Il 25 ottobre, dopo una settimana di deliberazioni, si è concluso il 19 ° Congresso del Partito Comunista Cinese che ha consolidato il ruolo del presidente Xi Jinping alla guida del paese nella strada tortuosa che dovrà portarlo alla trasformazione in una superpotenza mondiale – economica, diplomatica e militare – nell’anno 2050.

La sua dottrina, conosciuta come “Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” è stata inserita nella costituzione del partito sotto il suo nome. In questo modo Xi è potuto entrare nel pantheon dei líder cinesi, un privilegio di cui fino ad ora aveva goduto solo Mao Tse Tung, “il grande timoniere”. Mentre Deng Xiaoping, “il piccolo Timoniere” (ma grande architetto della restaurazione capitalistica) fu aggiunto dopo la sua morte nel 1997 per la sua ingegnosa alchimia del “socialismo di mercato”.

Xi Jinping ha insistito sul “successo del socialismo con caratteristiche cinesi”, che si aggiunge alla confusione generale, generata dai grandi mezzi di comunicazione che definiscono la burocrazia restaurata e il suo regime autocratico monopartitico come “comunista” o “leninista”.

È chiaro che il cosiddetto “modello cinese” non ha nulla a che vedere col socialismo. Il Partito Comunista Cinese è nient’altro che una macchina burocratica che gestisce la restaurazione capitalista, al punto che fra i delegati al XIX Congresso vi erano molti grandi miliardari cinesi, i cosiddetti “imprenditori rossi” cooptati dal PCC.

Nel suo lungo discorso di 3 ore e mezza, Xi ha dichiarato che la storia recente cinese è divisa in due epoche: l’era di Mao, iniziata con la rivoluzione del 1949 in cui è stata istituita la Repubblica popolare indipendente, ponendo fine alle invasioni straniere e alle guerre civili anche se dopo tre decenni il paese era ancora sommerso dalla miseria, dall’indifferenza e dall’instabilità politica. E l’era di Deng Xiaoping, iniziata nel 1978 con il processo di restaurazione capitalistica che ha permesso una crescita economica basata sui vantaggi del ritorno al passato, in particolare quelli dovuti alla manodopera a basso costo e su una disciplina di ferro imposta dal Partito Comunista. Ma quella strategia aggressiva fondata sulle esportazioni, che ha permesso anni di grande crescita e ha elevato la Cina al rango di seconda economia mondiale, si è esaurito. Sta per aprirsi una nuova era che dovrebbe ripristinare la grandezza della Cina come potenza mondiale. Questa strategia, che ha come obiettivo di medio termine la creazione di una società “modestamente prospera” per il 2020 e, a lungo termine, uno status di grande potenza, poggia su tre pilastri: l’approfondimento delle riforme economiche; lo sviluppo della capacità militare e il consolidamento del regime a partito unico.

Naturalmente l’annuncio dei principali obiettivi che dovrebbero portare al “sogno cinese”, è anche la constatazione delle debolezze che impediscono al gigante asiatico di ascendere al ruolo di più grande potenza mondiale, cercando al contempo di smentire coloro che sono pronti a considerarla come nuova potenza imperialista. Secondo il presidente, servono ancora 30 anni (due generazioni) per avere un esercito all’altezza di una potenza di primo piano, per non parlare di altri aspetti quali il reddito pro-capite, lo sviluppo tecnologico e altri indicatori sociali.

Nel corso degli ultimi quattro decenni, la politica estera cinese (e la sua promozione a livello mondiale) è stata guidata dalla cosiddetta “strategia dei 24 caratteri” di Deng Xiaoping, formulata nel 1990, a seguito degli eventi traumatici di piazza Tienanmen della dissoluzione dell’Unione Sovietica e dei regimi stalinisti dell’Europa orientale. Era una strategia di cautela geopolitica sintetizzata in formule come “nascondere le nostre capacità, aspettare il nostro tempo”; “Non mettersi alla testa delle rivendicazioni”, “esercitare un’opposizione moderata”, vale a dire non contestare l’egemonia degli Stati Uniti né i poteri costituiti, se non in modo molto parziale.

Tutto porta a pensare che il 19° Congresso del CCP ritenga che quasi quarant’anni di restaurazione capitalistica siano stati un tempo sufficiente, che è tempo di lasciarsi alle spalle il periodo di emergenza percorso a ritmo di lumaca e che per continuare a muoversi verso il “sogno” di “grande potenza” bisogni adottare una politica più aggressiva sul palcoscenico mondiale. Ma tutto ciò mette su un nuovo piano le contraddizioni interne ed esterne poste dalla trasformazione della Cina in una superpotenza.

L’attuale presidente della Banca Popolare cinese, ha dichiarato che a causa dell’ammontare del debito e della speculazione, il sistema finanziario potrebbe essere vicino al “momento Minsky”, espressione ampiamente utilizzata dell’economista nordamericano durante la crisi 2008, per  lanciare l’allarme sui rischi che possono portare ad una crisi finanziaria.

Ciò che ha segnato il 19° Congresso, è la ratifica del regime a partito unico ed il comando assoluto di Xi Jinping sul Partito comunista (e anche sull’Esercito della Liberazione Popolare) è un indicatore che prevede tempi tumultuosi. Ricordiamo che Xi ha cementato la sua carica, attraverso un’intensa campagna anti-corruzione che ha eliminato gli oppositori e i potenziali rivali del partito, tra i quali  il lìder regionale Bo Xilai che aspirava a ricreare un “maoismo senile” a fronte dell’orientamento su una maggiore apertura economica e sulla liquidazione graduale ma sostenuta dalle aziende statali “zombie”.

Nell’ultimo decennio, la Cina ha cessato di essere il fornitore di manodopera a basso costo. Ci sono altri 7 paesi della regione che hanno ormai quel ruolo e competono per attirare investimenti (Bangladesh, Vietnam, Pakistan, Cambogia, Indonesia, Thailandia e Filippine). Ciò è dovuto agli scioperi da parte di molti settori della classe operaia cinese, il cui emblema è rappresentato da quello della Honda del 2010 e che spazia da azioni difensive contro licenziamenti ad azioni offensive per aumenti salariali e il diritto all’organizzazione. Secondo l’indagine del Bollettino del Lavoro Cinese, nel 2016 ci sono state più di 2.600 azioni collettive di lavoratori.
Il rafforzamento del controllo del PCC e delle forze repressive è una risposta preventiva alle probabili esplosioni del malcontento sociale.

Xi ha usato un tono fortemente nazionalista per unire la “grande nazione” dietro il sogno imperiale cinese. Ha ribadito il controllo sulle isole artificiali del Mare del Sud della Cina e posto particolare attenzione sulla Via della Seta, un’infrastruttura economica e geopolitica, un megaprogetto per collegare l’Europa e l’Asia via terra (treni ad alta velocità e strade) e mare, di cui gli Stati Uniti sono in pratica esclusi. Questo progetto sta già facendo salire la tensione con Washington che, da quando si è insediato Trump, ha aumentato le minacce di guerre commerciali e di altre misure per limitare l’influenza cinese.

È chiaro che questa “nuova era” dell’ambizione cinese non si svilupperà in modo pacifico. L’ installazione di una moltitudine di risorse militari da parte degli Stati Uniti in Asia nordorientale, e la possibilità di un incidente militare con la Corea del Nord, è un indicatore di conflitti che potranno scoppiare. Questa politica aggressiva, avviata da Obama e accelerata da Donald Trump, dimostra che l’imperialismo Statunitense non starà a guardare l’ascesa del suo principale concorrente.

 

Claudia Cinatti

Traduzione di Angelo Fontanella da La Izquierda Diario

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.