Negli ultimi anni l’aumento del lavoro nero è andato di pari passo con la diminuzione delle assunzioni regolari. Gli ultimi dati raccolti dal Censis tra il 2012-2015 mostrano una riduzione del 2,1% dell’occupazione regolare ed un corrispettivo aumento di quella irregolare del 6,3%. In cifre assolute sono oltre 3,3 milioni i lavoratori relegati in questo “lato oscuro” dell’economia italiana, dove i capitalisti riescono a risparmiare il 50% dei costi sul lavoro non pagando nessun contributo previdenziale o assicurativo ai dipendenti assunti senza contratto.

 

Secondo la Commissione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva, istituita presso il MEF (Ministero di Economia e Finanza), il costo medio orario del lavoro sostenuto dalle imprese per un lavoratore regolare è di 16 euro mentre quello associato ai lavoratori in nero equivale a 8 euro! Il monte del salario irregolare nel 2014 ha raggiunto i 28 miliardi di euro, pari al 6% del valore complessivo delle retribuzioni lorde, ed è in continuo aumento. Le regioni in cui si registrano in maniera più rilevante queste dinamiche sono principalmente del Sud Italia: in primis Calabria e Campania, dove il sommerso coinvolge rispettivamente il 9,9% e 8,8% della forza lavoro, seguite da Sicilia 8,1% e Puglia al 7,6%. La categoria lavoratrice con la percentuale più elevata di lavoro sommerso è quella del personale domestico (il 60% è in nero) mentre in altre categorie del terziario come il turismo o le attività artistiche e di intrattenimento i lavoratori senza garanzie contrattuali superano il 20%. Come però ammette Maurizio Gardini,  presidente di Confcooperative, l’entità del fenomeno è tale per cui esso non interessa solo i settori dove è tradizionalmente diffuso il “nero” (come quelli di cui sopra), ma “tutti i settori produttivi”.

 

Da questi dati impressionanti emerge in maniera plastica quale sia la politica dei padroni nei periodi di crisi: approfittare dell’aumento della disoccupazione e della ricattabilità dei lavoratori per costringerli a lavorare a qualsiasi condizione, non solo con contratti precari e sotto-pagati, ma anche – sempre più spesso – senza contratto.

 

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