Il Dipartimento Lavoro del Partito Democratico presenterà, a dire del responsabile Lavoro Chiara Gribaudo, degli emendamenti alla manovra” per “l’abbassamento della durata massima dei contratti a tempo determinato da 36 a 24 mesi e un pacchetto di misure per le politiche attive del lavoro”, un annuncio in vista della definizione della prossima legge di stabilità ma soprattutto delle prossime elezioni politiche.

Nonostante gli enormi sforzi mediatici, l’entusiasmo attorno a tale dichiarazione, che non esalta di certo i lavoratori, stenta a decollare soprattutto quando lo si accosta al Jobs Act e alla necessità di adottare limiti più stringenti ai contratti a termine per privilegiare quelli a “tutele crescenti”. Come se la riforma del lavoro del Governo Renzi non avesse già precarizzato del tutto il lavoro, trasformando i contratti a tempo indeterminato in nuovi contratti a termine.

Ma ad accorrere alla politica dominante ci pensano gli enti strumentali di governo e statistiche di ISTAT, INPS e Ministero del lavoro per tamponare una situazione occupazionale tragica, con la solita e periodica buona novella: “L’occupazione è in crescita”. Sì, perché in effetti l’aumento dei dipendenti si è registrato soltanto nella componente a tempo determinato (+0,6%), proprio quella componente che i dirigenti del Partito Democratico affermano di voler ridimensionare, tra l’altro non si sa con quali strumenti visto che dopo il Jobs Act il rapporto a tempo indeterminato è sparito dal diritto del lavoro.

Inoltre non esiste oggettivamente una correlazione tra la diminuzione della durata del tempo determinato e l’aumento del contratto a tempo indeterminato, non è automatico che le aziende decidano di stabilizzare prima un lavoratore o quanto meno possono decidere di farlo secondo le regole delle tutele crescenti, ovvero senza alcuna tutela, dando di fatto continuità alla già esistente precarizzazione del lavoro.

Tale proposta rischia di rivelarsi un boomerang per le promesse elettorali di Renzi e compagnia bella, ancor di più dopo la recente notizia che il Governo Gentiloni ha respinto la proposta di tali modifiche al Jobs Act, per cui addio alla stretta sui contratti a tempo determinato ed all’aumento dell’indennità da 4 a 8 mensilità da pagare ai lavoratori in caso di licenziamento illegittimo.

A quanto pare a pesare su tale scelta sono i tempi per l’ok alla legge di bilancio. In conclusione, se non si è in grado di far passare una “riforma” del Jobs Act, come si può sperare di superare lo sfruttamento e la precarietà dei contratti a termine? Oppure, come si può sperare quanto meno ad un ritorno al pre-Jobs Act? La risposta la lasciamo ai lettori, assieme alla richiesta di riflettere sulla necessità di guardare oltre il riformismo ed il parlamentarismo per la costruzione militante del partito rivoluzionario.

Paolo Prudente

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.