Riportiamo un editoriale dei compagni di CortocircuitO che affrontano il tema dell’alimentazione su scala mondiale nel capitalismo da un punto di vista materialistico e di classe.


 

Viviamo un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive è arrivato ad un punto tale che la produzione su scala di massa e la circolazione del cibo a livello mondiale ci appaiono come cose scontate: è la globalizzazione. Tuttavia, persiste una contraddizione di fondo lacerante e palese. Nonostante si producono enormi quantità di alimenti e li si possa trasferire ovunque in giro per il mondo, miliardi di persone continuano a morire di fame: è la proprietà privata dei mezzi di produzione. Coltivazioni e allevamenti intensivi, centri commerciali, fast food, scaffali e magazzini pieni di merce che rimane invenduta e una volta ammuffita viene buttata via piuttosto che soddisfare i bisogni delle persone socializzando questo bene primario: è il capitalismo.

Il legame strettissimo che esiste tra uomo e alimentazione è dovuto al fatto che nutrirsi è un bisogno primario e imprescindibile di qualunque persona. Banalmente, se non mangi muori. Storicamente fu la scoperta delle prime forme di agricoltura e coltivazione della terra che avviarono il processo di divisione del lavoro e gettarono le basi per lo sviluppo delle prime comunità agricole. Questo processo dette vita alla divisione in classi della società e da allora, passando per tutte le epoche, questa è alla base di qualunque sistema sociale.

La moderna società capitalista grazie allo sviluppo delle conoscenze tecniche e di produzione industriale ha portato la produzione alimentare ad un livello di massa su scala mondiale. La tendenza implicita del capitale di concentrarsi in sempre minor mani si manifesta nella filiera alimentare nella costituzione di enormi cartelli dell’alimentazione: vere e proprie multinazionali che attraverso un sistema di scatole cinesi controllano la maggior parte dei marchi e delle aziende. Queste multinazionali, oltre ad appropriarsi di gran parte del giro d’affari, sono anche i principali responsabili della qualità del cibo che mangiamo.

L’industria alimentare non ha nessun interesse a fornirci alimenti genuini o di qualità. Il suo unico interesse è macinare profitti ed è disposta a tutto per raggiungere il suo fine. Queste multinazionali per suscitare l’appetito in corpi sazi e provocare nelle persone un effetto dipendenza da un alimento, spendendo milioni in ricerche di settore per capire quali ingredienti stimolino particolari ricettori del nostro cervello che ci fanno provare piacere e saltare i freni inibitori. Per questo la maggior parte dei prodotti industriali sono pieni di sale, zuccheri e grassi, fregandosene se questi ingredienti sono i più dannosi per la salute delle persone perché aumentano ipertensione e colesterolo. Altrimenti, che ne sarebbe delle multinazionali del farmaco? Ancora una volta, invece di utilizzare la scienza per migliorare la vita delle persone questa viene impiegata per aumentare i profitti di pochi.

La produzione capitalista si orienta sempre all’aumento dei volumi produttivi per abbattere i costi di produzione. Questo inevitabilmente influisce sulla qualità del cibo che finisce sulle nostre tavole. Per mantenere un ciclo costante e una resa elevata della produzione vengono adoperate sostanze nocive come pesticidi, diserbanti, antibiotici, ormoni, coloranti e conservanti. La quantità di queste sostanze, molte delle quali tossiche, vengono calcolate attraverso particolari statistiche che contemplano un utilizzo limitato di questi elementi e non tengono conto che un uso periodico influisce sul nostro organismo danneggiando gli organi interni dell’apparato digestivo. Particolarmente colpiti sembrano essere fegato, stomaco e intestino, mentre l’indebolimento delle nostre difese immunitarie porta a malattie croniche anche gravi come allergie, infiammazioni, cirrosi, gastriti e peritonite. É dimostrato che l’emergere negli ultimi anni di malattie su vasta scala quali celiachia, problemi gastrointestinali, riduzione ormonale e sterilità siano dovute anche alle sostanze presenti negli alimenti e al loro effetto sul nostro organismo nel medio-lungo periodo.

Coltivazioni e allevamenti intensivi non sarebbero dannosi in quanto tali, ma lo diventano perché sottoposti all’interesse di chi detiene queste multinazionali. L’organizzazione e il metodo della produzione industriale potrebbero fornire ai lavoratori un controllo su ogni singolo passaggio della filiera alimentare. Ma questo in un regime capitalista è completamente ribaltato a vantaggio dei pochi consigli di amministrazione che hanno modo di imporre la qualità della produzione e del prodotto finito a discapito dei lavoratori e del consumatore finale, che spesso sono la stessa persona. Nulla importa a chi detiene la proprietà di questi colossi se l’ambiente viene inquinato o la salute delle persone messa a repentaglio. Questi individui hanno come unico mantra il profitto con buona pace del loro karma. Non a caso gran parte dell’inquinamento avviene nella fase produttiva attraverso un continuo imballaggio e trasferimento delle merci da un sito all’altro solo per per abbattere i costi del lavoro, cercando posti dove la manodopera costa di meno. Tutto ciò è funzionale a questo sistema per sfruttare all’estremo la produzione alimentare e provare a ricavarne il massimo profitto. L’estrema conseguenza di questo sfruttamento della produzione si manifesta in una serie di frodi sanitarie o commerciali come alterazioni, contraffazioni e adulterazioni degli alimenti, dove per chi acquista questi prodotti oltre al danno c’è pure la beffa.

Il capitalismo trasforma qualunque cosa in una merce e questa sorte tocca anche agli alimenti. Le conoscenze tecnologiche riescono a sottomettere le forze della natura e a fornirci prodotti in quantità industriali in qualunque periodo dell’anno e con qualsiasi provenienza. Spesso la moda culinaria del momento predilige prodotti alimentari esotici che hanno gli stessi valori nutrizionali e proprietà benefiche di altri prodotti locali solo perché maggiormente redditizi e quindi dediti all’export di lusso. L’attuale società impone nei paesi capitalisticamente avanzati un ciclo continuo di alimenti per riempire scaffali e frigoriferi di centri commerciali, fast food e ristoranti. Enormi quantità di cibo, dopo aver passato una selezione che scarta gli alimenti visivamente imperfetti, rimangono comunque invenduti a causa dell’impossibilità di essere riacquistati tutti ed inevitabilmente vengono buttati via. Questo è un gigantesco spreco alimentare, di risorse, acqua e territorio agricolo, a dispetto dei paesi più poveri e sottosviluppati che soffrono fame e malnutrizione.

Viviamo una cocente contraddizione. Da una parte, nei paesi sviluppati si muore per troppo mangiare. Il carattere frenetico e irrazionale del libero mercato produce un consumo altrettanto frenetico e irrazionale che provoca gravi problemi sanitari quali obesità, malattie cardiovascolari, diabete ed altri disturbi legati al comportamento alimentare come anoressia e bulimia. Dall’altra parte, invece, il 50% della popolazione mondiale vive con meno di 2 dollari al giorno e per 800 milioni di persone c’è l’indigenza assoluta. É di questi giorni l’allarme carestia che colpisce i paesi più arretrati del mondo nonostante dai paesi occidentali arrivi un flusso continuo di risorse e aiuti umanitari. L’assistenzialismo andando incontro all’emergenza del momento non risolve mai il problema alla radice e funziona da palliativo: non appena scoppia una nuova emergenza concentra su quella l’attenzione adombrando quella vecchia. La soluzione al problema non può essere ricercata nelle campagne, pur giuste, di donazione alimentare nei supermercati o economiche. È provato che la quantità di cibo buttato via basterebbe a sfamare le popolazioni che non lo hanno. Ogni anno, infatti, 1/3 del cibo prodotto a livello mondiale, 1,3 miliardi di tonnellate, viene buttato via nonostante sia ancora commestibile e l’80% di questo spreco avviene nella fase di lavorazione tra produzione primaria, raccolto, distribuzione e trasformazione, mentre solo il 20% dello spreco alimentare avviene nei ristoranti e a livello domestico. Per il capitalismo se hai soldi devi mangiare in maniera compulsiva fino a scoppiare; se non hai soldi devi morire di fame sperando che qualcuno ti regali qualche briciola. Ciò che va messo in discussione è l’intero modello di produzione e appropriazione di beni e servizi.

Periodicamente il grande capitale mette in campo campagne e iniziative di sensibilizzazione che sono il massimo dell’ipocrisia. Un esempio su tutti è la Carta di Milano redatta in occasione dell’Expo universale del 2015 e promossa da multinazionali come Barilla, Mcdonald’s e Coca Cola. Questo documento non è altro che una serie di generici punti di principio su quanto siano inaccettabili le diseguaglianze senza nessun impegno concreto. Multinazionali che ci insegnano i numeri della fame nel mondo, dello spreco alimentare e della necessità di riutilizzare gli avanzi: se non si parlasse della sofferenza di milioni di persone sarebbe una parodia comica da far invidia a Mel brooks. Queste campagne sono delle vere e proprie truffe dove dietro alla facciata equo e solidale c’è la necessità del grande capitale di lavarsi la coscienza senza fare nulla di concreto. Caso emblematico è la crociata contro l’olio di palma che è stato preso a pretesto come male assoluto da rimuovere dagli alimenti, quando studi scientifici dimostrano che le sue proprietà nutrizionali sono simili se non migliori di quelle del burro. Una volta individuato il capo espiatorio ci si può permettere di chiudere gli occhi, le orecchie e la bocca su tutto il resto.

Nel corso degli anni contro la globalizzazione alimentare sono nate per reazione varie teorie alimentari alternative che però non centrano il nocciolo del problema. Vegani, naturalisti, bio, coltivatori sinergici, equo-solidali, km-0, slow food, finiscono per giocare sul terreno delle rivendicazioni alimentari il ruolo che il riformismo gioca in campo politico. Non mettendo in discussione il sistema nel suo complesso ma criticandone soltanto un sintomo finiscono per provare a migliorarlo e correggerlo attraverso un impegno personale, prestando così il fianco ad un business parallelo gestito da multinazionali e grandi aziende. L’aspetto etico e morale non riesce a ribaltare un mercato mondiale che gira intorno alla necessità di miliardi di persone di nutrirsi con costi contenuti e impegnando poco tempo per farlo. Il consumo critico o alternativo finisce così per diventare un mercato di nicchia, qualcosa che solo un élite di consumatori riesce ad applicare al loro stile di vita, rimanendo impossibile da riprodurre su scala mondiale.

Per quanto ti sforzi di evitare di mangiare la carne per le terribili condizioni di allevamento a cui sono sottoposti gli animali, finirai comunque per nutrirti di riso prodotto da un contadino indiano indebitato a vita con la Monsanto per ripagargli semi, pesticidi e diserbanti o soia che proviene da coltivazioni che quotidianamente disboscano la foresta Amazzonica. Anche le teorie del “piccolo è bello” e “del ritorno alle radici” sono impraticabili perché se portate alle estreme conseguenze presuppongono un ritorno al sistema produttivo del Medioevo. Dietro a queste teorie alternative spesso si nasconde uno sfruttamento del lavoro e della produzione da far invidia a quelle “ufficiali”. Il modello delle auto produzioni, per esempio, per far fronte ai ritmi imposti dal mercato prevede un auto sfruttamento delle persone coinvolte nella filiera, generando una strana forma di masochismo alimentare. Oltre c’è l’infamia pura, ovvero aziende come Eataly o il marchio Solidal di Coop, che per quanto si sforzino di presentarsi come genuine sono in realtà più marce del dipinto di Dorian Gray. Che equità ci potrà mai essere tra un raccoglitore di fave di cacao in Brasile e Oscar Farinetti o Marco Pedroni, Amministratore Delegato di Coop?

Da un rompicapo di queste dimensioni non se ne esce con qualche scorciatoia. Abbiamo bisogno di sfamare 7 miliardi di persone e in prospettiva molte di più, ma rispettando l’ambiente e l’ecosistema. Per questo motivo non esiste altra via d’uscita che mettere in discussione l’intero modello produttivo: nel caso specifico quello della filiera alimentare. La produzione su scala di massa a livello globale non è sbagliata di per sé. Ciò che va messo in discussione è la proprietà privata dei mezzi di produzione, il vincolo che genera tutte le contraddizioni di questo sistema. Non potendo né aggirare né scavalcare questo vincolo non rimane che superarlo per dar vita ad una politica alimentare razionale e pianificata su scala mondiale, che abbia come finalità quella di produrre alimenti, soddisfando le reali esigenze della popolazione mondiale. Ma perché ciò avvenga è necessario porre l’aspetto decisionale di cosa, come e quando produrre sotto il controllo diretto dei lavoratori. Di più, questo deve essere unito ad una continua ricerca scientifica che potrà fornire all’umanità del domani una corretta alimentazione che tenga conto del rispetto ecologico dell’ambiente e delle realtà locali, così come degli aspetti nutrizionali e di prevenzione sanitaria degli alimenti.

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.