Il cinema, sin dalle origini, ha dimostrato il grande impatto emotivo che riversava sul suo pubblico. Le battute di alcuni film ci restano impresse per sempre, alcune scene le riproduciamo incosciamente nel quotidiano ed imitiamo lo stile di quegli attori o attrici che danno vita a personaggi iconici.
Nonostante la settima arte sia stata invenzione di due uomini (Auguste e Louis Lumière) già nel 1896, appena un anno dopo la prima proiezione dei Lumière, appare sulla scena la prima donna regista: Alice Guy Blachè. Come ben si nota, le donne sono da subito ben inserite nel mondo dell’industria cinematografica. Purtroppo, facendo eccezione per Alice Guy, il genere femminile è solitamente relegato alla lettura soggetti o ha il compito di scrivere sceneggiature.
Nonostante questo tocco femminile, le storie messe in scena dai registi a cui venivano affidate le sceneggiature, coincidevano con un classico stereotipo sociale che vedeva l’uomo come l’eroe e la donna come sottomessa.
Quindi, seguendo un processo di identificazione, lo spettatore si identifica nell’eroe. La spettatrice, invece, si riconosce nella parte passiva della vicenda. Tuttavia, secondo la critica Laura Mulvey, è possibile per una donna identificarsi con il protagonista maschile, grazie ad una regressione alla fase pre-edipica, periodo in cui la bambina (come il bambino) ha una sessualità attiva. Di conseguenza, il cinema dà vita a questa regressione e, nel fantasticare sè stessa nel ruolo attivo\maschile, la donna riscopre anche la propria identità sessuale. Di fatti, con l’arrivo degli anni ’30, ha inizio una nuova corrente cinematografica che vede la protagonista femminile vestire non solo il ruolo di madre\moglie, ma anche quello di donna sessualmente attiva, sessualmente fluida. Attrici come Marlene Dietrich e Greta Garb, rompono finalmente il tabù della passività. Prendiamo il film “Venere bionda” del 1932: il personaggio della Dietrich segue un arco di crescita sbalorditivo. La crescita è legato al ruolo sociale che ella ricopre: si muove tra diverse identità femminili. E’ moglie e madre, poi diventa amante e performer, poi donna in fuga e prostituta per mantenere il figlio e, in un finale decisamente contradditorio, rinasce come una bizzara mamma-diva. Lo stesso vale per “La regina Cristina” interpretata dalla Garbo, in cui viene delineata la biografia di una delle sovrane più potenti ed indipendenti d’Europa.
La donna inizia, così, a diventare personaggio attivo, non solo come “eroe” di una pellicola, ma anche come spettatrice e, in seguito, come regista. La moda, inutile nasconderlo, è parte integrante del mondo del cinema. Il lavoro dei costumisti è quello di creare abiti che identifichino il personaggio, prima ancora che egli dica una singola battuta. La protagonista si impadronisce di abiti maschili, rendendoli sensuali e femminili. La spettatrice, quindi, può immedesimarsi più facilmente in quel personaggio tanto amato sullo schermo, indossando i suoi stessi abiti, come ribellione e assunzione di “potere”. Ecco nascere la forza del cinema: l’empatia e l’immedesimazione. Una forza che, non a caso, è stata sfruttata intensamente come estensione e approfondimento ideologico-culturale di altri poteri, come quello politico dello Stato e quello economico dei grandi capitalisti.
Per il ruolo della donna-regista, ci sarà altro da scrivere, essendo questo un argomento ben più articolato e delicato da trattare. Tuttavia possiamo concludere rendendo omaggio all’alleanza che si crea ancora oggi tra quelle donne (le attrici) che, continuando a dar corpo a chi (le spettatrici) non trova sempre il coraggio o il modo di esprimersi.

 

Sabrina Monno

 

Nata a Bari nel febbraio del 1996, laureata presso la facoltà DAMS di Bologna e studentessa presso Accademia Nazionale del Cinema, corso regia-sceneggiatura. Lavora prevalentemente in teatro, curando reading di lettura e sceneggiature.