Spesso si sente dire che lo Stato Islamico è quasi sconfitto, o per lo meno fortemente ridimensionato, grazie agli attacchi militari subiti che ne hanno ridotto il territorio e le risorse economiche. Eppure proprio questo declino in Medio Oriente rischia di rendere ancora più imprevedibili e pericolosi i prossimi attacchi e sviluppi.

Se c’è una cosa di cui tenere conto è il fatto che l’Isis ha rivoluzionato le strategie di comunicazione del jihad, creando un sistema di diffusione coinvolgente, ben strutturato ed estremamente ramificato. È questo lo scopo per il quale ha scelto nella sua comunicazione un target più giovanile, più sensibile a un linguaggio retorico-utopistico focalizzato sull’idea della “lotta” e della “resistenza” contro gli infedeli. Un modo di comunicare importante, perché oltre a svolgere una funzione di proselitismo in Occidente rassicura i miliziani in Siria e Iraq sul fatto che, nonostante le sconfitte subite, la guerra non è finita: anzi si allarga sempre di più a livello planetario.

Architetto del jihad globale, Mustafa Setmariam Nasar, noto come Abu Musab al-Suri, sarebbe l’inventore del jihad diffuso e molecolare. Catturato nell’ottobre 2005 in Pakistan, fu trasferito agli americani e consegnato al regime di Assad. Sua l’intenzione era dare vita a una resistenza islamica globale, anticipando persino la dichiarazione pubblica di guerra all’Occidente da parte di Osama bin Laden.  Una campagna terroristica affidata a reti di propaganda, una rivolta popolare auto-organizzata, priva di strutture gerarchiche, condotta da cellule di militanti unite solo dall’ideologia comune e dall’obiettivo ultimo dell’instaurazione del Califfato: questi i punti cardine dei suoi scritti. Una dottrina tutt’altro che marxista, che ricorda in parte quella espressa nel Libro Verde da Gheddafi, ispiratosi a sua volta alle Citazioni dalle opere di Mao Tse-tung –il famoso Libretto rosso–, in cui viene esposta in maniera succinta una visione personalizzata di democrazia ed economia, alternativa a capitalismo e comunismo, e in cui si ipotizzano forme di democrazia diretta basate su comitati popolari. Non è un caso che nemmeno sul piano della duttilità strategica le tesi pratiche del siriano recuperino tattiche e strategie dei movimenti maoisti.
Un jihad ammantato di retorica teologica ma secolarizzato, politico, pragmatico e fondato sulla convinzione, ieri come oggi, che il terrorismo sia un dovere religioso. Alienazione strutturale e vuoti idealistici da colmare, chiara conseguenza dell’assenza di un’istituzione politica internazionale di riferimento, di un partito rivoluzionario sufficientemente radicato a livello mondiale da impedire che alla rivoluzione proletaria seguano controrivoluzioni o scorciatoie, come quella di pensare che qualche colonnello con la camicetta rossa, o qualche cervello autosacraficatosi sull’altare del potere ammantato di sacro, possa, seppur di lontano, avere una qualche attinenza con la realizzazione di una società socialista.
Cos’altro è infatti una rivoluzione se non un processo, una lotta contro il sistema socio-economico dominante, nel cui quadro un partito rivoluzionario agisce per aiutare le masse comprendere la necessità della presa del potere da parte dei lavoratori, della rivoluzione sociale proletaria? In questa lotta non rientrano di certo né il jihad né la costituzione di un Califfato. Quale altro senso rappresenta la costruzione di un partito rivoluzionario, se non quello di portare il socialismo nella lotta di classe? Non dovrebbe risultare difficile constatare che la reale violenza prodotta dal sistema capitalistico genera, per il principio di azione e reazione, una sola reale violenza, che è quella del proletariato. Diventa sempre più necessario pertanto, più che ad analisi di specie o di storia delle civiltà fondate sullo scontro tra popoli e culture religiose, ricorrere ad analisi di classe e alla storia delle lotte di classe per poter inquadrare meglio fenomeni profondamenti reazionari come Isis e consimili.

Kenzo

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