Qualche giorno fa, il 5 agosto, è stato il 79esimo anniversario della pubblicazione del Manifesto della razza del regime fascista, documento che tristemente sembra non discostarsi troppo dal nostro presente, segnato da un’onda crescente di odio razzista.

Queste righe cercheranno di non essere la solita ripetizione di un inno all’uguaglianza e fratellanza che dovrebbe farci sentire un unico popolo “solamente” perché figli della stessa terra, cercheranno anzi di fornire delle basi scientifiche per la comprensione del concetto di razza, di dove e perché ha avuto origine e perché secondo biologi antropologi ed umanisti non è un termine appropriato per il genere umano.

Spesso anche parole utilizzate nel quotidiano non sono comprese nel loro significato più profondo e ancor meno nel contesto storico in cui si sono originate. Questo vale sicuramente anche nel caso del termine “razza”, che in Italia si diffonde alla fine del Duecento, come derivazione dal francese antico haraz, ovvero “allevamento di cavalli” (Gianfranco Contini, 1959). Si tratta quindi di un termine che andrebbe usato in ambito zootecnico, visto che il concetto di allevamento è strettamente legato alla selezione creata dagli incroci decisi dall’allevatore. Ma che cosa può avere a che fare questo con la diversità umana? Siamo forse il risultato di incroci decisi a tavolino? Di come questa parola sia arrivata all’utilizzo che se ne fa oggi non è chiaro da un punto di vista filologico, fatto sta che nel terzo millennio riscuote ancora un certo successo l’idea che la diversità biologica umana possa essere descritta da pochi gruppi, ad esempio bianchi (europei), neri (africani), gialli (asiatici); molto diversi tra loro e, a un tempo, omogenei al loro interno. Questo schema, secondo alcuni, riguarderebbe non solo la distribuzione dei caratteri ereditari, ma addirittura le capacità cognitive e le qualità morali. Quei gruppi sono appunto le “razze umane” ed ecco come le descriveva Joseph-Arthur de Gobineau nel suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane del 1853:

«Esistono tre razze: Bianca (Caucasica), Nera (Camerica) e Gialla (Altaica); i tre elementi puri e primitivi dell’umanità da cui derivano tutte le altre razze (secondarie e terziarie). La varietà negra è la più umile, il carattere di animalità impressa nella forma del bacino le impone il suo destino fin dalla nascita. I Gialli mostrano in ogni cosa tendenza alla mediocrità. I Bianchi mostrano un’immensa superiorità nel campo dell’intelligenza.»

Il diplomatico francese con questo saggio poneva le basi del razzismo europeo moderno, teorizzando la superiorità intrinseca (oggi diremmo “biologica”) dei popoli di pelle bianca sugli altri abitanti del pianeta, e mettendo in guardia i suoi contemporanei dalla mescolanza con genti di colore, che avrebbe inevitabilmente determinato il declino della civiltà occidentale. Gobineau attribuiva ai tedeschi il primato della purezza razziale, e non sorprende che fu proprio in Germania, dove andava già sviluppandosi un movimento razzista autoctono, che la sua visione prese piedi in molte menti: fra le più note Wagner, Nietzsche, Hitler, fino a giungere in Italia nei dieci punti del manifesto della razza del regime fascista.

I progressi della scienza però, soprattutto in campo genetico, hanno confutato le teorie di Gobineau o di un qualsivoglia razzista di qualsivoglia epoca: non esistono fattori biologici che conferiscano ai bianchi una superiorità innata. Il colore della pelle e la forma del corpo rappresentano semplici adattamenti al clima di diverse regioni. Basti pensare alla brevità della storia evolutiva di Homo sapiens che trova origine in Africa circa 200.000 anni fa (che corrisponde a circa un quinto della vita vissuta dalle altre specie del genere Homo), ma soprattutto alla migrazione della nostra specie dall’Africa avvenuta in tempi molto più recenti, solo 60.000 – 45.000 anni fa, un tempo di per sé limitato per una differenziazione degna di questo nome tra i gruppi umani. C’è inoltre da considerare un contorno di intensi scambi genetici tra i popoli, amplificati oggi dalla globalizzazione, e una serie di catastrofi naturali tra glaciazioni ed eruzioni vulcaniche che hanno più volte ridotto la variabilità genetica della specie umana.

Dobbiamo quindi ricordarci che discendiamo tutti da quelle poche migliaia di individui che sono sopravvissuti di caccia e raccolta fino a quando, con l’agricoltura e l’allevamento prima, con la civilizzazione e con l’era industriale poi, siamo diventati milioni e poi miliardi, in un tempo così ristretto che le differenze somatiche che si possono notare tra due persone provenienti da continenti diversi, non sono nulla in confronto alle caratteristiche che condividono.

In ogni modo, pur ammettendo una uguaglianza globale a livello biologico, c’è chi avrebbe da ridire sul piano culturale. Una delle convinzioni più comuni, propria persino di alcuni soggetti che si reputano antirazzisti, è quella secondo la quale le popolazioni indigene che ancora oggi esistono e vivono come se fossero “nell’Età della pietra”, hanno per definizione un quoziente intellettivo inferiore a quello dei popoli civilizzati. Non c’è niente di più sbagliato:

«Gli psicologi hanno tentato in tutti i modi di scoprire differenze innate nel quoziente intellettivo di persone provenienti da diverse aree geografiche: pensiamo agli sforzi fatti dai ricercatori americani (bianchi) per dimostrare che i neri di origine africana sono meno intelligenti. Ma com’è noto, questi studi sono viziati dal fatto che le differenze tra i gruppi etnici sono enormi soprattutto dal punto di vista sociale, e le nostre abilità cognitive da adulti sono influenzate dall’ambiente in cui trascorriamo l’infanzia. Inoltre, i tipici test intellettivi tendono a misurare le abilità culturali e non una fantomatica “intelligenza innata”. Per queste ed altre ragioni, gli sforzi degli psicologi sono risultati vani: non esiste nessuna prova convincente del fatto che i non bianchi abbiano un quoziente intellettivo intrinsecamente minore dei bianchi. Le mie idee in materia vengono da 33 anni di lavoro con i guineani all’interno della loro società fin dall’inizio, mi sono accorto quanto fossero in media più intelligenti, attenti, espressivi e interessati a cose e persone di un europeo o di un americano tipo. Riescono assai meglio degli occidentali in alcuni compiti che richiedono, con tutta ragionevolezza, capacità superiori – come il crearsi una mappa mentale di un ambiente non familiare. Naturalmente, i guineani fanno peggio degli occidentali laddove si tratti di usare competenze che a noi sono state fornite fin dall’infanzia: un analfabeta che viene dal suo villaggio in città sembra decisamente stupido ai nostri occhi. Ma pensate quanto devo sembrare stupido io ai loro occhi quando sono nella giungla, del tutto incapace di svolgere compiti semplici – come seguire una pista o costruire un riparo – a cui essi sono abituati fin dall’infanzia. » (da “Armi, acciaio e malattie” di Jared Diamond)

Come è già stato accennato all’inizio, il razzismo ancora una volta sembra guadagnare terreno, soprattutto in periodi come questo in cui il capitalismo in crisi scatena effetti collaterali. La guerra tra poveri fa comodo al capitale, perché le persone vedono come causa primaria del proprio malessere economico e sociale l’extracomunitario che abbandona la sua terra e vaga disperatamente in cerca di una vita migliore. Queste persone scappano da guerre e situazioni di estrema povertà determinate dallo sfruttamento delle potenze imperialiste occidentali che ormai va avanti da secoli, causando migrazioni forzate di interi popoli. Si può dire quindi che il sentimento razzista, che da il meglio di sé la domenica pomeriggio sul litorale della capitale, nasce proprio da quella mancata visione d’insieme che consente di arrivare alla radice di un problema. L’italiano medio allora sfoga le sue frustrazioni sul ragazzo nigeriano che per sopravvivere cerca di vendergli un accendino, continuando a pensare che se sta in quelle condizioni è perché evidentemente non è in grado di far altro, e ignorando il fatto che se proprio fosse fondamentale distinguere l’uomo in razze ne esisterebbero soltanto due: sfruttatori e sfruttati, e probabilmente apparterrebbero entrambi a quest’ultima.

Fonti: “Italiani, come il DNA ci aiuta a capire chi siamo “ di Giovanni Destro Bisol e Marco Capocasa; “Armi, acciaio e malattie “ di Jared Diamond.

Di Bierre