La Corte Costituzionale ha sospeso provvisoriamente la legge d’indipendenza catalana, accogliendo il ricorso d’incostituzionalità presentato dal Governo. Allo stesso tempo, l’Ufficio della Catalogna ha ordinato al capo dei Mossos d’Esquadra (polizia catalana, ndr), Josep Lluís Trapero, alla Guardia Civile e alla Polizia Nazionale di Catalunya di requisire tutto il materiale preparato per il referendum del 1 ottobre.

In queste condizioni, anche se la Generalitat (Governo della Catalunya, ndr) e la maggioranza del Parlamento hanno annunciato di proseguire con la tabella di marcia stabilita per il 1O e di applicare la Legge di Transizione, la possibilità che il referendum vada avanti diventa sempre più incerta. Non perché non si possa imporre referendum Stato spagnolo, ma perché i modi per raggiungerlo vengono scartati dal “processo” della sua stessa direzione borghese.

Perchè il referendum del “processo” diventa impossibile?

La maggior parte della borghesia catalana non ha mai sostenuto il diritto di decidere o meno per l’indipendenza. Tuttavia, i suoi rappresentanti politici storici si sono posti il problema di questa domanda popolare negli ultimi anni per due motivazioni. Circostanziatamente, per salvare la propria crisi di consenso elettorale apertasi il 15M (movimento degli indignados, ndr)  e che colpiva tutta la casta politica del ’78 (il Regime del ’78 è l’espressione utilizzata per identificare il Governo spagnolo dopo Francisco Franco, ndr) l’intera casta politica del Regime del ’78, compresi i suoi collaboratori. E più strategicamente, per evitare che questo movimento democratico potesse raggiungere i suoi obiettivi nel solo modo possibile: attraverso la mobilitazione sociale per sconfiggere il regime del ’78 e il suo quadro istituzionale.

Quest’ultima ragione è stata la grande debolezza la linea sbagliata del “processo”. Oggi la Generalitat non è in grado di svolgere il referendum che ha convocato. E quel che è peggio, la conversione del movimento democratico in qualcosa che, nonostante vi sia una massiccia mobilitazione, come si è potuto vedere Lunedi a Barcellona, non ha sviluppato le forze sociali necessarie per sconfiggere l’offensiva dello Stato spagnolo. Qualcosa che è responsabilità condivisa da tutto il blocco sovranista, dalla CDC (Convergenza Democratica della Catalogna, partito liberale indipendentista, ndr) alla CUP (Candidatura di Unità Popolare, partito ampio ed eterogeneo d’ispirazione genericamente anticapitalista, ndr) fino ad ANC (Assemblea Nazionale Catalana, partito nazionalista catalano, ndr), Omnium (onlus catalana per l’indipendenza, ndr) e ERC (Sinistra Repubblicana della Catalogna, partito socialdemocratico per l’indipendenza, ndr). Nessuno si è dedicato negli ultimi anni a sviluppare tali forze sociali. La mobilitazione sociale è stata una mera comparsa nella strada del negoziato prima e della disobbedienza istituzionale in seguito.

Un referendum, a prescindere dalla sua legittimità, potrà essere eseguito solo in tre modi: o lo organizza uno Stato; o lo organizza la società civile con il sostegno o il “permesso” dello Stato (o altrimenti sostenuto da un altro Stato o coalizione di Stati come alleati più forti); o lo fa la “società civile” contro lo Stato, vale a dire attraverso un metodo rivoluzionario.

Qual è la situazione del referendum catalano? Beh, ovviamente lo Stato Spagnolo lo ha proibito e la Catalogna non è ancora uno Stato. Non lo è perché uno Stato non si regge su Parlamento e Esecutivo campati in aria (presumibilmente le due istituzioni disposte a “scontrarsi” con lo Stato centrale), ma fondamentalmente sulla sua forza. Si tratta di giudici, prigioni e polizia. E in Catalunya giudici, prigioni e polizia rispondono allo Stato spagnolo. I Mossos non solo non si andranno a scontrare con la Guardia Civile, ma si renderanno rigorosamente conformi alle ordinanze del tribunale per fare in modo che non vi sia alcun referendum indetto da uno Stato.

Ma questa volta non c’è possibilità anche di una query come 9N. In quella occasione lo stato centrale proibì formalmente, ma non prese misure preventive efficaci. Il 9N fu una consultazione organizzata dalla società civile e dal governo con il “permesso” dello Stato spagnolo, anche se con la minaccia squalifiche e di sanzioni economiche. Una possibilità per la quale oggi non c’è spazio per una ripetizione. L’altra variante è che le organizzazioni della “società civile” con il Governo e l’Esecutivo catalano (campato in aria) possono farlo con il supporto di un altro Stato o coalizione di stati. Quali paesi sono disposti a fornire il sostegno finanziario, politico e militare effettivo o presunto a Puigdemont (Presidente della Generalitat, governo della Catalogna, ndr)? A quanto pare nessuno.

Pertanto l’unica possibilità sarebbe attraverso l’imposizione mediante una forte mobilitazione sociale, non come manifestazione cittadina e pacifica, ma come scontro diretto e aperto con lo Stato che lo proibisce: contro i suoi giudici, le sue carceri e la sua polizia. Una mobilitazione sostenuta da organismi di autorganizzazione delle masse, con scioperi e comitati che difendano fisicamente le urne.

Ma questa possibilità è esattamente ciò che è stato scongiurato dal “processo” nel corso degli ultimi cinque anni. Gli eredi di Cambo e Pujol, o anche Macià e Companys, non sono amici delle insurrezioni popolari. Per queste, quando scoppiano di solito non si limitano alla conquista dei diritti democratici, come la fine della Corona o la conquista dell’auto-determinazione, ma “aprono il melone” per cercare di risolvere i problemi sociali (disoccupazione, la fame, la mancanza di abitazioni) e rapidamente capiscono che è necessario farlo scontrandosi direttamente con gli interessi capitalistici.

Questa semplice verità storica spiega perché il “processismo”, e quello che lo hanno seguito come consiglieri e alleati – è uno dei principali ostacoli per poter esercitare il diritto di decidere.

Questo fallimento processista viene segnalato da Ada Colau quando dice che non accetta lezioni “di coloro che fino a qualche giorno fa avevano alcuna  idea di cosa fosse la disobbedienza civile”. Ma la sua critica, anche se giusta, non è quella di proporre una via rivoluzionaria, ma di giustificare il loro rispetto per le istituzioni e di un referendum organizzato dallo Stato … in sostanza propone di fare un referendum impossibile concordato con una dittatura.

Rajoy e la sua “guerra di logoramento” contro il referendum

La Generalitat e il blocco sovranista catalana hanno giocato tutte le loro carte per provocare una reazione dello Stato di mettere a nudo l’oppressione grande-spagnola e far pendere la bilancia a favore della realizzazione unilaterale del referendum. Seguendo questa logica, in un articolo che abbiamo pubblicato su ID (IzquierdaDiario.es), il nostro amico Antonio Liz suggerisce che il PP si intensificherà la repressione e questa sarà la sua tomba.

Ciò che è certo è che Mariano Rajoy e il suo entourage arriveranno tutti i tipi di richieste di ispirazione hobbesiana, che vanno dall’applicazione dell’articolo 155 per mettere carri armati nelle strade per fermare l’indipendenza catalana. Ma Rajoy sta dando – e presumibilmente continuerà a farlo – una risposta equilibrata di accordo all’attacco del blocco sovranista catalano. Questo è ciò che ha riassunto nella parola “proporzionalità”. Una combinazione di offensiva legale da parte della Corte Costituzionale, del giudice ordinario e dei pubblici ministeri, mentre semina il panico tra i funzionari pubblici circa la loro possibilità di collaborare alla commissione di un reato e mobilita le forze di sicurezza per evitare che il referendum bloccando la sua infrastruttura (requisizione urne e schede elettorali). Non è un’offensiva minore. Senza andare più avanti, alla richiesta del PP, un giudice ha finito col vietare un atto per il diritto di decidere … a Madrid! In questo modo il governo cerca di evitare lo scontro diretto con i potenziali votanti dello stesso 1 ottobre, facendo tutto il lavoro sporco prima.

Si tratta di una sorta di “strategia di logoramento” per sconfiggere il blocco sovranista, approfittando delle sue debolezze strategiche: indecisione politica, l’esistenza di una parte considerevole della società catalana che si oppone all’indipendenza e soprattutto la loro mancanza di forze materiali per resistere all’attacco dello stato. In questo senso, la strategia di Rajoy, contro ogni previsione, è stata intelligente. La tragedia è che, in questa politica, nessuno nel blocco sovranista è riuscito a opporsi e dare una risposta, a partire dalla Generalitat, il PdCat e ERC. E questo perché la lotta di classe, l’unico modo per i catalani di affrontare l’offensiva spagnolista e decidere sul loro destino, non è nella natura della borghesia e piccola borghesia.

Ciò non significa, tuttavia, che a Rajoy potrebbe accadere come a Quinto Fabius Maximus, il “Cunctactor” (la “demorador”), a cui la strategia non lo portò alla vittoria militare contro Annibale, ma la sconfitta politica. Potrebbe fornire questo ultimo grande servizio al Regime del ’78 e, risolta per via reazionaria questa importante gatta da pelare, cedere il passo a un governo di “cambiamento”, come proposto da Pablo Iglesias  e dal PSOE, che si presentano come riparatori del regime.

Il fallimento strategico della “mano tesa della CUP”

Ma sarebbe ingiusto dare tutte le responsabilità a ERC e PDCat della rinuncia alla “via rivoluzionaria” per rompere con lo Stato spagnolo. Sarebbe come tirare i denti a chi non ne ha. Ma non è lo stesso con coloro che hanno occupato il fianco “sinistro” e “anticapitalista” al blocco sovranista, la CUP. Anche la sinistra indipendentista si è negata di preparare questa via facendo una difesa strategica di una presunta “prima tappa” nella quale ha camminato insieme ai difensori delle grandi imprese e loro famiglie per conquistare la Repubblica catalana.

Il video recentemente pubblicato dalla sinistra indipendentista, dal titolo “Mambo” è tutta una metafora di questa impreparazione, o meglio, un pensiero antistrategico, una costante non solo del CUP, ma in generale tutta la nuova sinistra. Quando diciamo antistrategico si intende l’assenza di un piano di layout per raggiungere e imporre la propria volontà al nemico, un piano per vincere, in questo caso lo Stato spagnolo e suoi luogotenenti che sono stati in Catalogna per più di tre decenni.

E ‘completamente trascurato qualcosa di elementare e sarà brevettato il 1-O: uno stato sono le classi e le forze materiali. L’alleato circostanziale definito dalla CUP è un settore della borghesia catalana (e la piccola borghesia), apparentemente non-monopolista o “produttiva”, come osservato in molti documenti. Ma solo per i propri interessi di classe, codesti sono un peso morto per tutta la lotta conseguente per un diritto democratico, che può essere ottenuto solo con una grande mobilitazione sociale. Questi settori borghesi sono così uniti da mille legami alla borghesia finanziaria e imperialista (sia catalana che spagnola), e quindi sono neici di uno scontro con lo Stato capitalista spagnolo, come Foment del Treball o Cercle di Economia. Essi possono allegare alle dichiarazioni o ad atti di disobbedienza istituzionale, ma per effettuare questo dovrebbero mettere in campo grandi marche di disordine pubblico, non c’è dubbio che la loro posizione sarà sul lato dell'”ordine” e “certezza del diritto”.

Ma, se sono un peso morto sulla strada della conquista del diritto di autodeterminazione, che cosa è quello di aprire la lotta per ottenere un processo per una costituente libera e sovrana? E non stiamo dicendo di combattere per il socialismo. Per questo la loro alleanza è sostenibile solo se c’è la rinuncia alla lotta anticapitalista, una “svista” del “pugno chiuso” contro i tagli, come abbiamo visto questa primavera, quando gli “anticapitalisti” del CUP hanno votato budget neoliberali di Insieme per il Si. Questa subordinazione si è spinta fino al punto di accettare la formazione di una repubblica a misura la PDCat e ERC con la loro Legge di Transizione. Un progetto di repubblica che rappresenta una totale continuità con l’autonomia catalana made in Regime del 78 e la legalità capitalistica dello Stato spagnolo e dell’UE.

Quando il “processismo” cade giù dalla scogliera, come nel video della CUP, la sconfitta che vuole imporre lo Stato spagnolo fa ballare il mambo a coloro che potrebbero aver dedicato questi cinque anni a costruire un’alternativa di classe alla roadmap dei convergenti, basata sulla mobilitazione sociale e l’indipendenza politica.

Verso una trattativa che cancelli la questione catalana per altri 40 anni?

Il giorno dopo il 1-O acquista più rilevanza rispetto alla data del referendum stesso, perché dopo lo “scontro” si porrà ineluttabilmente la trattativa. Questo si, lo Stato spagnolo e il PP in particolare, vogliono che avvenga nel migliore dei rapporti di forza per loro. Pertanto, e sfruttando l’impasse a cui il “processismo” ha portato il movimento democratico, vogliono imporre una sconfitta palese: che il referendum non si possa realizzare attraverso risoluzioni giudiziarie e attività poliziesche contro le stampanti e negozi.

Un editoriale di El Pais ha pubblicato lo stesso giorno della Festa Nazionale denominata “incontrare il clamore per il nuovo impegno, sempre meglio di disimpegno”, sottolineando la linea di quel che sarà, come fanno di solito i grandi media dell’establishment.

Pablo Iglesias, anche se appare contro le misure punitive contro 1O con una sempre più piccola bocca, il portavoce più abile per una proposta di negoziato per il “giorno dopo”. Nel suo atto a Santa Coloma de Gramenet durante lo stesso Diada (Festa nazionale) ancora una volta ha insistito per smontare il PP con una mozione di censura concordata con il PSOE e ERC. Iglesias vuole contare su Junqueras in modo che, nel contesto di una sconfitta che può avere effetti demoralizzanti per l’assenza di un’alternativa a sinistra della roadmap “processo”, si possa raggiungere un nuovo quadro politico territoriale stabile.

Sperare che si compisse un referendum concertato è perdere di vista che il PSOE, e sempre di più Podemos, sono partito dello Stato. E lo Stato capitalista spagnolo non negozia il suo dominio su un territorio che rappresenta il 20% del suo PIL in essuna sede di trattativa. Pedro Sanchez ha annunciato che non romperà il patto di governo con Colau a Barcellona se il sindacato appoggerà il referendum, non è un cambio di posizione su tale questione, ma piuttosto un sintomo della sua realizzazione.

Ma più sintomatico è che questo discorso concertativo è replicato anche tra i ranghi sovranista. Referenti di peso cominciano a fare marcia indietro. Come il presidente dell’Assemblea Nazionale Catalana (ANC), Jordi Sanchez, che ha detto martedì che sarebbe stato disposto a fermare il referendum se Rajoy si impegnasse a tenerne uno concordato nel 2019. Ciò “non sarebbe una battuta d’arresto o di paura “afferma Sanchez. Lo stesso discorso è stato fatto dal vice di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) al Congresso, Joan tarda nel programma di caldo. Tutto un riconoscimento di  rapporto di forze.

La domanda più importante: come porre fine al regime del ’78?

Siamo tra coloro che difendono ostinatamente il diritto all’autodeterminazione dei popoli, ma non siamo separatisti. Per questo come marxisti internazionalisti ci hanno attaccato da tutti i lati. I nazionalisti spagnoli che ci accusano di essere sospetti sostenitori del separatismo; i separatisti catalani che ci accusano di sostenere il centralismo spagnolo.

Ma la nostra posizione è coerente. E difendiamo con forza il diritto del popolo catalano (come basco e il galiziano) per l’autodeterminazione e per separarsi se lo desiderano, diciamo non meno fermamente che la separazione e la formazione di un nuovo Stato capitalista catalano non sarà un passo in avanti nel miglioramento della classe operaia catalana e del resto della Spagna.

Nella nostra epoca, quella imperialista, i grandi temi democratici (come ad esempio l’oppressione nazionale) sono impossibili da risolvere pienamente ed efficacemente nel quadro del capitalismo. Quindi, per Lenin, Trotsky e marxisti della Terza Internazionale, la questione dell’autodeterminazione è stata indissolubilmente legata alle dinamiche dell’epoca e della rivoluzione sociale.

Il nostro supporto incondizionato per la classe operaia e il popolo della Catalogna che lotta con tutti i mezzi per conquistare l’autodeterminazione, non solo contro la violenza dello Stato spagnolo, ma anche contro le esitazioni e gli inganni della borghesia catalana, ha le stesse finalità; lottare per rafforzare il potere sociale della classe operaia, indebolire il regime centralista spagnolo e saldare l’alleanza tra la classe operaia e dei settori popolari del tutto lo stato contro il nemico comune.

In questa prospettiva noi difendiamo la necessità di assemblee costituenti veramente libere e sovrane e non la versione taroccata della Legge di Transizione – non solo in Catalogna, ma in tutto lo Stato. Per conquistare il diritto di decidere del popolo, per fare i conti con il Regime del ’78, la monarchia spagnola e il capitalismo; in breve: per avanzare verso il governo dei lavoratori e una federazione di libere repubbliche socialiste iberiche.

Podemos, Izquierda Unida e i “comune” che coprono la loro subordinazione al costituzionalismo spagnolo con una retorica di sinistra, sono i primi a negare questa prospettiva. Rispettato la Catalogna e il Parlamento, le stesse istituzioni del ’78, che rispettano la Spagna e il Congresso dei Deputati.

Nella storia del XX secolo, la classe operaia catalana ha scritto pagine gloriose della lotta di classe. Ma nonostante tutti gli ostacoli e tutti quelli che dicono che non c’è nessun altro orizzonte che la democrazia liberale, la classe operaia catalana tornerà a ribellarsi. Di questo siamo sicuri.

Diego Lotito e Santiago Lupe

fonte: www.laizquierdadiario.es

È nato nella provincia di Neuquén, Argentina, nel 1978. È giornalista e redattore della sezione politica di Izquierdadiario.es. Co-autore di "Cien años de historia obrera en la Argentina 1870-1969". Attualmente risiede a Madrid ed è membro della Corriente Revolucionaria de Trabajadores y Trabajadoras (CRT) dello Stato spagnolo.