Pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Dante Lepore.


dal Cap. I LIBERTÀ: TRA SCHIAVO E LAVORATORE SALARIATO
§ 1.4.1 Una bella pagina di quando gli operai non avevano il mito del lavoro libero
Ancora la voce di un operaio per esprimere questo concetto del lavoro salariato come sottoposto a coercizione. Premetto che livelli di coscienza come questi che seguono appartengono ad una fase di forte espansione del movimento operaio, quello che si espresse nella Rivoluzione d’ottobre e nell’occupazione torinese delle fabbriche negli anni ’20 del secolo scorso, mentre oggi tali livelli sembrano inchiodati alla rivendicazione del posto di lavoro come sacro e inviolabile. Il brano che segue è tratto da un’intervista realizzata nel 1975 da Marco Revelli a Maurizio Garino, operaio tra i protagonisti nel movimento operaio torinese dal 1909 al 1922, culminato nella costituzione dei consigli operai e nell’occupazione delle fabbriche: «Noi, come rivoluzionari, il taylorismo l’abbiamo sempre combattuto. Ti controlla l’uomo! Ti mette l’uomo nella condizione di produrre di più. Cioè trasforma l’uomo in un robot che deve eseguire fedelmente, minuto per minuto. Tutto catalogato, tutti i movimenti, mai farne uno fuori posto. Taylorismo in sostanza vuol dire questo: legare le mani all’uomo. […] E il taylorismo, per conto mio, è un metodo che è applicato dove la massa operaia è costretta da un pugno di ferro ad agire in quella determinata maniera. È difficile che il taylorismo venga liberamente accettato. Perché determina una certa schiavitù, un obbligo continuo, perentorio. Perché se non fai quello [che è previsto], non prendi la paga. È comparso [anche qui da noi] proprio per la visione di Agnelli e di tutti i grandi industriali di mettere il produttore, cioè l’operaio, in un binario obbligato. L’operaio entra in fabbrica, infila quel binario e deve andare fino in fondo, fino a quando esce. Queste ore devono essere impiegate così. Tutto il tempo calcolato, e avanti! Il taylorismo può essere applicato a un individuo, oppure a una catena o a una squadra. Noi sostenevamo il salario a economia, dicevamo «Noi non possiamo accettare queste forme di cottimo che sono una forma di schiavitù». Eppure queste grandi industrie lo imponevano, anche sotto una forma un po’ ipocrita. Per esempio, io posso citare qualche caso, un reparto che ha una produzione che non si presta al cottimo, ma ugualmente deve risultare alla Direzione quanto ha prodotto. Se c’è il sistema di cottimo in tutto lo stabilimento non si può tollerare che un reparto sia fuori dal sistema. E allora cosa avviene? Il dirigente comincia a chiudere un occhio. Il capo reparto li chiude tutti e due. Fa fare l’oggetto, il lavoro, e poi alla fine chiede: «Quante ure l’as butaje?» «Tranta ure»(1). «Qui c’è la bolla del cottimo, firmala! Per questo lavoro a cottimo: 30 ore!» E il lavoro era magari già a metà strada, in sostanza. Il sistema veniva raggirato, solo per dimostrare che il sistema era applicato. Naturalmente ci voleva un rapporto di fiducia tra il capo e l’operaio. Il capo reparto sta tutto il giorno lì nel reparto. E vede! È il suo mestiere. Lui è diventato capo perché è in grado di insegnare agli altri, e allora vede se quell’operaio, in quelle 30 ore, ha fatto veramente il suo dovere. Ecco, un rapporto fiduciario, naturalmente, ma era però un controllo continuo, e il capo a quel tempo era responsabile. Quando hanno poi messo gli uffici di analisi tempo, allora il capo era solo più responsabile di fare eseguire i lavori stabiliti dall’ufficio. «Già, ma io cosa ne posso? Qui c’è il cronometrista. È il suo lavoro…» E il cronometrista a sua volta dice: «Ma cosa vuole? Io ho controllato…» Si prende l’operaio specialista, gli si fa fare il pezzo, si controlla, tanti minuti secondi, poi quel pezzo deve riuscire a farlo qualsiasi operaio negli stessi minuti secondi. Ecco! E allora il capo dice: «Io me ne lavo le mani. Tu devi eseguirlo in quel tempo perché il cronometrista…» A sua volta il cronometrista – che è un impiegato anche lui, poveretto – dice: «Ma questo è il mio lavoro, se sbaglio perdo il posto». Poi sopra il cronometrista c’è il capo-cronometrista, insomma tutto un ingranaggio studiato affinché l’operaio esegua sempre in quel [determinato] tempo i lavori che gli vengono assegnati»(2). Ecco infatti come la pensava F. W. Taylor sul lavoratore modello, «di prim’ordine», come egli voleva selezionarlo: «Orbene, una delle caratteristiche più indispensabili che deve possedere un uomo fisicamente adatto al trasporto della ghisa è quella di essere talmente ottuso e paziente da rassomigliare, dal punto di vista della struttura mentale, più ad un bue che a qualsiasi altro tipo di essere umano. In realtà, l’individuo dotato di una mente aperta e intelligente risulta, proprio a motivo di queste sue doti, del tutto inadatto a sopportare la triste monotonia di un lavoro di questo genere. Pertanto il tipo di individuo più indicato per il trasporto di ghisa è un uomo incapace di comprendere il substrato scientifico che c’è alla base di esso. Egli è dunque un essere talmente ignorante per cui la parola ‘percentuale’ non ha per lui nessun significato e di conseguenza, per riuscire a compiere il lavoro con successo, egli ha bisogno di qualcuno più intelligente di lui che gli insegni a lavorare secondo le leggi scientifiche che stanno alla base del suo lavoro».(3) Apprendiamo così dal primo grande teorico dell’organizzazione scientifica del lavoro che nel processo lavorativo c’è da una parte il lavoratore modello, che egli chiama Schmidt, di fronte all’altra in cui il padrone dirige, anzi comanda. Schmidt, per essere un «lavoratore di prim’ordine» e portare a casa 1,85 $ al giorno anziché 1,15 come gli altri, deve riuscire a caricare la bellezza di 47 tonnellate di ghisa anziché 12,5. Deve cioè «sapere eseguire scrupolosamente gli ordini che gli vengono impartiti, dal mattino quando comincia fino alla sera quando smette». Non deve mai «rimbeccare» chi dà gli ordini, ma «fare sempre esattamente ciò che gli viene comandato senza mai obiettare»(4). A chi continua a contrapporre schiavo a libero salariato, resta solo da sottolineare che qui l’uomo non è paragonato allo schiavo ma …al bue! Pertanto l’operaio, ridotto peraltro a individuo, in condizione di spogliazione, espropriato della socialità (quella della comunità materiale umana, la Gemeinwesen in Marx), della proprietà comune (gemeinsamen Eigentums, in Marx), privato di tutto, dai mezzi di sussistenza agli arnesi di lavoro, separato dalle condizioni oggettive della sua realizzazione, oltre che della necessaria conoscenza collettiva, per quanto formalmente «libero» (in senso giuridico positivo: di disporre della propria persona) rispetto allo schiavo (ma solo di lavorare per questo o quel padrone, e talvolta neppure di ciò) non è possessore di alcuna merce alienabile di fronte al capitalista, ma solo nudo titolare di bisogni naturali. La capacità di lavorare, per essere operante, ha infatti «bisogno» di mezzi di lavoro e materiale di lavoro, oltre che di mezzi di sussistenza. In definitiva egli è non solo condizionato ma di fatto costretto, fuori da ogni mistificazione, ad immolarsi quotidianamente non tanto al singolo padrone o proprietario delle condizioni di lavoro, bensì al dispotismo generale, ben più stringente, del capitale complessivo sociale, ed è ciò che autorizza Marx a definire l’operaio, nella sostanza e fuori da ogni retorica, «proprietà del capitale» (Eigentum des Kapitals)(5). Per converso, e a rigore, infatti, ogni confronto formale sarebbe impossibile, se si esclude il fatto che la condizione degli schiavi in quanto oggetti, «cose», non trattandosi di soggetti giuridici, non solo privava gli schiavi di ogni titolarità di diritti soggettivi ma anche di qualunque sorta di obbligo giuridico verso lo Stato. Per i greci, gli schiavi erano semplici «sòmata»=corpi; per i romani (es. Varrone) persone e/o cose, strumenti parlanti che, proprio in quanto scambiabili, necessariamente, tramite questo atto, vennero definiti «res mancipi», cose, ma anche animali, che si prendono con le mani, e mancipium denota la natura dello schiavo(6).
§1.5 Qualunque lavoro per altri è schiavo e forzato
Né la coercizione economica è priva, a sua volta, di conseguenze anche formali, ad es. in termini di sottomissione extraeconomica della volontà del lavoratore a lavorare per chicchessia, quando investe l’intera condizione vitale del lavoratore, sia esso giuridicamente in status servile che di «libero» venditore della propria forza-lavoro sul mercato del lavoro. L’uso della forza fisica e delle sevizie non differisce in nulla nel risultato, che è sempre quello di piegare la volontà altrui a lavorare per sé, se non perché in parte esente da quell’ipocrisia che accompagna altre forme spesso «invisibili», subdole e raffinate, di costrizione e sottomissione anche psicologica, persino ricattatoria, quando ricorre alla minaccia che incombe ormai sempre sull’immigrato che, quando non è discriminato per il colore della pelle, ossia mediante discriminazione razziale, può comunque essere ricattabile per via della mancanza del permesso di soggiorno o altri elementi di vulnerabilità. Una volontà costretta da bisogno, povertà e fame, dalla minore o tardissima età, dalla minorità fisica, dalla malattia, dal sesso gentile o dal ricatto di qualunque tipo, o anche plagiata nella psiche, a lavorare in condizioni sempre più spesso disumane per mantenere e arricchire un altro che invece ignora ogni fatica e pena, non è affatto più «libera» di una volontà piegata nel fisico dalla frusta, e soprattutto non può motivare neppure il diritto. Come ho già detto, libertà di scegliere tra incudine e martello in realtà non è libertà nel senso di autodeterminazione ad agire e fare, ma coercizione, non è spinta autonoma, bensì eteronoma. Ed è falso che nella compravendita «contrattuale» della forza-lavoro, oltre ad esserci libertà ci sarebbe pure uguaglianza, perché lo scambio tra chi compra e chi vende l’uso delle propria forza-lavoro, oltre a nascere da una diseguaglianza di fondo tra chi detiene il mezzo e il materiale di lavoro e chi ne è privo, genera a sua volta diseguaglianza, nel reddito, nello stile di vita, nel prestigio sociale e nel potere tra chi lavora e chi compra o prende a nolo l’uso della forza-lavoro. La formazione del mercato della forza-lavoro nel XXI secolo è divenuta mondiale, in una dimensione di scala che impallidisce di fronte a quella già descritta da Marx e da Engels, già distruttiva di libertà ed espropriatrice forzata di migliaia di produttori indipendenti, contadini e artigiani, rappresentata ai loro tempi dalla rivoluzione industriale inglese. Vediamo infine come si può anche lavorare gratis, cioè senza neppure essere pagati, perché costretti dalla dipendenza da sostanze dopanti e non dalla frusta.
§1.5.1 Coercizione mediante sostanze dopanti, disadattamento e razzismo
Dai preziosi brevi racconti contenuti in un’inchiesta del 2014 nella comunità sikh dell’agro pontino, di cui tratterò più avanti, emerge chiaramente una nuova frontiera dello sfruttamento e della coercizione a lavorare in regime formalmente salariato: somministrare sostanze dopanti ai propri «schiavi» [indicativo è il fatto che le virgolette qui sono degli autori dell’inchiesta] per aumentare la produzione e il profitto(7): «Io lavoro 12-15 ore a raccogliere zucchine o cocomeri o con trattore per piantare altre piantine. Tutti i giorni anche la domenica. Io non credo giusto così. Troppa fatica e pochi soldi. Perché italiani no lavorano così? Dopo un po’ io e anche altri indiani troppo male a schiena, male mani, collo, anche agli occhi perché hai terra, sudore, chimici. Sempre tosse, mattina dolore troppo a schiena. Tu capisci? Ma io devo lavorare e allora prego Signore e vado ancora tutti i giorni a lavorare in campagna da padrone. Lui bravo ma paga poco e lavoro troppo. Lui no tratta male me ma dice sempre lavora ancora e domani ancora. Sempre vuole lui che io lavora. Anche domenica. Ma io uomo di carne no di ferro. Allora dopo sei/sette anni di vita così, che fare? No lavoro più? Io e amici prendiamo piccola sostanza per non sentire dolore. Prendiamo una o due volte quando pausa da lavoro. Poi andiamo a lavorare nei campi senza dolore. Io prendo per non sentire fatica e lavorare e poi prendere soldi fine mese. Altrimenti per me impossibile lavorare così tanto in campagna. Tu capisci? Troppo lavoro, troppo dolore a mani».(B. Singh) E questa delle sostanze dopanti e simili, per lo più anfetamine, non è neppure una prerogativa esclusiva dell’agro pontino e delle comunità indiane dei sikh, la ritroviamo anche tra i braccianti stagionali polacchi che dalla Capitanata (provincia di Foggia), terminati i lavori estivi, si spostano verso Sibari in Calabria per raccogliere gli agrumi e le olive in autunno. Uno dei caporali, di nome Andrzej Wnuk, confessa: «Molti polacchi prendono l’anfetamina, perché si lavora meglio dopo averla presa. Per esempio, un caporale dà l’anfetamina a un operaio e lui in cambio deve lavorare per qualche giorno senza ricevere soldi».(8) Questa condizione di eteronomia, con l’aggiunta di elementi di disadattamento e disorientamento, contraddistinguerebbe in particolar modo gli immigrati, secondo gli studiosi del fenomeno inorriditi all’apparire «malsano» dello schiavo: «Cambiando contesto – mediante processo di emigrazione – possono scaturire forme di disadattamento e di disorientamento che spingono fasce di popolazione straniera a vivere di gran lunga al di sotto degli standard mediamente determinati dal contesto medesimo. Pertanto gli elementi che fanno scattare il senso malsano di appropriazione delle persone come se fossero cose è proprio il fatto che queste persone sono immigrati stranieri – e che alcune componenti – seppur minoritarie – di esse lottano per la sopravvivenza. Condizione che li spinge ad accettare qualsiasi forma di subordinazione purché garantisca quel minimo indispensabile per non soccombere. Il razzismo insomma, nelle sue forme più deleterie diventa il sostituto del vuoto esistente nella società per la mancanza della legge che sancisce il diritto di ridurre in schiavitù[*](9). Non si tratta tra l’altro di razzismo pensato e quanto meno teorizzato e cosciente, ma semplicemente di disprezzo dell’altro, del diverso, del nuovo arrivato venuto da una società considerata più bassa, periferica e quindi composta da non-persone e da potenziali servitori».(10) Ben si può notare come queste venature di razzismo volte a produrre l’accettazione di operazioni coercitive schiaviste verso il diverso in quanto straniero risultano più pesanti rispetto ad analoghe motivazioni nell’antichità volte all’accettazione della schiavitù. Infatti lo straniero, il «bàrbaros» per i greci, non aveva connotati razzisti, anche se poteva essere schiavo a preferenza di un cittadino della polis che per definizione era libero. Lo straniero era semplicemente uno che non faceva parte dei legami della polis, poteva infatti essere un meteco, come Aristotele, che infatti era privo di certi diritti, come quello di possedere una casa, e infatti l’affittava per aprire la sua scuola, ma non per questo era uno schiavo.
NOTE
(1) In dialetto piemontese, «Quante ore ci hai messo?» «Trenta ore». (
2) GUIDO BARROERO e TOBIA IMPERATO (a cura di), Il sogno nelle mani. Torino 1909 – 1922. Passioni e lotte rivoluzionarie nei ricordi di Maurizio Garino, Zero in Condotta, Milano, 2011, pp. 111-112. Lo conobbi anch’io di persona pochi mesi prima che morisse per analoga intervista da cui trassi le stesse impressioni, che confermano le cose qui narrate.
(3) F. W. TAYLOR, Principi di organizzazione scientifica del lavoro, Angeli, Milano, 1975, pp. 79-81.
(4) Ivi, per tutte le citazioni.
(5) K. MARX, Il Capitale, I, 4, ed. cit., p.185.
(6) TERENZIO VARRONE, L.L. VI. 85: Mancipium quod manu capitur.
(7) Doparsi per lavorare come schiavi, in www.inmigrazione.it, 2014.
(8) ALESSANDRO LEOGRANDE, Uomini e caporali …cit, p. 189.
(*9) Come ho mostrato altrove, le leggi ci sono e dal 2016 ci sarebbe anche un Piano nazionale d’azione (PNA) contro la tratta degli esseri umani e il grave sfruttamento, ma questo della manodopera immigrata come fonte disponibile per alimentare la schiavitù trova proprio nella legislazione in materia di immigrazione «il primo potente meccanismo di flessibilizzazione e precarizzazione della forza-lavoro immigrata…Le norme sempre più restrittive dell’ingresso regolare nel nostro territorio producono una illegalizzazione di massa dei lavoratori immigrati, funzionale alle esigenze produttive dell’economia italiana. A dispetto delle sbandierate esigenze di sicurezza e tolleranza zero nei confronti dell’immigrazione ‘clandestina’, è la stessa legislazione repressiva a produrre una massa di ‘clandestini’, oggigiorno anche penalmente perseguibili», cit. in B. BORRETTI, Da Castel Volturno a Rosarno. Il lavoro vivo degli immigrati tra stragi, pogrom, rivolte e razzismo di stato, in (a cura di) PIETRO BASSO, Razzismo di stato, Franco Angeli, Milano 2010, p. 500
(10) F. CARCHEDI, G. MOTTURA, E. PUGLIESE, Il lavoro servile…cit, p. 34.
Cap. I. § 3.3 Quando la Chiesa giustificava la schiavitù, la praticava e ci lucrava.
Potrà sorprendere qualcuno, ma la Chiesa cattolica, fin dalle origini, è convissuta senza problemi con l’istituto della schiavitù. Paolo apostolo, la cui parola rimane ancora oggi legge per la Chiesa, è molto esplicito nella Lettera agli Efesini (risalente, posto che ne sia lui l’autore, al 62 d. C): “Schiavi, ubbidite a quelli che vi sono padroni secondo la carne, con timore e tremore, in semplicità di cuore, come se obbediste a Cristo, serviteli con affezione, come se si trattasse del Signore e non di uomini, ben sapendo che ognuno, schiavo o libero, del bene che avrà fatto riceverà la retribuzione del Signore. E voi padroni trattate i vostri schiavi con spirito analogo, ben sapendo che il padrone – e vostro e loro – è nel cielo, e che presso di lui non si fanno queste distinzioni” (1). Quanto detto ribadisce e conferma il concetto già della Prima lettera ai Corinzi circa il ruolo del cristianesimo (ma come si è visto ciò vale anche per il Corano, e in definitiva per ogni religione) di ideologia della rassegnazione, ossia di accettazione delle rispettive condizioni di classe, padrone e schiavo: “Ciascuno rimanga nella condizione che il Signore gli ha assegnato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione! Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato” (2). Ma Paolo non si limita a prendere atto di una condizione sociale, fa di più, esorta gli schiavi ad obbedire ai padroni: “Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni rispetto, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. Quelli invece che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo, perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio, proprio perché quelli che ricevono i loro servizi sono credenti e amati da Dio. Questo devi insegnare e raccomandare” (3). “Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete come ricompensa l’eredità. Servite il Signore che è Cristo! Infatti chi commette ingiustizia subirà le conseguenze del torto commesso, e non si fanno favoritismi personali”(4). “Esorta gli schiavi a essere sottomessi ai loro padroni in tutto; li accontentino e non li contraddicano, non rubino, ma dimostrino fedeltà assoluta, per fare onore in tutto alla dottrina di Dio, nostro salvatore” (5). In ciò, l’apostolo Pietro non era da meno: “Domestici, state sottomessi con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli prepotenti. Questa è grazia: subire afflizioni, soffrendo ingiustamente a causa della conoscenza di Dio; che gloria sarebbe, infatti, sopportare di essere percossi quando si è colpevoli? Ma se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio”(6). All’inizio del II secolo, Ignazio d’Antiochia, poi fatto santo, scriveva a Policarpo, vescovo di Smirne, per ribadire tra i convertiti al cristianesimo le differenze tra padroni e schiavi: “gli schiavi e le schiave [convertiti al cristianesimo] non si gonfino, e si sottomettano di più per la gloria di Dio, perché ottengano da lui una libertà migliore. Non cerchino di farsi liberare dalla comunità per non essere schiavi del desiderio”(7). Se il paganesimo aveva giustificato la schiavitù secondo il diritto naturale, e tuttavia «gli schiavi erano esseri umani davanti agli dei, almeno in quanto il loro assassinio rendeva necessaria una forma di purificazione ed essi stessi prendevano parte ad atti rituali, come il battesimo»,(8). o anche a feste dove erano serviti dai padroni (vedi poi), il cristianesimo dal canto suo, per coerenza, doveva fissare il principio per cui di fronte a Dio padroni e schiavi sono uguali. Ed ecco, già dall’epoca carolingia, i teologi a cercare di far coincidere diritto naturale e legge divina. Da un lato, occorreva tradurre il principio dell’uguaglianza primigenia in miglior trattamento pratico degli schiavi e in più facile obbedienza ai padroni, dall’altro occorreva un riconoscimento dell’istituto della schiavitù. Così, in soccorso alla legge divina veniva la giustificazione teologica col mito della caduta: tutto il male sociale era conseguenza del peccato originale. Così, nel VI secolo, sentenziava Isidoro di Siviglia: “La schiavitù è una punizione inflitta all’umanità dal peccato del primo uomo”(9). Di questa concezione dualista, di intonazione manichea, nella contrapposizione tra una città del diavolo, appartenente a questo mondo, e una città di Dio, che ci attende nell’al di là, era permeato il pensiero cristiano a far seguito, dopo Paolo, da sant’Agostino in avanti, e naturalmente tutta la gerarchia ecclesiastica e il clero chiamato a governare le anime dei cristiani, fossero padroni o schiavi. La vita terrena è transitoria, un percorso nel regno del male, e il suo compito è preparare alla vita eterna. Dunque è vano e persino sacrilego sperperare le forze nel tentare di riformare l’ordine sociale stabilito e sperare così in una felicità terrena impossibile (10). Ecco perciò la via di legittimazione della schiavitù. Così, “i membri del clero a titolo individuale e la Chiesa stessa, divenuta, in quanto istituzione, un grandissimo proprietario, possedevano schiavi in gran numero”(11). Col progredire dei secoli, la Chiesa è talmente acclimatata con la schiavitù che non solo l’accetta, ma la richiede e la prescrive al proprio interno, nella forma più brutale, quella della sottomissione della donna al marito prete. Nel 1089, il sinodo di Melfi, sotto papa Urbano II, imponeva la schiavitù alle mogli dei sacerdoti (divenne parte del Diritto Canonico dal XIII secolo). Non fu da meno S. Tommaso d’Aquino (1224-1274 d.C.) nel difendere la schiavitù in quanto istituita da Dio in punizione dei peccati e giustificata altresì come parte del «diritto delle nazioni» e della legge naturale. Quanto ai figli di una schiava, essi sono «giustamente» schiavi, anche se, sottigliezza filosofica!, non hanno personalmente commesso alcuna colpa. (12) Nel 1226, la legittimità della schiavitù veniva inglobata nel Corpus Iuris Canonici, promulgato da papa Gregorio IX e rimasto legge ufficiale della Chiesa fino al 1913. I giuristi canonici elaborano quattro «giusti titoli» alla detenzione di schiavi: in caso di prigionieri di guerra, di persone condannate alla schiavitù per crimini commessi; di persone che si vendono in schiavitù (dediticii), compresi padri che vendano i propri figli; in caso di figli di madri schiave, per lo più esposti all’abbandono. E, all’inizio del Cinquecento, uno schiavo lo aveva avuto anche Papa Leone X (Giovanni de’ Medici): si chiamava al-Hasan al-Wazzan, era un musulmano spagnolo (13). Senza voler citare tutti i vari papi che nel periodo della guerre di religione nel ‘400 e ‘500 appoggiavano, come accennato, le potenze coloniali come Portogallo e Spagna nella cattura e riduzione in schiavitù di saraceni, pagani e non cristiani, ancora in piena campagna abolizionista, nel 1866, il Santo Uffizio, in un’istruzione firmata da papa Pio IX, dichiarava (14): “La schiavitù in sé, considerata in quanto tale nella sua natura essenziale, non è affatto contraria alla legge naturale e divina, e possono esserci diversi giusti titoli di schiavitù, ai quali fanno riferimento riconosciuti teologi e commentatori dei sacri canoni […]. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo sia venduto, comprato, preso o ceduto in scambio”.
Note
(1) PAOLO, Lettera agli Efesini, 6, 5-9. È stata discussa la paternità della lettera, e la datazione oscillerebbe, in questo caso, solo dall’80 al 100 d. C.
(2) PAOLO, Prima lettera ai Corinzi, 7.20-24. La lettera è datata tra 53 e 57.
(3) PAOLO, Lettera a Timoteo 6.1-2
(4) PAOLO, Lettera ai Colossesi 3. 22-25.
(5) PAOLO, Lettera a Tito, 2. 9-10.
(6) PIETRO, Prima lettera, 2. 18-20. Datazione a Roma, tra il 61 e 63.
(7) A. QUACQUARELLI (a cura di), Lettere di Ignazio di Antiochia. Lettere e martirio di Policarpo di Smirne, 4. 3, Città nuova, Roma, 2009, p. 58.
(8) M.I. FINLEY, Padroni e schiavi, in L’economia degli antichi e dei moderni, cit., p. 82.
(9)Citato da M. BLOCH, Come e perché finì la schiavitù antica, op. cit, p. 236.
(10) Ivi, p. 237.
(11) Ivi.
(12) J. F. MAXWELL, The Development of Catholic Doctrine concerning Slavery, «WorldJurist», 11 (1969-70), pp. 147-192 e 291-324.
(13) NATALIE ZEMON DAVIS, La doppia vita di Leone l’Africano, Laterza, Bari-Roma, 2008.
(14) Ivi.
fonte: http://www.ponsinmor.info

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.