Nella notte tra il 27 ed il 28 febbraio i sindacati confederali hanno stipulato un’ipotesi di accordo con Confindustria, sulle linee contrattuali da seguire in ogni ramo dell’economia. L’accordo quadro – che verrà firmato il prossimo 9 Marzo – non riguarda semplicemente la vita nei luoghi di lavoro e della produzione, ma è un vero e proprio documento politico che mette becco nella riproduzione della classe lavoratrice, a cominciare dalla scuola e dallo stato sociale. Non si tratta semplicemente della questione salariale, dell’indice IPCA (basato sul calcolo dell’inflazione ex post, togliendo voci importanti come l’energia) per aggiustare le paghe al ribasso, punto mutuato dall’ultimo pessimo CCNL dei metalmeccanici firmato dalla Fiom: la questione è più profonda e segnala l’incapacità delle burocrazie sindacali di saper interpretare dal punto di vista dei lavoratori le direttive di industria 4.0, assumendo completamente il punto di vista del padrone.

 

LA POSTA IN GIOCO DELL’ACCORDO QUADRO: LA RISTRUTTURAZIONE DEL CAPITALISMO ITALIANO (INDUSTRIA 4.0).

Come Voce delle lotte già si è discusso del piano Industria 4.0Si è visto che le nuove tecnologie che si vogliono implementare nell’industria permettono una maggior cooperazione, ovvero aumentano il livello di controllo automatico dei ritmi di lavoro, consentendo di produrre di più e con meno operai, scaricando la maggior parte di fatica fisica e mentale sui lavoratori. In questa maniera i padroni tentano di estrarre maggior plusvalore dagli operai, aumentandone lo sfruttamento con accorgimenti che non implicano elevate spese fisse (si pensi al tristemente famoso braccialetto di Amazon). Seguendo tale progetto, sono già stati pianificati dei clusters tra università STEM ed imprese di alcuni importanti rami di industria, tuttavia le nuove tecnologie sulla qualità del prodotto (in special modo nanotecnologie e stampa 3D) e sul controllo dei lavoratori tramite le stesse macchine non possono che essere appannaggio delle aziende più grandi. Considerando che in Italia le piccole e medie imprese (PMI) rappresentano la maggior parte dell’apparato produttivo e che esse hanno maggiori difficoltà nel reperimento di credito bancario per eventuali ricerche, è chiaro che industria 4.0 è a tutto vantaggio del capitale monopolistico. Le grandi aziende, infatti, non solo – attraverso l’aumento dello sfruttamento –  potranno godere della svalutazione della forza lavoro grazie all’introduzione di certi tipi di macchinari, ma centralizzeranno più capitali nelle loro mani, sfruttando il loro vantaggio tecnologico a danno delle PMI. Industria 4.0, dunque, sta al centro dei piani per una ristrutturazione del capitale italiano, per renderlo competitivo a livello internazionale ed uscire dalla crisi del saggio di profitto: tutto questo, naturalmente, a danno della piccola-media borghesia e, soprattutto, dei lavoratori. Questo maggior sfruttamento, però, per rendersi accettabile deve puntellarsi pure ideologicamente: la formazione permanente del lavoratore, la partecipazione al funzionamento dell’azienda, sono tutte armi che il padrone sfodera per annichilire la resistenza dei lavoratori, minandone la visione autonoma di classe. Come si cercherà brevemente di mostrare, con l’ipotesi di accordo del 28 febbraio Cgil, Cisl e Uil hanno di fatto sposato le logiche padronali, facendo il gioco di Confindustria.

Se nel sistema taylorista il lavoratore ha un’unica e monotona mansione, nel sistema 4.0 – i cui principi sono mutuati dal toyotismo – l’operaio tiene dietro a più macchine intelligenti, sollecitato dai loro meccanismi automatici di auto-attivazione. Fujimoto può così parlare del lavoratore come di un soggetto attivo e multi-skilled: l’operaio non è più visto come mero esecutore di ordini (a transmitter of given information), ma come un soggetto con adeguate capacità di problem solving in grado di gestire all’unisono una o più macchine, «an information creator who continuosly accumulates and reorganizes production knowledge and skills» [1]. Insomma, da questo punto di vista il lavoratore non è più visto come un soggetto che vende la sua forza lavoro al capitalista eseguendo ordini non suoi, ma diviene egli stesso una funzione del capitale: la differenza tra lavoratore e forza lavoro chiarita da Marx nella prima sezione de Il Capitale scompare ed il lavoratore diviene “capitale umano”.[2] Nel rapporto capitalistico di produzione vi sarà sempre, al di là del livello di coscienza di classe, uno scontro latente: da una parte i lavoratori cercheranno di lavorare meno e meglio, dall’altra i padroni tenteranno di farli lavorare di più ed a condizioni peggiori. Questa è un’ovvietà; se però si considera il lavoratore come capitale umano, come funzione del capitale, questa ovvietà scompare, a tutto vantaggio del padrone. Nel sistema taylorista il lavoratore è visto come qualcosa di passivo, che deve trasmettere le informazioni derivanti dall’esterno (dal padrone): tale passività, però, riflette la resistenza del corpo dell’operaio ai ritmi troppo alti, e della sua mente, che si rivolta almeno a condizioni di lavoro che ritiene non dignitose. Proprio per questo il “lavoratore tipo”, secondo Taylor, è il lavoratore stupido, che farebbe di tutto per qualche soldino in più. Il nuovo modello di lavoratore invece, quello di industria 4.0, è il lavoratore che non pone alcuna resistenza al padrone, nemmeno passiva, ma che anzi lo aiuta, come farebbe un buon macchinario, un buon can barbone. Come diceva Lulù in La classe operaia va in paradiso: «io sono come un bullone. Ecco, io sono una vite».[3] Naturalmente questi sono tutti fumi ideologici della borghesia per nascondere il conflitto di classe e le contraddizioni del capitale, ma è un problema se i sindacati ci cascano: nemmeno a dirlo, Cgil, Cisl e Uil ci sono cascate.

 

L’ACCORDO QUADRO E LE SUE “MAGAGNE”: LE BUROCRAZIE SINDACALI ASSUMONO IL PUNTO DI VISTA DI CONFINDUSTRIA

Si legge a pagina 9 dell’accordo che «è volontà comune di Confindustria e Cgil, Cisl, Uil intervenire prioritariamente, attraverso specifiche intese, su alcuni ambiti che sempre più stanno interessando le relazioni industriali e la contrattazione: a) Welfare; b) Formazione e competenze; c) Sicurezza sul lavoro; d) Mercato del lavoro; e) Partecipazione».[4] Sul punto c è inutile discutere, perché si fanno riferimenti generici all’INAIL, senza spendere una parola sui necessari controlli da parte dei lavoratori sui calcoli ergonomici delle aziende in rapporto alle macchine e sullo stress lavoro correlato. Questi controlli in alcune realtà con RSU particolarmente combattive non solo sono stati fatti, ma sono anche ben visti dai lavoratori, rompendo le uova nel paniere ai padroni (che spesso imbrogliano sui calcoli): le burocrazie sindacali più che altro non ne parlano, ma i problemi agli arti, le malattie spesso non riconosciute dalle aziende come professionali, rimangono. Con gli aumenti dei ritmi di industria 4.0 questi controlli diventano sempre più necessari, sia per quanto riguarda lo stress fisico che quello psicologico, dato il controllo sul lavoro sempre più pressante ed automatizzato. Su questi punti ancora la legge garantisce le tutele ai lavoratori e non si capisce il perché (o meglio, lo si capisce eccome!) sindacati come la Cgil non facciano campagne pesanti a riguardo, in ogni luogo di lavoro. Per citare un caso, i compagni della sinistra della Fiom, RSU alla GKN di Campi Bisenzio questi controlli li hanno fatti, coinvolgendo i lavoratori e cercando di far capire loro il portato profondamente politico dell’iniziativa: sono un esempio da seguire.

Formazione e competenze

Si prenda ora il punto b, formazione e competenze. Leggendo la realtà con gli occhiali di Marchionne, i burocrati della triplice assumono che il lavoratore sia in linea di principio equiparabile ad una vite: come la vite nasce per avvitare, così anche l’operaio nasce con la passione di far fare soldi al suo padrone. Ecco allora che a pagina 12 dell’accordo si legge che «è altresì condivisa la volontà di rafforzare le ulteriori forme proficue [le mot juste!] di integrazione fra scuola e lavoro, con particolare riferimento al mondo degli Istituti Tecnici Superiori, coinvolti nei percorsi di “Impresa 4.0″». Gli studenti (operai in potenza) ringraziano la Camusso, che incoraggia altresì l’intervento dei padroni nella gestione della scuola pubblica. Mentre la scuola pubblica, pagata coi soldi delle tasse dei lavoratori, deve essere finalizzata al profitto in nome del progresso assicurato da industria 4.0, i burocrati della Cgil dedicano anche un pensierino a chi già lavora e che, poverino, non può stare indietro rispetto alla tecnologia tutta pensata per sfruttarlo ben bene. Non potendo tornare a scuola, l’idea è quella di sfruttare al meglio il Fondo per l’Apprendimento Permanente (in parte finanziato dall’UE, in parte dalle regioni), ovvero il continual vocational training (CVT) che permette alle aziende di investire sulla formazione del proprio capitale umano. Su questo, due obiezioni. La prima di principio: nella misura in cui un comunista vuole una società dove scompaia l’estraniazione del proprio lavoro al padrone e dove l’attività lavorativa sia un momento formativo e non “sofferto” per l’uomo, è chiaro che il principio della formazione permanente in astratto lo potrebbe accettare. In una società dove questo apprendimento continuo, però, serve a far più profitti ai padroni, la cosa si fa più problematica: se dopo il training la maggior qualifica dell’operaio permette al padrone di estrarre più plusvalore dal lavoratore, ciò significa che aumenta semplicemente lo sfruttamento, in termini marxisti. Si potrà però obiettare che una maggior qualifica comporta pure un aumento del salario, ed ecco la seconda obiezione: non proprio. Innanzitutto, nella misura in cui i fondi pubblici per il CVT sono elargiti a livello regionale, questo può essere un primo grimaldello con cui iniziare a scardinare i contratti nazionali rispetto a quelli locali. L’ipotesi di accordo del 28, infatti, spinge nel rinforzare la contrattazione di secondo livello, che sia territoriale, di filiera o aziendale. Ora, si è visto in precedenza che la ristrutturazione del capitale a cui industria 4.0 tende, passa per la centralizzazione di capitale nelle mani di alcuni monopolisti. Qui è bene specificare brevemente di che tipo di centralizzazione si tratta: una centralizzazione orizzontale. Ciò significa che il monopolista non ingloba in sé i piccoli che assorbe, bensì preferisce essere a capo di una catena di fornitori formalmente indipendenti, ma che in realtà hanno nel monopolista il loro unico cliente, dipendendone totalmente; tale catena del valore, per essere efficiente, deve garantire un processo produttivo fluido, dunque con tempi e metodi di lavoro omogenei nelle sue varie tappe: da qui l’importanza della contrattazione di secondo livello, territoriale e di filiera. Ora, nella misura in cui l’ipotesi di accordo del 28 febbraio dà grande importanza alla formazione permanente, che avviene grazie a fondi su base regionale, è chiaro come questo elemento dia importanza alla contrattazione di secondo livello, che però divide la classe, magari incoraggiando zone di bassi salari e di maggior sfruttamento, incrementando la guerra tra poveri.  Ecco perché i processi di ammodernamento di industria 4.0 «vanno sostenuti con un sistema di relazioni industriali più flessibile che incoraggi, soprattutto, attraverso l’estensione della contrattazione di secondo livello, quei processi di cambiamento culturale capaci di accrescere nelle imprese le forme e gli strumenti della partecipazione organizzativa»[5]. Al di là delle previsioni sul futuro, inoltre, anche oggi il CVT può a buon diritto esser considerato come puro strumento dei padroni per sfruttare di più: nel nostro paese, infatti, solo le grandi aziende (una minima parte rispetto alle PMI) possono permettersi di finanziare programmi di training in maniera estesa, e il ritorno in termini di stipendio è vicina allo 0 [5]. Le grandi aziende così non hanno solo una maggior capacità di investimenti in R&D, ma riescono pure ad avere lavoratori maggiormente specializzati: un punto ulteriore per il capitale monopolistico! Si segnala inoltre che pure le evidenze empiriche sull’utilizzo del CVT da parte dei padroni sono incerte. In Inghilterra, ad esempio, è stato calcolato che il monte ore settimanale di training dei lavoratori tra il 1997 ed il 2009 è diminuito del 44% e del 32% nel 2006-2012.

Welfare aziendale e Welfare statale

Qualche parola, ora, sul punto a dell’accordo segnalato in precedenza, il Welfare aziendale (WA), che è una delle voci più ipocrite tra quelle firmate dalle burocrazie della triplice. Prima di iniziare a trattare del tema, nel testo si leggono raccomandazioni volte alla salvaguardia del Welfare statale universale (WS): queste dichiarazioni e preghierine inutili non possono che esser farina del sacco delle burocrazie di Cgil, Cisl e Uil (non certo di Confindustria, molto più cosciente rispetto ai sindacati degli interessi di classe che rappresenta). Dopo anni di continui tagli a sanità e scuola pubblica senza mai portare avanti una battaglia seria, con che coraggio Camusso si sbraccia in richiami di principio al WS, mentre propone di implementare il welfare integrativo?  Forse si vergogna di dire che (anche) a causa sua ora bisogna chiedere asili e cure mediche ai padroni, che magari per premio ricevono esenzioni fiscali? Proprio così! I padroni potranno detrarre le prestazioni di WA o avranno esenzioni fiscali: ciò significa che in realtà WA verrà pagato da tutti coloro che pagano le tasse (quindi soprattutto i lavoratori salariati), mentre i padroni faranno la parte dei socialmente responsabili! Siccome Cgil, Cisl e Uil sanno inoltre benissimo che ad aziende diverse corrisponderà un welfare integrativo differente, introducendo disuguaglianze inaccettabili tra i lavoratori (e i disoccupati?), ecco perché si aggiunge che si rende evidente «la necessità di creare le condizioni per un miglior coordinamento delle iniziative, a partire da un modello di governance che si dimostri capace di ottimizzare e qualificare i contenuti della contrattazione in materia di welfare integrativo» [6] Preparativi per un Welfare privato? Chi vivrà, vedrà. Ultima chicca su WA: rispetto alle pensioni integrative si propone di rilanciare una campagna d’adesione ai fondi pensione «anche al fine di contribuire al sostegno dell’economia reale del Paese». Anche stavolta i burocrati assumono il punto di vista dei padroni e si illudono che regalare un po’ di soldini agli speculatori di borsa ed ai padroni possa aiutare la “crescita”. A tal nobile fine si legge che «le Parti ritengono opportuno avviare, quanto prima, un confronto con le Istituzioni finalizzato a migliorare la fiscalità di vantaggio sulle prestazioni dei fondi pensione e la riduzione della tassazione sui rendimenti, nonché ad ottenere la revisione della disciplina sui benefici fiscali per gli investimenti dei fondi anche nell’economia reale» [7].

 

CONTRATTAZIONE E PARTECIPAZIONE:  UN ULTERIORE PASSAGGIO DEL LUNGO PROCESSO DI NORMALIZZAZIONE DEL SINDACATO

La questione della partecipazione è da sempre in Italia un problema sia per i sindacati che per i padroni. Già nella stesura dell’articolo 46 della costituzione, che riconosce «il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende» [8], si assiste ad un acceso dibattito tra comunisti e democristiani: i primi preferiscono infatti il vocabolo “partecipazione”, mentre Fanfani e Gronchi fanno passare la parola “collaborazione”, segnalando così la volontà della borghesia italiana di non riconoscere fino in fondo le organizzazioni dei lavoratori. Pure la Cgil, d’altro canto, nella sua storia ha sempre teso – giustamente – a conquistarsi ex contractu la partecipazione al governo dell’impresa (sostanziata nel diritto all’informazione sui licenziamenti, sulle innovazioni tecnologiche, sul diritto a dire la propria rispetto a cosa e come produrre ecc.), facendo di questa un risultato dei rapporti di forza conquistati, e non ex lege, barattando – come per lo più in nord Europa –  la pace sociale con il diritto alla partecipazione sindacale nei consigli dei sindaci o con commissioni paritetiche. Insomma, generalmente il contratto in Italia ha sempre storicamente fotografato i rapporti di forza tra le classi ed in base a questi i lavoratori potevano avere più o meno potere nell’azienda, non barattando posizioni nel CDA in cambio di limitazioni al diritto di sciopero! Non è questo il luogo per narrare la storia dei dissidi sulla questione della cogestione e della contrattazione in Italia: è però utile sapere che uno dei comparti dove storicamente l’idea della concertazione e della partecipazione ha avuto più seguito, è stata l’industria chimica. L’aumento della partecipazione in cambio della limitazione del conflitto sono caratteristiche tipiche dei settori economici science based, dove vi sono «cicli produttivi continui e integrati che per essere efficacemente gestiti hanno bisogno di un elevato grado di consenso da parte dei lavoratori e di un lavoro di squadra» [9]. Queste caratteristiche sono proprio quelle che, come si è visto, si vogliono implementare nell’industria italiana. Non stupisce, allora, che la burocrazia sindacale, a corto di prospettive, si avvii verso la capitolazione, davanti ad uno sviluppo tecnologico (ad essa) apparentemente ineluttabile, come i suoi portati sociali ed organizzativi. L’Eni già negli anni ’50 inizia a creare una sinergia con il sindacato al suo interno, proprio per garantire uno sviluppo aziendali senza intoppi che, in quel genere di industria, sarebbero molto gravi per il profitto. Dal 1976 anche nel settore privato della chimica, a partire dalla Pirelli, il sindacato accetta il terreno della produttività come piano su cui basare le proprie rivendicazioni, accettando quindi le compatibilità economiche del sistema, compatibilità sancita dalla c.d strategia dell’EUR adottata dalle confederazioni sindacali nel 1978 [10]. In tempi più recenti, il 16 novembre 2012 viene siglato un accordo separato, non firmato dalla CGIL: Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia. Tale accordo è siglato «nella prospettiva di conferire organicità e sistematicità alle norme in materia di informazione e consultazione dei lavoratori, nonché di partecipazione dei dipendenti agli utili e al capitale, debba esercitare la delega in materia subordinatamente ad un approfondito confronto con le Parti sociali» [11]; l’accordo non è firmato dalla Cgil in quanto «l’unica variabile della produttività su cui agire, ha fin all’inizio segnato negativamente il negoziato, rendendo così la produttività da scelta strategica per lo sviluppo del Paese a riduzione del reddito dei lavoratori e delle lavoratrici» [12]. Dopo anni di governi tecnici e/o non eletti e di incapacità delle burocrazie sindacali della Cgil di strappare una qualche briciola ai governi ed ai padroni in periodo di crisi, perdendo ogni battaglia ancor prima di cominciarla (Jobs Act e Buona Scuola su tutte), le dirigenze del più grande sindacato d’Italia calano finalmente braghe e mutande, abbandonando ogni velleità di tenere assieme un riformismo ormai strutturalmente impossibile ed una reputazione di lotta (anche se sbiadita da tempo). Assicuratasi di non aver scomodi concorrenti a sinistra attraverso la firma dell’antidemocratico e famigerato TUR (criticato giustamente dai compagni del sindacalismo di base, che però confondono spesso le responsabilità dei burocrati dei sindacati confederali con quelle delle loro basi, alienandosi molti potenziali alleati nelle lotte), la burocrazia della Cgil capitola con l’accordo del 14 luglio del 2016, dove accetta la produttività come unico margine di manovra, barattando di fatto le lotte con la partecipazione alla “governance” delle aziende attraverso organi come le commissioni paritetiche, in cambio della detassazione dei premi di risultato. Già nell’accordo del 14 luglio 2016, richiamato più volte nell’accordo quadro dello scorso 28 febbraio, si apre la breccia al WA esente da prelievo fiscale e tutto l’armamentario ideologico della borghesia sopra descritto. Abbracciare il modello della partecipazione, tuttavia, richiede un indebolimento considerevole della contrattazione collettiva nazionale, implementando quella di secondo livello, che è poi – lo si è accennato – la direzione in cui va l’ultimo accordo quadro. L’Industria 4.0 e l’organizzazione industriale che esige e di cui si è già trattato, rappresenta così il colpo di grazia ad una tipologia ben precisa di sindacato: quello che preferisce stipulare i contratti sulla base delle lotte, e non su di una concertazione regolamentata. Si fa così strada un metodo che sceglie «di lasciare alle categorie il compito di definire, settore per settore, il peso da attribuire in concreto al primo e al secondo livello contrattuale» [13], come esultano i padroni. I contratti nazionali di settore stipuleranno le linee guida d’organizzazione industriale, i minimi sindacali (il Trattamento Economico Minimo – TEM) ed il TEC (trattamento economico complessivo), risultante dalla somma del TEM con altri istituti economici eventualmente riconosciuti per i lavoratori del settore. In questo modo la contrattazione di secondo livello diviene essenziale per costituire i nuovi metodi “partecipativi” che, con la crisi delle prospettive dei sindacati, si possono solo immaginare.

 

ALCUNE CONCLUSIONI

Si è visto come Industria 4.0 rappresenti un tassello fondamentale della ristrutturazione del capitalismo italiano, sia per quanto riguarda i posti di lavoro, sia per quando riguarda l’accaparramento da parte dei padroni del cosiddetto salario indiretto. Con lo smantellamento del WS, infatti, ed il contestuale potenziamento di WA per mezzo di esenzioni e detrazioni, i padroni, come si è visto, si appropriano indebitamente di denaro di proprietà dei lavoratori, rimpolpando i propri profitti. La scuola pubblica, inoltre, vuole essere utilizzata – con il vergognoso avvallo dei sindacati – come momento di formazione al lavoro, garantendo studenti a salario zero da far lavorare, finché dalla crisalide della scuola non verranno fuori tante piccole farfalline, ovvero operai qualificati a basso costo. Un punto però va qui analizzato. È vero che l’accumulazione del capitale porta alla dequalificazione delle mansioni? Certamente porta alla sparizione di certe mansioni, ma l’implementazione del CVT e l’idea di operaio multi-skilled certamente non depongono a favore della dequalificazione. Rimane tuttavia vero e centrale un punto fondamentale: che con l’accumulazione va di pari passo la sovrappopolazione operaia (ossia aumenta la disoccupazione tecnologica) e l’aumento dello sfruttamento. Come si è visto, infatti, con industria 4.0 aumenta il plusvalore estratto dai lavoratori, con la complicità dei sindacati.

Le burocrazie della Cgil, dunque, disarmate davanti alle logiche della ristrutturazione capitalistica che avanza anche con industria 4.0, sono al palo. Ciò si traduce in quello a cui si assiste negli ultimi anni e sopra brevemente accennato: di sconfitta in sconfitta, le dirigenze del più grande sindacato d’Italia stanno cercando di accentuare la funzione corporativa della struttura alla quale presiedono, passando dalla lotta alla logica della “partecipazione” in cambio di un’ulteriore limitazione del conflitto.. Questa limitazione è congeniale alla nuova struttura “orizzontale” dello sviluppo delle filiere produttive, a cui con industria 4.0 sembra si affidi la ripresa dell’accumulazione capitalistica nel nostro paese. Nella misura in cui il nuovo modello sindacale avanza, sempre di più si perdono alcuni punti fondamentali per una visione del mondo autonoma di classe: in questo senso la lotta per un sindacato combattivo è immediatamente politica, toccando alcuni nodi fondamentali dello sviluppo capitalistico attuale (si pensi alla menzionata considerazione del lavoratore nel processo produttivo). Per questo i rivoluzionari devono intervenire a partire dalle questioni sindacali, ma senza perdersi nelle logiche sindacali, facendo notare come queste si leghino immediatamente a questioni più politiche. Inoltre, come si è notato, la nuova organizzazione propria delle industrie science based permette, in caso di conflitto, di aumentare esponenzialmente i danni al padrone: per questo la logica della partecipazione operaia nell’azienda va sgretolata, in nome di coordinamenti necessariamente intersindacali a livello di filiera e non solo, in grado di programmare le lotte in vari punti di una catena del valore, colpendo al cuore il capitale monopolistico e lasciando da parte gli inutili settarismi. Solo in questo modo i rivoluzionari, nella pratica, possono tentare di arginare la deriva sindacale in atto ed elevare il livello politico dello scontro.

[1] Takahiro Fujimoto, The evolution of a manufacturing system at Toyota, New York, Oxford University Press: 1999, pp. 98-99.

[2] Per una critica scientifica alla categoria neoclassica di capitale umano, cfr. S. Bowles, Herbert Gintis, The problem with human capital theory: a marxian critique, The American Economic Review, v. 65, 2: 1975, pp. 74-82.

[3] Qui il testo dell’accordo.

[4] Accordo, cit., p. 15.[1]

[5] Cfr. Giorgio Brunello et al, Training Subsidies and the Wage Returns to Continuing Vocational Training: Evidence from Italian Regions, in Labour Economics, 19, 3: 2012, pp. 22-23. In Il patto per la fabbrica recupera produttività, in Il sole 24 ore, 1/3/2018, si legge che «occorre infatti, per sintonizzarsi con questa svolta radicale, implementare sia gli investimenti infrastrutturali pubblici e privati che quelli nella formazione permanente del capitale umano in base a un adeguato habitat normativo e culturale». Effettivamente se con l’avanzamento delle proprie competenze all’operaio arriva un incremento salariale praticamente pari a 0, la produttività i padroni la recuperano eccome. In realtà nel mondo è da decenni che la produttività del lavoro aumenta (dove più, dove meno), senza che gli operai vedano nulla della ricchezza in più da loro prodotta.

[6] Accordo, cit., p. 10.

[7] Ivi, pp. 11-12. Confindustria si rivendica con orgoglio questo punto: cfr. Più spazio al Welfare nei due livelli negoziali, in Il Sole 24 ore, 1/3/2018.

[8] Citato in A. Giannini, F. Garibalto et al, La partecipazione dei lavoratori all’impresa, Eni Corporate University: Milano, 2012, p. 23.

[9] Ivi, p. 177.

[10] Cfr. ivi, p. 179.

[11] Ivi, p. 49

[12] Ibidem

[13] Giampiero Falasca, Un modello flessibile per le diverse categorie, Il Sole 24 ore, 1/3/2018.

 

Matteo Pirazzoli

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.