di formazione di un governo, che potrebbe essere sostenuto dal piccolo partito di centrodestra dell’Ulster (Irlanda del Nord), il Democratic Unionist Party. Corbyn e Farron (candidato premier per i liberali) hanno immediatamente dichiarato che la May, non avendo incassato quel vasto consenso che cercava, dovrebbe dimettersi. E’ certo che i Tories passeranno un periodo turbolento e conflittuale al loro interno e nello sforzo di stabilirsi il più solidamente possibile al governo.

L’allineamento sulla linea pro-Brexit dei Tories, unito alla demonizzazione di un Corbyn sempre più “comunista” (a mo di ossessione mediatica berlusconiana contro gli odiati “comunisti” del PD), ha contribuito a creare un clima da scontro frontale che, nella realtà dei fatti, era più sfumato di quanto non apparisse. Il programma “rivoluzionario” di Corbyn non va oltre il contenimento delle misure di austerità già proposte dai conservatori e la proposta di nazionalizzazione (ovviamente, tutta dentro i canoni del diritto borghese, non certo sull’esproprio, quello sì rivoluzionario, sotto controllo operaio) di alcuni settori dell’economia, in particolare il sistema ferroviario agonizzante (della cui privatizzazione abbiamo già accennato). Per il resto, i toni da “potere al popolo” usati da Corbyn si sono accompagnati alla semplice sussunzione elettorale di larghi strati giovanili e operai che hanno percepito il “nuovo” Labour riformista come una rottura politica e “antisistema” rispetto al Labour dell’onda lunga di Tony Blair; il Labour d’altronde, lungi dall’essere mai stato un partito anticapitalista e rivoluzionario, è l’unico partito borghese britannico che può vantare su un discreto radicamento tra i lavoratori, su una sponda non indifferente nella burocrazia sindacale, sulla propria storia come grande partito della classe operaia britannica; tra i contendenti a queste elezioni (essendosi ad oggi dissolta e/o compattata dentro il Labour praticamente ogni organizzazione politica operaia) è l’unico partito che si avvicina allo stato di partito borghese-operaio anche se, sfortunatamente per chi ha trovato in Corbyn l’ennesimo politico riformista da idolatrare, in un partito infarcito di falchi espressione dell’aristocrazia finanziaria ogni carattere “operaio” risulta confinato perlopiù al momento elettorale, non certo a quello della lotta quotidiana contro i capitalisti e di un programma segnato dall’indipendenza di classe. In questo senso, è assolutamente prevedibile che il rafforzato Labour di Corbyn sarà in parte un ostacolo a una ripresa e a una radicalizzazione delle lotte degli sfruttati del Regno Unito, in parte uno strumento rafforzato per convogliare eventuali ondate di lotta sul terreno arido dell’agenda politica della borghesia – un esito già visibilissimo nelle sterzate di Corbyn rispetto alla stretta securitaria proposta dalla May e non osteggiata dal Labour negli ultimissimi giorni di campagna elettorale, dopo l’attentato di Londra; così come non avrà mai piena cittadinanza nel Labour un atteggiamento di rottura reale con l’UE, cioè di rottura con i capitalisti europei e inglesi al tempo stesso, e la presa del potere da parte dei lavoratori in tutta Europa tramite il loro dominio dell’economia e l’instaurazione di un loro Stato, di un governo operaio.

La vittoria dei Tories è una brutta notizia per gli sfruttati del Regno Unito. Ma d’altronde nessuna reale vittoria è loro concessa sul terreno delle elezioni e del parlamento borghese. Il dato veramente pessimo è stato quelli dell’assenza di una candidatura diffusa, radicata e riconoscibile dai lavoratori, dai giovani e da tutti i settori della società sottomessi al circolo ristretto della classe dominante, che presentasse un programma rivoluzionario, basato sui bisogni reali degli sfruttati e non sull’agenda politica della borghesia e delle sue istituzioni. E’ mancata nella misura in cui manca un’organizzazione rivoluzionaria, internazionalista, comunista, che su ogni terreno e nel suo lavoro quotidiano indichi un’alternativa politica realmente “contro il sistema” capitalista, e quindi anche contro i capi laburisti e i burocrati sindacali che sono pappa e ciccia con loro. Ad oggi in Gran Bretagna possiamo registrare solo candidature indipendenti del tutto marginali di minuscole forze (come Il Socialist Equality Party e il Workers Revolutionary Party) avulse dal movimento reale e incapaci di costruirsi in una relazione dialettica con esso. Eppure è proprio l’accumulazione di forze, la formazione di militanti e dirigenti rivoluzionari nel movimento operaio, studentesco, femminile, il raggruppamento verso la fondazione di un reale partito rivoluzionario, internazionalista nel Regno Unito è il compito fondamentale dell’avanguardia di classe, che da anni va rinnovandosi ed espandendosi ma che è oggi sprovvista di un riferimento politico alternativo a tutti i comitati elettorali amici dei capitalisti: formare un’ossatura di tribuni del popolo che diffonda nelle lotte, nel movimento reale, tra le masse stanche dell’austerità dei Tories ma ancora legate alle illusioni riformiste del Labour di Corbyn, un programma di rivendicazioni transitorie utili a elevare la coscienza di classe tra gli sfruttati, a organizzarne l’avanguardia in un partito con un’influenza di massa, a dotare il movimento operaio di una direzione combattiva e anticapitalista, l’unica che veramente può indicargli un progetto politico che la faccia finita con il capitalismo.

 

Redazione de La Voce delle Lotte

 

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.