Nel testo che ripubblichiamo,  Lev Trotsky analizza le oscillazioni dell’economia capitalistica segnate da periodi di espansione economica alternati a periodi di crisi. In particolare, Trotsky spiega il carattere ciclico e congiunturale di tali crisi associando tali fasi a precise tappe della società borghese. In questo nesso, caratterizza le contraddizioni che possono aprirsi sia in fasi di boom economico che di crisi attaccando le visioni meccaniciste di chi vedrebbe l’associarsi di un periodo di ascesa del movimento operaio alla crisi del capitalismo. Tale critica rimanda anche a una visione meccanicista dei fenomeni politico, economico e sociali dimostrando come la determinazione di una fase storica è determinata dal compenetrarsi di aspetti sia oggettivi che soggettivi.Il mondo capitalista entra in un periodo di ripresa industriale. Si alternano boom a recessioni – una legge organica della società capitalistica. L’attuale boom in nessun modo indica un equilibrio stabile nella struttura di classe. Una crisi spesso aiuta la crescita di stati d’animo riformisti e anarchici tra i lavoratori. Il boom aiuterà le masse lavoratrici a riaggregarsi.


La congiuntura economica e il movimento operaio mondiale

I

I sintomi di una nuova marea rivoluzionaria appaiono evidenti nel movimento operaio europeo. È impossibile prevedere cosa essa porterà con sé, con le sue gigantesche e avvolgenti onde, ma non c’è dubbio che la curva degli sviluppi rivoluzionari sta oscillando verso l’alto.

Il periodo più critico nella vita del capitalismo europeo è venuto nel primo anno successivo alla guerra, il 1919. Le più alte manifestazioni di lotta rivoluzionaria in Italia (nei giorni del settembre del 1920), si sono verificate quando i momenti più acuti della crisi politica in Germania, Inghilterra, Francia, sembravano essere già superati. Le giornate di marzo di quest’anno in Germania sono state quasi un’eco tardiva di un ‘epoca rivoluzionaria passata, e non dell’inizio di una nuova. Nei primi mesi del 1920, il capitalismo e il suo stato, dopo aver prima consolidato le sue posizioni, già era passato all’offensiva. Il movimento delle masse lavoratrici aveva assunto un carattere difensivo. I partiti comunisti si erano persuasi di essere in minoranza, e in certi momenti sembravano essere isolati dalla stragrande maggioranza della classe operaia. Da qui la cosiddetta “crisi” della Terza Internazionale. Al momento, come ho detto, si vede chiaramente un punto di svolta. L’offensiva rivoluzionaria delle masse operaie sta montando. Le prospettive di lotta stanno diventando sempre più ampie.

Questa successione di fasi è il prodotto di cause complesse di diversa natura, ma in fondo, esse deriva dai forti zig zag della congiuntura economica che rispecchiano lo sviluppo capitalistico del dopoguerra.

Le ore più pericolose per la borghesia europea sono venute durante il periodo di smobilitazione, con il ritorno dei soldati ingannati alle loro case e con la loro ricollocazione all’interno degli alveari della produzione. I primi mesi del dopoguerra generarono grandi difficoltà che hanno contribuito a aggravare la lotta rivoluzionaria. Ma le cricche borghesi dominanti si corressero in tempo e portarono avanti una politica finanziaria e governativa su larga scala intesa a mitigare la crisi prodotta dalla smobilitazione. Il bilancio dello Stato ha continuato a mantenere le proporzioni mostruose dell’epoca della guerra, molte imprese sono state artificiosamente tenute in vita; molti contratti sono stati prorogati per evitare la disoccupazione, gli appartamenti sono stati affittati a prezzi che non permettono la riparazione degli edifici, il governo sovvenziona ben oltre il suo bilancio l’importazione di pane e carne. In altre parole, il debito pubblico si è accumulato, la moneta è stata svalutata, le fondamenta dell’economia sono state indebolite – tutto per l’obiettivo politico di prolungare la prosperità economica e commerciale fittizia degli anni della guerra. Questo ha dato l’opportunità ai circoli industriali dominanti di rinnovare i macchinari delle grandi imprese e riconvertirli per i tempi di pace.

Ma contro questo boom fittizio si stagliò immediatamente l’impoverimento generale. L’industria dei consumi è stata la prima ad arrivare a un punto morto a causa della capacità estremamente ridotta del mercato, e alzò le prime barriere della sovrapproduzione che ha poi ostacolato l’espansione dell’industria pesante. La crisi ha assunto dimensioni e forme senza precedenti. Iniziando in primavera attraverso l’Atlantico, la crisi si diffuse in Europa a metà del 1920 e ha raggiunto il suo punto più basso nel maggio 1921, nell’anno che volge al  termine.

Così, mentre si determinava la crisi commerciale-industriale aperta e inconfondibile del dopo guerra (dopo un anno di prosperità fittizia), il primo assalto, elementare, della classe operaia sulla società borghese era già nelle sue fasi finali. La borghesia è stata in grado di resistere con vari espedienti, facendo concessioni, e in parte resistendo militarmente. Questo primo assalto proletario è stato caotico – senza obiettivi politici e idee, senza alcun piano, senza alcuna direzione di primo piano. Il decorso e l’esito di questo assalto iniziale ha dimostrato ai lavoratori che cambiare il loro destino e ricostruire la società borghese è un affare molto più complicato di quello che avevano potuto pensare durante le prime manifestazioni di protesta del dopoguerra. Relativamente omogenei per quanto riguarda l’incipienza del loro stato d’animo rivoluzionario, le masse lavoratrici cominciarono presto a perdere la loro omogeneità con una differenziazione al proprio interno. La parte più dinamica della classe operaia, e quella più vincolata alle tradizioni del passato, dopo aver appreso attraverso l’esperienza la necessità di una chiarezza ideologica e di una fusione organizzativa, si raggruppò nel Partito Comunista. Dopo i fallimenti, gli elementi più conservatori o meno coscienti rifuggirono temporaneamente dagli obiettivi e dai metodi rivoluzionari. La burocrazia operaia approfittò di questa divisione al fine di ripristinare le proprie posizioni.

La crisi industriale-commerciale del 1920 scoppiò in primavera e in estate, come è stato detto, in un momento in cui la reazione politica e psicologica erano già addentro la classe operaia. La crisi indubbiamente aumentò il malcontento tra settori considerevoli della classe operaia, provocando qua e là manifestazioni tempestose di insoddisfazione. Ma dopo il fallimento dell’offensiva del 1919, e con la conseguente differenziazione che ebbe luogo, la crisi economica non può di per sé più ripristinare l’unità necessaria per il movimento, né essere la causa nel determinare un nuovo e più deciso assalto rivoluzionario . Questa circostanza rafforza la nostra convinzione che gli effetti di una crisi sul corso del movimento dei lavoratori non sono tutti così di carattere unilaterale come alcuni semplicisti possono immaginare. Gli effetti politici di una crisi (non solo la misura della sua influenza, ma anche la sua direzione) sono determinati dall’intera situazione politica esistente e da quegli eventi che precedono e accompagnano la crisi, in particolare le battaglie, i successi o le sconfitte della classe operaia stessa prima della crisi. Sotto un certo insieme di condizioni, la crisi può dare un impulso potente per l’attività rivoluzionaria delle masse operaie, sotto un diverso insieme di circostanze potrebbe paralizzare completamente l’offensiva del proletariato e, qualora la crisi dovesse durare troppo a lungo e gli operai dovessero subire troppe sconfitte, potrebbe indebolire di molto non solo il potenziale offensivo, ma anche quello difensivo della classe operaia.

Oggi, a posteriori, per illustrare questo pensiero, si potrebbe formulare la seguente proposizione: Avendo la crisi economica, con le sue manifestazioni della disoccupazione di massa e di insicurezza seguito direttamente la fine della guerra, la crisi rivoluzionaria della società borghese avrebbe dovuto essere molto più nitida e profonda nel carattere. Proprio per evitare questo, gli Stati borghesi sono riusciti a tenersi alla larga dalla crisi rivoluzionaria attraverso una prosperità basata sulla speculazione finanziaria, così, rinviando l’inevitabile crisi commerciale e industriale dai dodici a diciotto mesi, a costo di disorganizzare ulteriormente i propri rispettivi apparati finanziari ed economici. Per questa ragione, la crisi è diventata ancora più profonda e più acuta: in ordine di tempo, però, non ha coinciso con l’ondata turbolenta della smobilitazione post-guerra, ma venne invece nel momento in cui quest’ultima era già finita – in un momento in cui in un campo si stava traendo il bilancio e rieducandosi mentre l’altro campo era attraversato dalla disillusione e dalle fratture da essa derivanti. L’energia rivoluzionaria della classe operaia si stava rivolgendo al suo interno ed aveva trovato la sua espressione più evidente negli strenui sforzi per costruire il Partito Comunista. Quest’ultimo era immediatamente diventato la forza principale in Germania e in Francia. Con il passare del pericolo immediato, il capitalismo, dopo aver creato artificialmente una bolla speculativa nel corso del 1919, ha approfittato della crisi incipiente, al fine di togliere i lavoratori da quelle conquiste (le 8 ore, gli aumenti salariali), che i capitalisti avevano già ceduto ad essi come misure di autoconservazione. Combattendo battaglie di retroguardia, i lavoratori si ritirarono. Le idee di conquistare il potere, di stabilire repubbliche sovietiche, di portare avanti la rivoluzione socialista, naturalmente si affievolirono nella loro mente nel momento in cui si trovarono costretti a combattere, non sempre con successo, per mettere un argine alla velocità con cui i loro salari erano tagliati.

Anche dove la crisi economica non ha assunto la forma della sovrapproduzione e della disoccupazione acuta, ma ha preso invece una forma più profonda (come in Germania), col paese in bancarotta e il tenore di vita delle masse degradato, là l’energia della classe operaia, diretta verso l’aumento dei salari per compensare la diminuzione del potere d’acquisto del marco, assomigliava agli sforzi di un uomo che insegue la propria ombra. Come in altri paesi, il capitalismo tedesco passò all’offensiva; le masse lavoratrici, cercando di resistere, si ritirarono in disordine

È stata proprio in una situazione del genere che le giornate di marzo si sono verificate quest’anno in Germania. Il nocciolo della questione si riduce a questo: il giovane Partito comunista, spaventato dall’ovvio riflusso rivoluzionario del movimento operaio, ha attuato un tentativo disperato di sfruttare l’azione di uno dei settori più dinamici del proletariato al fine di “elettrizzante” l’insieme della classe operaia e di fare tutto il possibile per far venire i nodi al pettine, per accelerare la battaglia decisiva.

Il Terzo Congresso Mondiale del Comintern fu convocato sotto le impressioni a caldo degli avvenimenti di marzo in Germania. Dopo una attenta analisi, il congresso ha tratto tutte le conclusioni del pericolo insito nella mancanza di corrispondenza tra la tattica dell’ “offensiva”, la tattica dell’ “elettrizzazione” rivoluzionaria ecc. – e quei processi molto più profondi, che si stavano svolgendo all’interno dell’intera classe lavoratrice secondo le modifiche e i cambiamenti della situazione economica e politica.

Se ci fosse stato in Germania nel 1918 e il 1919 un partito comunista paragonabile a quello che esisteva nel marzo 1921, è molto probabile che il proletariato avrebbe preso il potere nel gennaio o marzo 1919. Ma non c’era nessun partito del genere. Il proletariato ha subito una sconfitta. Dall’esperienza di questa sconfitta, il Partito Comunista è cresciuto. Una volta arrivato a un certo stadio, se nel 1921 si fosse cercato di agire nel modo in cui il partito comunista avrebbe dovuto agire nel 1919, quest’ultimo sarebbe stato ridotto in mille pezzi. Questo è esattamente ciò che l’ultimo congresso mondiale ha chiarito.

La controversia sulla teoria dell’offensiva divenne strettamente intrecciata con la questione della valutazione della congiuntura economica e la sua evoluzione futura. I sostenitori più coerenti della teoria dell’offensiva svilupparono il seguente ragionamento: Il mondo intero è nella morsa di una crisi che è la crisi di un ordine economico in decomposizione. Questa crisi deve ineluttabilmente approfondirsi e quindi rendere rivoluzionaria la classe operaia sempre di più. In quest’ottica, era superfluo per il Partito Comunista tenere un occhio vigile sulle retrovie, sulle sue principali riserve, il suo compito era quello di assumere l’offensiva contro la società capitalista. Prima o poi il proletariato, sotto la sferza del declino economico, sarebbe venuto in suo appoggio. Questo punto di vista non ha raggiunto la platea del congresso in una forma definita, perché i suoi aspetti più spigolosi erano stati attenuati durante le sessioni della Commissione dedicata alla situazione economica. La sola idea che la crisi industriale-commerciale potrebbe cedere il passo ad un relativo boom è stata considerata dai seguaci coscienti e semi-coscienti della teoria dell’offensiva quasi come  una posizione centrista. Per quanto riguarda l’idea che la nuova ripresa del commercio e dell’industria non solo non avrebbe agito come freno per la rivoluzione, ma al contrario prometteva di imprimere nuovo vigore ad essa – questa idea sembrava già niente più che menscevismo. Lo pseudo-radicalismo dei “sinistri”(1) ha  trovato un’espressione tardiva e piuttosto innocente all’ultima conferenza del Partito comunista tedesco, dove è stata adottata una risoluzione in cui, mi si permetta una nota di passaggio, sono stato oggetto di una polemica personale, anche se ho espresso solo il punto di vista del comitato centrale del nostro partito. Mi riconcilio più facilmente con questa piccola e spietata vendetta dei “sinistri”, perché, nel complesso, la lezione del Terzo Congresso Mondiale non ha mancato di lasciare il segno su ognuno di noi, men che mai, sui nostri compagni tedeschi.

II

Ci sono segni inconfutabili oggi di una rottura della congiuntura economica. I luoghi comuni sull’effetto che la crisi attuale è la crisi definitiva del declino capitalista, che costituisce le basi di un’era rivoluzionaria, che può terminare solo con la vittoria del proletariato – luoghi comuni del genere non possono, ovviamente, sostituire una analisi concreta dello sviluppo economico insieme con tutte le conseguenze tattiche che ne derivano. È un dato di fatto, la crisi mondiale si fermò, come è stato detto, nel maggio di quest’anno. Segnali di miglioramento della congiuntura si sono dapprima rivelati nel settore dei beni di consumo. Dopodichè anche l’industria pesante ha ripreso a crescere. Oggi questi sono fatti incontrovertibili, che si riflettono nelle statistiche. Non aggiungo queste statistiche in modo da non rendere ancor più difficile per il lettore seguire il senso del discorso.

Ciò significa che il declino della vita dell’economia capitalista si è fermato? Che quest’economia ha ripreso il proprio equilibrio? Che l’era delle rivoluzioni si sta per chiudere? Per nulla. L’interruzione della crisi industriale significa che la decadenza dell’economia capitalistica e il corso dell’era rivoluzionaria sono molto più complessi di quanto certi semplicisti possono immaginare.

Il movimento dello sviluppo economico è caratterizzato da due curve di ordine diverso. La prima, e basilare. denota la crescita generale delle forze produttive, la circolazione delle merci, il commercio estero, le operazioni bancarie e così via. Nel complesso, questa curva si sposta verso l’alto nel corso dell’intero sviluppo del capitalismo. Essa esprime il fatto che le forze produttive della società e la ricchezza dell’umanità sono cresciute sotto il capitalismo. Questa curva di base, tuttavia, procede verso l’alto in modo non uniforme. Ci sono decenni in cui cresce in maniera impercettibile, quindi seguono altri decenni, di repentine oscillazioni verso l’alto, solo per poi, nel corso di una nuova epoca, a rimanere per lungo tempo su uno stesso livello. In altre parole, la storia conosce epoche di crescita rapida, così come di uno sviluppo più graduale delle forze produttive sotto il capitalismo. Così, prendendo il grafico riguardante il commercio estero inglese, possiamo stabilire senza difficoltà che mostra solo un aumento molto lento a partire dalla fine del Settecento fino alla metà del XIX secolo. Poi, in uno spazio di circa venti anni (1851-1873) esso cresce molto rapidamente. In epoca successiva (1873-1894) esso rimane praticamente invariato, e quindi riprende una rapida ascesa fino alla guerra.

Se esaminiamo questo grafico, la sua irregolare curvatura verso l’alto ci darà un quadro schematico del corso dello sviluppo capitalistico nel suo complesso, o in uno dei suoi aspetti.

Ma sappiamo che lo sviluppo capitalistico avviene attraverso i cosiddetti cicli industriali, che comprendono una serie di fasi consecutive della congiuntura economica: boom, stagnazioni, crisi, fine della crisi, miglioramenti, boom, stagnazione, e così via. Un’indagine storica mostra che questi cicli si susseguono ogni otto-dieci anni. Se sono stati immessi sul grafico, otterremmo, sovrapposta la curva di base che caratterizza la direzione generale dello sviluppo capitalistico, una serie di onde periodiche che vanno su e giù. Fluttuazioni cicliche della congiuntura sono insite in un’economia capitalistica, così come i battiti del cuore sono insiti in un organismo vivente.

Al boom segue la crisi, alla crisi segue il boom, ma nel complesso la curva del capitalismo è andata verso l’alto nel corso dei secoli. Chiaramente la somma totale dei boom deve essere stata superiore alla somma delle crisi. Tuttavia, la curva dello sviluppo ha assunto un aspetto diverso in epoche diverse. C’erano epoche di stagnazione dove le oscillazioni cicliche non cessavano. Ma dal momento che lo sviluppo capitalistico nel suo complesso ha continuato a crescere, ne consegue pertanto che la crisi ha quasi equilibrato i boom. Durante le epoche in cui le forze produttive ascendevano rapidamente verso l’alto, le oscillazioni cicliche continuato ad alternarsi. Ma ogni boom evidentemente muoveva più passi in avanti rispetto a quelli indietro da cui veniva gettato da ogni successiva crisi. Le onde cicliche possono essere paragonate alle vibrazioni di una corda di violino, supponendo che la linea di sviluppo economico assomiglia a una corda di violino in tensione: in realtà, naturalmente, questa linea non è rettilinea ma è una curvatura complessa.

Questa meccanica interna dello sviluppo capitalistico attraverso l’alternarsi incessante di crisi e di boom è sufficiente per mostrare come sia non corretta, unilaterale e non scientifica l’idea che la crisi attuale, mentre diventa sempre più grave, deve durare fino a quando non sia stabilita la dittatura del proletariato, indipendentemente da cosa accade l’anno prossimo, o tre anni e più da ora. Al contrario, oscillazioni congiunturali, si è detto nella nostra relazione e nella risoluzione del Terzo Congresso Mondiale, sono presenti nella società capitalista nella sua giovinezza, nella sua maturità e nella sua decadenza, così come il battito di un cuore accompagna un uomo, anche sul letto di morte. Non importa quali possano essere le condizioni generali, quanto profonda possa essere la decadenza economica, la crisi industriale-commerciale agisce per spazzare via le merci e le forze produttive eccedenti, e per stabilire una più stretta corrispondenza tra produzione e mercato, e per queste stesse  ragioni si apre la possibilità di un rilancio industriale.

Il ritmo, la portata, l’intensità e la durata della ripresa dipendono dalla totalità delle condizioni che caratterizzano la vitalità del capitalismo. Oggi si può affermare positivamente (lo abbiamo affermato nei giorni del Terzo Congresso Mondiale) che, dopo che la crisi ha raso al suolo il primo ostacolo, in forma di prezzi esorbitanti, il rilancio industriale incipiente, nelle condizioni del mondo attuale, può infrangere rapidamente un certo numero di altre barriere: il profondo turbamento degli equilibri economici tra l’America e l’Europa, l’impoverimento dell’Europa Centrale e Orientale, la disorganizzazione lunga e profonda dei sistemi finanziari, e così via. In altre parole, il prossimo boom industriale non riuscirà in nessun modo a essere in grado di ripristinare le condizioni per uno sviluppo futuro in alcun modo paragonabile alle condizioni pre-guerra. Al contrario, è molto probabile che dopo le sue prime conquiste questo boom si scontrerà contro le trincee economiche scavate dalla guerra.

Ma il boom è un boom. Ciò significa una crescente domanda di beni, un ampliamento della produzione, una riduzione della disoccupazione, l’aumento dei prezzi e la possibilità di salari più alti. E, in determinate circostanze storiche, il boom non attenuerà, ma acuirà la lotta rivoluzionaria della classe operaia. Questo deriva da tutto quanto precede. In tutti i paesi capitalistici il movimento operaio dopo la guerra raggiunse il suo picco e poi si concluse, come abbiamo visto, in un fallimento più o meno marcato e battè in ritirata aumentando il frazionamento all’interno della classe operaia stessa. Con tali premesse politiche e psicologiche, una crisi prolungata, anche se potrebbe senza dubbio aumentare la rabbia all’interno delle masse lavoratrici (in particolare tra i disoccupati e i semi-occupati), allo stesso tempo tenderebbe a indebolire la loro attività, perché questa attività è strettamente legata alla coscienza operaia del loro ruolo insostituibile nella produzione.

La disoccupazione prolungata dopo un’epoca di avanzate e di ritirate politiche avvenute in un contesto rivoluzionario non è detto che lavori a favore del Partito comunista. Al contrario più a lungo la crisi dura più si rischia di alimentare umori anarchici su un’ala e stati d’animo riformista, sull’altra. Questo fatto ha trovato la sua espressione nella scissione dei gruppi anarco-sindacalisti*dalla Terza Internazionale, in un certo consolidamento della Internazionale di Amsterdam e dell’Internazionale due e mezzo, nel temporaneo raggruppamento dei “serratiani”(2) , la scissione del gruppo di Levi (3), e così via. Al contrario, la ripresa industriale andrà, prima di tutto, ad aumentare la fiducia della classe operaia, compromessa dai fallimenti e dalla disunione nelle sue fila, ed è destinata a riunire insieme la classe operaia nelle fabbriche e negli stabilimenti e aumentare il desiderio di coesione nelle azioni militanti.

Stiamo già osservando l’inizio di questo processo. Le masse lavoratrici si sentono il terreno più solido sotto i loro piedi. Cercano di serrare le loro fila e percepiscono nettamente una scissione come un ostacolo all’azione. Cercano non solo di opporre una resistenza più coesa all’offensiva del capitale derivante dalla crisi, ma anche la preparazione di una controffensiva, sulla base di una ripresa industriale. La crisi ha rappresentato un periodo di speranze frustrate e di rabbia, rabbia non di rado impotente. Il boom nel suo divenire fornirà uno sbocco nell’azione per questi sentimenti. Questo è precisamente ciò che la risoluzione del Terzo Congresso, che abbiamo difeso, afferma:

“Ma anche se il tempo dello sviluppo dovesse rallentare e l’attuale crisi economica e commerciale dovesse essere sostituita da un periodo di prosperità in un numero maggiore o minore di paesi, questo non potrebbe in nessun caso significare l’inizio di un’epoca ‘organica’.  Finché esiste il capitalismo, le oscillazioni cicliche sono inevitabili. Esse accompagneranno il capitalismo nella sua agonia, così come  lo hanno accompagnato nella sua giovinezza e nella maturità. Nel caso in cui il proletariato dovesse essere costretto a ritirarsi davanti all’attacco del capitalismo nel corso della crisi attuale, esso riprenderà subito l’offensiva non appena ci sarà un miglioramento della situazione economica. Un’offensiva economica che sarebbe in tal caso condotta inevitabilmente sotto lo slogan di vendetta per tutti gli inganni del periodo di guerra e per tutti i saccheggi e gli abusi della crisi, e che tenderà a trasformarsi in una guerra civile, così come succede nella attuale lotta offensiva. “

III

La stampa capitalista suona la grancassa sui successi economici della “ripresa” e sulle prospettive di una nuova epoca di stabilità capitalista. Questa estasi è altrettanto infondata quanto le paure complementari dei “sinistri”, i quali credono che la rivoluzione si svilupperà dall’aggravarsi interrotto della crisi. In realtà, mentre la prosperità commerciale e industriale ventura implica dal punto di vista economico nuove ricchezze per i circoli dell’alta borghesia, tutti i vantaggi politici andranno a noi. Le tendenze verso l’unificazione all’interno della classe operaia sono solo l’espressione della crescente volontà d’azione. Se i lavoratori oggi chiedono che per il bene della lotta contro la borghesia, i comunisti debbano raggiungere un accordo con gli indipendenti e con i socialdemocratici, poi il giorno dopo – nella misura in cui il movimento cresce nella sua portata di massa – questi stessi lavoratori saranno convinti che solo il Partito comunista offre loro una direzione nella lotta rivoluzionaria. La prima ondata della marea porta con sè tutte le organizzazioni dei lavoratori e le spinge per arrivare a un accordo. Ma lo stesso destino attende i socialdemocratici e gli indipendenti: saranno inghiottiti uno dopo l’altro tra le onde della marea rivoluzionaria.

Questo significa – in contrapposizione ai partigiani della teoria dell’offensiva – che non è la crisi ma la ripresa economica che porterà direttamente alla vittoria del proletariato? Tale affermazione categorica sarebbe infondata. Abbiamo già dimostrato in precedenza che non esiste un meccanicismo, ma una complessa interdipendenza dialettica tra la congiuntura economica e il carattere della lotta di classe. È sufficiente per interpretare il futuro dire che stiamo entrando nel periodo della ripresa meglio armati di quando entrammo in un periodo di crisi. Nei paesi più importanti del continente europeo abbiamo dei forti partiti comunisti. L’interruzione della congiuntura ci apre senza dubbio di fronte a noi la possibilità di un attacco – non solo in campo economico, ma anche in campo politico. Si tratterebbe di una fatica inutile impegnarsi ora in speculazioni su dove finirà questa offensiva. È solo l’inizio, stiamo entrando in questa fase.

Un sofista può sollevare l’obiezione che se si concede che la ripresa industriale non deve necessariamente portarci direttamente alla vittoria, poi un nuovo ciclo industriale, ovviamente, starà a significare un altro passo verso il ristabilimento dell’equilibrio capitalistico. In tal caso non c’è il pericolo di una nuova epoca di restaurazione capitalista? A questo si potrebbe rispondere come segue: Se il partito comunista non riesce a crescere, se il proletariato non accresce la sua esperienza, se il proletariato non riesce a resistere in modo sempre più risolutamente rivoluzionario, se fallisce a passare alla prima occasione dalla difensiva all’offensiva, allora il meccanismo dello sviluppo capitalistico, sostenuto dalle manovre dello Stato borghese, potrebbe senza dubbio riuscire a riprendersi nel lungo periodo. Paesi interi sarebbe scagliati indietro economicamente nella barbarie; decine di milioni di esseri umani morirebbero di fame, con la disperazione nei loro cuori e sui loro corpi un nuovo tipo di equilibrio del mondo capitalista verrebbe ripristinato. Ma una tale prospettiva è pura astrazione. Sulla strada verso questo equilibrio speculativo capitalista ci sono molti ostacoli giganteschi: il caos del mercato mondiale, il sovvertimento del sistema valutario, il dominio del militarismo, la minaccia della guerra, la mancanza di fiducia nel futuro. Le forze elementari del capitalismo sono alla ricerca di vie di fuga in mezzo a cumuli di ostacoli. Ma queste stesse forze elementari sferzano la classe operaia e  la spingono in avanti. Lo sviluppo della coscienza della classe operaia non cessa anche quando si ritira. Infatti, pur perdendo posizioni, essa accumula esperienza e consolida il suo partito. Marcia in avanti. La classe operaia è una delle condizioni dello sviluppo sociale, uno dei fattori di questo sviluppo, ed inoltre il suo fattore più importante, perché rappresenta il futuro.

La curva fondamentale dello sviluppo industriale è alla ricerca di strade verso l’alto. Il movimento è reso complesso dalle fluttuazioni cicliche, che nelle condizioni del dopoguerra assomigliano a spasmi. È naturalmente impossibile prevedere in quale punto dello sviluppo si verificherà una tale combinazione di condizioni oggettive e soggettive, da produrre una svolta rivoluzionaria. Né è possibile prevedere se questo avverrà nel corso della ripresa imminente, al suo inizio, o verso la sua fine, o con l’avvento di un nuovo ciclo. È sufficiente per noi sapere che il ritmo dello sviluppo può dipendere da noi, dal nostro partito, dalla sua tattica. È della massima importanza per noi tener conto della nuova svolta economica che può aprire una nuova fase nella riunificazione della classe e nella preparazione di un offensiva vittoriosa. Per il partito rivoluzionario capire ciò implica già di per sé un compendio di tutti gli intervalli di tempo e dei cambiamenti dell’epoca.

Note

*Il riferimento è alla KAPD che si era scissa dal Comintern e aveva cercato insieme con altri gruppi di istituire una organizzazione rivale (Nota dell’autore).


(1)Ci si riferisce alle tendenze estremistiche presenti nel KPD (il Partito Comunista Tedesco), che poi formarono il KAPD (Partito Comunista Operaio Tedesco)

(2)Si riferisce qui ai massimalisti del Partito Socialista Italiano, guidati da Giacinto Menotti Serrati (1876-1926), il cui gruppo entrò nel 1924 all’interno del Partito Comunista d’Italia
(3) Paul Levi (1883-1930) fu uno dei principali dirigenti del Partito Comunista Tedesco, sopravvissuto alla feroce repressione che costò la vita a Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht nel 1919. A inizio 1921 si dimise dalla direzione della KPD da cui in seguito fu espulso dopo aver criticato l’Offensiva di Marzo. Fondò quindi il KAG (Collettivo dei Lavoratori Comunisti). Dopo quest’esperienza ritornò nella SPD (in cui nella Prima Guerra Mondiale si era distinto come uno dei dirigenti principali dello spartachismo).

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