Nel mondo del cinema la questione delle “donne alla regia”, sembra essere una lunghissima telenovela senza fine. Può una donna assumere il controllo di un set, dirigere attori, essere autorevole (e magari autoritaria)? Leggendo i dati raccolti tra il 2006 e il 2013 che ci informano come solo un film su 10 sia stato diretto da donne, la risposta che l’industria cinematografica dà a questa domanda è: NO.

Nel 2017, il cinema in genere non ritiene, ancora, una donna capace (o degna) di poter dirigere un film. Analizziamo la situazione nella “grande” Hollywood: Sofia Coppola, Kathryn Bigelow, Jane Campion; cito solo tre nomi di grandi donne che sono riuscite ad arrivare all’ambito Oscar. Eppure, solo una di loro è riuscita a vincere la statuetta nella categoria miglior regia: la Bigelow nel 2010 con “The Hurt Locker”, la storia di un artificiere USA impegnato in Iraq- una pellicola non proprio innocente sul piano politico, se si pensa che vinse l’ambìto premio proprio nel periodo della stagnazione militare in Medio Oriente della seconda amministrazione Obama (ricordata per lo scandalo McChrystal nel quadro dell’infinita guerriglia in Afghanistan) e sull’orlo della grande ondata della PrimaveraAraba che ha sconvolto Medio Oriente e Africa del Nord; una pellicola che mostrava per l’ennesima volta la guerra contemporanea dal punto di vista dei soldati americani, e che si concludeva con la totale alienazione del protagonista rispetto a qualsiasi cosa che non fosse il campo di battaglia. Quindi un film assolutamente non “pericoloso” o problematico per l’industria delle armi e della guerra che, con i finanzieri di Wall Street e altre bande di capitalisti, governa gli USA indipendentemente da quale dei due grandi partiti borghesi esprima il Presidente.

Ad ogni modo, sia la Bigelow che la Coppola, sono note al grande pubblico per essere la ex moglie del regista premio Oscar James Cameron e la figlia del maestro Francis Ford Coppola. Insomma, ad Hollywood devi essere di “stirpe reale” per continuare a dirigere film, soprattutto se si è donna. Jane Campion vinse l’Oscar per miglior sceneggiatura originale per il film “Lezioni di piano”, da lei anche diretto, ma dopo questo primo successo, Hollywood pare averle voltato le spalle. Hollywood volta le spalle anche ad una delle prima donne registe capaci di creare un cinema d’autore politico: Lina Wertmüller. Nel 2016, la Wertmüller fu presa in considerazione per l’Oscar alla carriera, premio che l’Academy decise, infine, di consegnare a Jackie Chan. Quindi l’America ha preferito premiare un uomo noto per il genere “action movie”, genere d’intrattenimento, che crea risate facili e adrenalina, piuttosto che una donna la quale, nella sua lunghissima carriera, è riuscita a dar vita ad una fortissima critica politica usando il solo linguaggio cinematografico.

La situazione in Italia non è migliore! Lina Wertmüller è una grande regista italiana. La sua carriera esplose negli anni ’70, insieme ad un altro grande nome della cinematografia al femminile: Liliana Cavani. Da sempre messe a confronto, queste due artiste, usano un registro cinematografico totalmente diverso (la Wertmüller più tendente alla dark commedy, la Cavani più inquieta e tragica). Diverse, eppure rivoluzionare. Diverse ed entrambe discriminate. Nonostante l’immensa stima di grandi intellettuali del tempo (uno fra tutti fu Pasolini), queste due artiste non hanno mai ricevuto il giusto riconoscimento. Oggi la situazione non è diversa. Abbiamo Cristina Comencini, Maria Sole Tognazzi: ancora, due figlie d’arte; una figlia del noto regista Luigi Comencini e l’altra figlia dell’attore Ugo Tognazzi. Entrambe di “stirpe reale”. La Comencini riuscì quasi a far breccia nel cuore dell’Academy con il film “La bestia nel cuore” nel 2006, ahimè, fallendo (l’Oscar andò al sud africano “Il suo nome è Tsotsi”).

Dopo questa breve carrellata di nomi, ci rendiamo conto del perché le donne rappresentano solo il 25% degli iscritti delle scuole di regia ed appena il 17% in quelle di cinema. Le ragazze sono scoraggiate dagli stessi numeri del botteghino e dalla “sola” produzione globale: solo il 9,2% dei film è diretto da donne! L’industria cinematografica non intende investire in produzioni “femminili”, per questo le donne sono sempre “relegate” nel filone del cinema indipendente. Film di spessore intellettuale\artistico, ma poco pubblicizzati per mancanza di una casa di distribuzione. Si sa, l’arte non è commerciale. Eppure gli stessi critici, ritengono che una produzione filmica con donne alla regia, avrebbe il prorompente effetto di cambiare radicalmente il modo in cui le donne vengono rappresentate sullo schermo: verrebbero infranti i tabù della sessualità, della “figura materna” e delle stesse condizioni sociali. Crediamo di vivere in una società post-femminista, eppure una donna “al potere” è ancora un elemento di scandalo e discussione. Qual è il problema? La paura di un cambiamento radicale o la perdita di una società (o industria artistica) fallocentrica?

 

Sabrina Monno

 

Nata a Bari nel febbraio del 1996, laureata presso la facoltà DAMS di Bologna e studentessa presso Accademia Nazionale del Cinema, corso regia-sceneggiatura. Lavora prevalentemente in teatro, curando reading di lettura e sceneggiature.