Nel corso del suo primo anno di mandato, Macron è riuscito ad andare avanti senza incontrare grosse resistenze e ad attuare una imponente serie di controriforme indirizzate a trasformare radicalmente e rapidamente il capitalismo francese. La battaglia delle ferrovie e la “primavera del malcontento” che l’accompagna potrebbero essere considerati come esperienze rivelatrici dei limiti della tattica del presidente e della sua capacità di portare a termine le riforme programmate. La primavera sociale che si desta fa venire alla luce le difficoltà del macronismo ad imporsi come nuovo blocco egemoinico. Rimane un interrogativo: come riuscire a vincere contro Macron ed il suo mondo?


Cos’è il macronismo?

L’efficienza che ha caratterizzato il macronismo nel corso di quest’anno di mandato è dovuta ad una combinazione eccezionale di circostanze, alcune congiunturali ed altre strutturali. Ci riferiamo: a) al modo con cui il presidente fa pesare la legittimità del suo mandato elettorale ed il fatto di giocare a carte scoperte; b) alla fase di relativa ripresa economica, pur con le sue contraddizioni; c) al vuoto del panorama politico francese che, pur essendo espressione della crisi del capitalismo francese, lascia nell’immediato ampi margini di manovra all’azione dell’esecutivo; d) al movimento operaio ed alla sue posizioni blande e timide.

A differenza delle due coalizioni sociali che si sono succedute al potere nel corso degli ultimi vent’anni, il macronismo ha permesso di unificare politicamente la grande borghesia (che in altre occasioni era invece divisa tra destra e sinistra) ed importanti settori del ceto medio-alto attorno ad un progetto neoliberale. Col suo progetto politico improntato ad una mistica individualista incarnata dalla figura dell’imprenditore 2.0, il liberalismo parla in prima persona con la voce di Emmanuel Macron, fatto che non avveniva da tempo. Non è esagerato dire che per trovare un antecedente del macronismo occorre risalire alla Monarchia di Luglio (1830-1848) e a personaggi come Guizot, primo ministro di Luigi-Filippo.

E tuttavia non ci sbagliamo. Non bisogna fare fede al consenso che serra i ranghi delle classi dominanti o alla vasta maggioranza parlamentare di cui gode l’esecutivo. Se si considerano i risultati di Macron al primo turno delle presidenziali in rapporto al totale degli aventi diritto al voto e non ai votanti, è facile constatare che l’ex inquilino di Bercy ed ex consigliere di Hollande ha raccolto solo il 18% dell’elettorato potenziale. Per trovare una performance così magra dobbiamo risalire al precedente di Chirac nel 2002, già logorato dal primo settennato, o al 1995 (dove lo stesso Chirac concorreva contro Balladur, esponente dello stesso partito). In confronto, Hollande nel 2012 e Sarkozy nel 2007 hanno raccolto rispettivamente il 22 ed il 25% dei consensi del totale degli aventi diritto, risultati, questi, già modesti se paragonati a quelli di Mitterand e di Giscard. Peggio ancora se si confronta la situazione attuale con le elezioni vinte da de Gaulle e de Pompidou. Per confermare questa valutazione sarebbe sufficiente considerare i magri risultati ottenuti da La République En Marche (LREM) al primo turno delle legislative dello scorso anno. LREM ha ottenuto il 15% dei suffragi sul totale degli aventi diritto, risultato assai modesto ed inedito negli ultimi decenni per un partito presidenziale. In confronto il PS di Holland ottenne il 22% , l’UMP il 27% e il PS di Mitterand nel 1981 il 38%. (Bruno Amable, «Le pouvoir n’est fort que par la division»).

Questi risultati rivelano che la base sociale del macronismo è assai sottile e che Macron approfitta di una opposizione divisa, frammentata e debole. Si tratta in questo caso, come abbiamo già detto, di un “bonapartismo debole”.

Forte della congiuntura favorevole che gli offrono le attuali circostanze, poggiando il proprio consenso su una base sociale molto fragile ed essendo questa una situazione che lo spinge e affondare i colpi con vigore e rapidità, Macron ha usato una tattica diversa da quella dei predecessori. Si tratta per lui di lanciare una sorta di offensiva permanente, com’è chiaro analizzando la quantità di riforme esplosive messe in cantiere dal presidente. Ci riferiamo alla legge XXL sul lavoro (nella prima versione della riforma, la Legge El Khomri) alla riforma dell’indennità di disoccupazione, alla riforma dell’università, per non parlare della soppressione dell’ISF e dell’aumento della CSG, misure fiscali favorevoli alla base sociale sulla quale poteva contare il macronismo in seno ai pensionati.

Queste riforme a ritmo incalzante perseguono però un altro obiettivo. Si tratta di congelare il movimento di massa e di evitare la sua cristallizzazione come poteva iniziare a vedersi almeno da Gennaio in occasione dello storico sciopero dei dipendenti delle residenze sanitarie (Ephads) e che contava su un enorme sostegno in seno all’opinione pubblica. Macron ha risposto a modo suo con la riforma della funzione pubblica. Stando alle parole di un consigliere dell’esecutivo, questi strappi continui e sistematici servono per “dettare l’agenda senza subirla”.

Se il macronismo poggia a destra sui meccanismi più antidemocratici del sistema istituzionale della V Repubblica (istituti e sistemi peraltro rafforzati nel corso del precedente quinquennato), questa prima parte del mandato presidenziale di Macron non si capirebbe fino in fondo senza considerare il ruolo decisivo giocato, a favore del regime, sul “lato sinistro”, dagli orinetamenti delle grandi confederazioni sindacali. Come ha sottolineato Michel Noblecourt in un articolo de Le Monde di inizio giugno intitolato “L’attitudine positiva dei sindacati”,

consapevole della fragilità della sua onnipotenza, e considerando anche il tasso di astensione alle elezioni presidenziali ed alle successive legislative e infine che i voti conquistati da Marine Le Pen e da Mélenchon confermano la collera di una società che ha i nervi scoperti, il capo dello Stato ha promesso che le ordinanze relative alla riforma del lavoro saranno precedute da una autentica concertazione.

I toni sono cambiati già dalla prima vittoria politica in occasione dell’approvazione della legge sul lavoro. L’approvazione di questa legge ha rappresentato una spinta per Macron. La legge XXL sul lavoro, ricordiamo, è l’espressione della volontà di rimettere in discussione il sistema socio-economico sul quale si era basata l’intera politica del dopoguerra, sistema basato sul compromesso tra lavoro e capitale, finalizzato ad evitare l’avanzare della rivoluzione socialista una volta terminata la guerra. Nelle riforme che sono succedute dopo l’approvazione della legge sul lavoro, il macronismo ha mostrato il suo vero volto, rafforzando le competenze ed il ruolo dello Stato come arbitro in tema di legislazione sul lavoro e indebolendo invece il ruolo dei sindacati a vantaggio dell’impresa in molteplici settori e rimettendo così in discussione il ruolo sostanzialmente paritario giocato sino a questo punto tra organizzazioni sindacali ed impresa.

Le organizzazioni sindacali non si aspettavano un attacco di questa portata condotto contro i corpi intermedi, attacco che ha messo a nudo la loro impotenza attuale. Si tratta della conseguenza diretta del carattere riformista delle politiche e degli indirizzi del movimento operaio e della loro collaborazione con il padronato e con lo stato borghese. Le loro lamentele attuali sono l’espressione del declino e dell’impotenza di sindacati ed organizzazioni padronali nella corsa inarrestabile verso i mercati.

 

Spiegare il macronismo: le difficoltà di risolvere la crisi di egemonia del capitalismo francese

L’insieme degli elementi che abbiamo elencato ha permesso a Macron di rafforzare la propria posizione e, cosa sorprendente, senza neppure suscitare la ripresa delle proteste. La sua capacità di trasmettere un messaggio convincente resta però tutta da dimostrare e questo determina dubbi sulla sua capacità di risolvere la crisi di egemonia della borghesia francese; allo stesso tempo apre una crepa nella sua maschera di invincibilità. Si tratta di un insieme di elementi che potrebbero essere messi a frutto dal movimento di massa per sferrare l’offensiva. Cominciamo a discutere del metodo: la guerra di movimento, coi suoi molteplici fronti aperti, comincia ad essere messa in discussione. Questo è quello che sottolinea Cécile Cornudet ne Les Echos del 22 marzo:

Per rompere con l’immobilismo di Hollande, Emmanuel Macron si è armato di bulldozer, certo della propria legittimità,  salvo che al momento del primo bilancio la sua rischia di apparire come una presidenza scollagata dal resto della realtà e le riforme rischiano di non essere sufficientemente penetranti, mancando corpi sociali, politici ed intellettuali in grado di farle proprie, di applicarle e diffonderle.

Il suo volontarismo rischia di giorno in giorno di trasformarsi in autoritarismo e la sua “presidenza olimpica” in una forma di cesarismo. Se aggiungiamo i frequentissimi “ci penso io” macroniani, si delinea il quadro di una presidenza che ha i tratti distintivi di un potere sempre più antidemocratico. Questo implica anzitutto ridimensionare il potere del Parlamento nel quadro di una futura riforma costituzionale, riducendo i parlamentari a semplici presenze.

E v’ è di peggio. Si tratta come hanno definito alcuni, di un problema di “presa” del macronismo. È quello che sottolinea Eric Le Boucher in un articolo di fine marzo apparso su les Echos. “A proposito della legge sul lavoro, della questione della formazione o della questione delle ferrovie – scrive l’editorialista – il cambiamento non è di poco conto. L’ impressione è tuttavia che una volta fatte le riforme, riprenda comunque il vecchio corso. Non c’ è una vera svolta. Come se i francesi avessero dato fiducia al programma di riforme del presidente ma senza sperare che esse potessero avere autentici effetti positivi sulle loro vite, come se le riforme fossero troppo tardive. Una volta approvate le riforme, i francesi si attendono comunque un ritorno al vecchio, allo stato-bancomat che da trent’ anni dà a ciascuno la sua parte ed un ritorno alla politica vista come disputa tra rappresentanti di diverse categorie”. E in chiusura Le Boucher scrive, con una punta di amarezza che “il presidente porta avanti le sue riforme a passo sostenuto, ma stenta a farle capire ai francesi. Questo scarto tra azione e spiegazione rischia di ritorcerglisi contro”.

Per dirla in altro modo, e come indicano in generale i sondaggi, la maggioranza della popolazione e in particolare i lavoratori delle fasce sociali più deboli, dove la caduta di consensi per il governo è più marcata, non è pronta ad accettare una evoluzione sociale verso il modello ultraliberale. A differenza del tatcherismo e del suo “capitalismo sociale”, che seppe attirare il consenso di larga parte delle classi medie, il macronismo non distoglie la maggioranza dell’ opinione pubblica dal pessimismo dovuto in larga misura alla povertà e alla paura della disoccupazione.

Come indicano il calo di consensi di Macron e del suo primo ministro e i modesti risultati dei candidati de LREM in occasione delle ultime elezioni legislative parziali, il macronismo stenta ad allargare la già stretta base sociale su cui poggia. Questo rappresenta un ostacolo di gran lunga maggiore rispetto alla strategia di blocco egemonico portata avanti in questo anno. Come sottolinea Bruno Amabile su Liberation, “la strategia di Macronismo rischia di ritorcersi contro lo stesso presidente, finendo per costituire un ostacolo al suo consolidamento strategico come blocco sociale dominante.

“Il regime che Macron vuole instaurare – sottolinea Amabile nel suo articolo – si caratterizza piuttosto come una alleanza tra il capitale ed una frazione dei salariati. La conseguenza delle politiche di Macron e delle “riforme” (parcellizzazione dei salariati, aumento delle disuguaglianze e privatizzazione di interi settori), non sono conseguenze ma vere e proprie esigenze strutturali per far emergere una nuova alleanza sociale. Il rischio di questa strategia è quello della fuga in avanti. La stabilità del nuovo regime poggia sulla capacità di far aderire nuovi segmenti delle fasce medie ad un nocciolo costituito dai ceti più abbienti. Ma gli effetti disgreganti delle misure economiche liberali potrebbero far sentire i propri effetti ben al di là dei ceti salariati e delle classi popolari e le misure fiscali potrebbero creare svantaggi anche e a quelli che la destra chiama “piccoli ricchi”. Il regime si trova così di fronte ad una contraddizione: le condizioni necessarie alla creazione di un blocco sociale capace di sostenerlo sono esattamentele le stesse che potenzialmente possono renderlo fragile”.

Il rigetto suscitato dalla impennata della CSG [contributo che finanzia la Previdenza Sociale] e il consenso suscitato nell’opinione pubblica dalla protesta dei pensionati hanno forse creato seri danni alla strategia di costruzione del potere da parte di Macron. Anche la questione del potere d’ acquisto ha creato una frattura tra governo e maggioranza dell’ opinione pubblica. Lo specialista di sondaggi Bernard Sananès spiega che “la classe media, che in maggioranza aveva guardato a Macron per la sua proposta di abolire la tassa sulle abitazioni, giudica oggi che le misure economiche e fiscali prese dal governo hanno indebolito il proprio potere d’ acquisto (opinione espressa dal 46% degli intervistati). È la stessa posizione del totale dell’ elettorato ivi compresi – fatto inquietante per il Capo dello Stato – gli elettori che lo hanno votato al primo turno (45%).” La questione del potere d’ acquisto rischia di impegnare il governo per mesi e diventare l’ equivalente di ciò che fu per Hollande l’ inversione della curva della disoccupazione”.

L’ insieme di questi elementi indica che il macronismo potrebbe essere in pieno reflusso. Malgrado il volontarismo del presidente, il 2018 di Macron non è il 1984 della Thatcher a causa delle condizioni internazionali assai fluide, della conflittualità tra il modello dello stato-nazione e le spinte globalizzatrici ma anche a causa dei problemi interni della Francia. Come è stato definito dalla XI Conferenza della Frazione Trotskista-Quarta Internazionale del marzo 2018, il macronismo, ultima declinazione del neoliberismo francese, è “un neoliberismo senile, non egemonico, che tende ad approfondire la polarizzazione sociale e politica e che potrebbe creare condizioni assai favorevoli allo sviluppo dei processi di lotta di classe e alla radicalizzazione politica più massiccia”.

Una strategia ed un programma per vincere all’altezza dello scontento operaio, studentesco e popolare

La battaglia delle ferrovie è solo la punta di una primavera sociale che potrebbe essere molto agitata. Sul versante del lavoro privato si registrano gli scioperi dell’insieme delle categorie e del personale di Air France per gli aumenti di stipendio. Sabato 30 marzo, in occasione del weekend di Pasqua, il gruppo Carrefour è stato scosso da uno dei più grandi scioperi mai organizzati. Per quanto riguarda i giovani e l’insegnamento superiore, c’ è agitazione nel mondo universitario, agitazione che non è ancora esplosa in maniera generalizzata, anche se la sfida rimane aperta. La giornata di mobilitazione del 22 marzo ha riunito 7 delle 9 organizzazioni del settore della funzione pubblica e conferma lo stato di agitazione. Allo stesso tempo la CGT servizi pubblici e la CGT trasporti hanno invocato lo sciopero a oltranza ponendo al centro della discussione i problemi del servizio di nettezza urbana ed hanno proposto che venga riconosciuto uno statuto particolare ai lavoratori di questo settore anche attraverso il riconoscimento delle gravose ed insalubri condizioni di lavoro per i lavoratori di questo settore. Nel settore dell’energia, dove è stato annunciato il calendario di uno sciopero a singhiozzo, si sono sollevate numerose critiche per le conseguenze delle privatizzazioni. Tutto questo sullo sfondo della mobilitazione permanente nel settore delle residenze sanitarie per gli anziani. La tensione è dunque crescente e palpabile.

Questo malcontento popolare, studentesco ed operaio trova però un ostacolo, vale a dire la debolezza e la strategia corporativista delle posizioni ufficiali del movimento operaio e il proseguire della strategia di concertazione nel quadro dei limiti fissati dal governo. Questa strategia di pressione dei sindacati cerca di aprire una autentica concertazione col capitale e con lo Stato che si dimostra però inflessibile. Questa strategia è il sottoprodotto della crescente pressione verso la concorrenza a livello europeo e mondiale, pressione crescente a partire dalla crisi capitalistica del 2088, ma anche a seguito della disfatta in occasione della riforma delle pensioni di Sarkozy del 2010, della legge El Khomri, delle ordinanze XXL del 2017..

In questo contesto, dove i settori più riformisti come la CFDT si oppongono ad ogni prospettiva di lotta, altri gruppi come la CGT e Solidaires fanno ricadere la responsabilità delle sconfitte all’ assenza di mobilitazione dei lavoratori, continuando al contempo a sedersi ai tavoli di concertazione col governo. Nessuna di queste opzioni permette di costruire una prospettiva in grado di soddisfare il malcontento e le tendenze alla radicalizzazione che serpeggiano tra la base,

È in questo senso che Laurent Berger, segretario generale della CFDT, critica l’ appello ad una giornata di mobilitazione interprofesisonale per il 19 aprile sostenuta dalla CGT. “Qual è l’ obiettivo di Martinez? – si chiede Berger – Far cadere Macron? È un vicolo cieco. Cosa porta questa strategia ai salariati? La CGT rinunci alla strategia di opposizione frontale e poi vediamo bene chi vince in questo confronto. La convergenza delle lotte è una battaglia politica. Non è monopolio del sindacato portare avnati questa battaglia. Bisogna portare avanti una strategia di lotta sindacale in grado di assicurare ai lavoratori risultato concreti”. 

Bisogna invece andare proprio verso questa direzione: uno sciopero generale politico che paralizzi il Paese e metta in scacco tutta quanta la politica del governo. Ma quando Martinez si dice pronto alla convergenza delle lotte lo fa dietro ad un programma di rivendicazioni parziali che non sarebbe capace di risvegliare l’entusiasmo dell’insieme del movimento operaio. Sia nel 2016 contro la legge El Khomri che nel 2017 in occasione delle ordinanze XXL, la CGT si è sempre rifiutata di difendere un programma che avesse come punto di partenza il ritiro delle controriforme del Codice del lavoro e che avesse al centro la lotta per il miglioramento delle condizioni di lavoro, contro la precarietà e la disoccupazione e che permettesse di esprimere l’energia e la combattività dei settori più poveri e precarizzati del proletariato come dei giovani dei quartieri, dei precari, degli studenti e dei liceali. Se oggi la CGT è costretta a parlare di potere d’ acquisto, si guarda bene però dal chiedere il ritiro delle ordinanze, la ridiscussione del patto ferroviario e senza neppure esprimersi in modo chiaro e netto per lo sciopero interprofessionale.

Allo stesso tempo essa cerca di evitare l’ emergere di ogni forma di auto organizzazione, soprattutto nel caso delle ferrovie dove la tattica dello sciopero di due giorni su cinque su un calendario prestabilito, ha come effetto  di svuotare le assemblee generali del loro potere di decisione sui tempi della mobilitazione oppure costringe a organizzare assemblee genrali degli aderenti alla CGT separate dal resto dei lavoratori.

Oggi come in passato non sta scritto da nessuna parte che i lavoratori non sono pronti alla lotta dura e anche allo sciopero generale, come lascia invece intendere la direzione della CGT. Ciò che è certo invece è che nessuno saprebbe impegnarsi in una lotta radicale che avesse per obiettivo ultimo rivendicazioni solo parziali o di corto respiro. Nessuno riuscirebbe a impegnarsi se le direzioni sindacali non esprimessero una prospettiva, una determinazione ed una strategia per vincere contro Macron ed il suo mondo e se i lavoratori non avessero voce in capitolo. A questo precisamente si oppone la strategia della CGT come se essa temesse di portare avanti una lotta radicale e dalle caratteristiche rivoluzionarie come nel 1936 o nel 1968. Nessuno saprebbe impegnarsi sul terreno della lotta se alcune direzioni sindacali continuassero a misurarsi sul terreno della concertazione.

Nel corso degli anni 30, quando gli effetti della Grande Crisi si facevano sentire in Francia e prima che iniziasse una serie di scioperi che avrebbero dovuto portare all’ occupazione delle fabbriche e all’avvio di un processo rivoluzionario, Léon Trotsky criticava la logica sindacalista e corporativista della direzione del PCF ed il suo programma di rivendicazioni immediate. Indicando i limiti di questo orientamento, Trotsky sottolineava che “l’ annuncio delle rivendicazioni immediate è fatto in maniera generica: difesa dei salari, miglioramneto dlle assicurazioni sociali, convenzioni collettive…Non una sola parola sul carattere che dovrebbe assumere la lotta attuale per queste conquiste nelle condizioni della crisi sociale attuale. Ogni operaio comprende quindi che con due milioni di disoccupati totali o parziali, la normale lotta sindacale per le convenzioni collettive appare come pura utopia. Per costringere i capitalisti a fare delle concessioni autentiche in questa situazione sociale, occorre far breccia nella loro volontà e questo non è possibile senza una offensiva rivoluzionaria. Ma un’offensiva rivoluzionaria che opponga una classe ad un’ altra non può svilupparsi unicamente sotto parole d’ordine economiche parziali. Si cadrebbe in un circolo vizioso. Qui sta la principale causa si stagnazione del fronte unico. La tesi marxista generale per cui le riforme sociali sono solo il sottoprodotto della lotta rivoluzionaria, assume nelle circostanze del declino del capitalismo una importanza immediata  e bruciante. I capitalisti possono cedere o concedere agli operai qualche cosa solo se vengono minacciati di perdere tutto. Ma anche le più grandi “concessioni” di cui è capace il capitalismo contemporaneo (anch’esso in una situazione di stallo) saranno ad ogni modo incomparabili se confrontate con l’ ampiezza della crisi e con la miseria della masse. Ecco perché la prima delle rivendicazioni deve essere l’ esproprio dei capitalisti e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Questa rivendicazione è irrealizzabile sotto il dominio della borghesia? Evidentemente sì. Ecco perché bisogna conquistare il potere”.

Possiamo inoltre sottolineare che la direzione della CGT avanza delle scuse per nulla nuove. Trotsky rispose in questo modo alla direzione riformista del movimento operaio: “i capi del Partito Comunista possono certo invocare il fatto che le masse non rispondono al loro appello. Questo fatto non inficia ma anzi conferma la nostra analisi. La masse operaie comprendono ciò che non comprendono i capi, vale a dire che nelle circostanze di una profonda crisi sociale, una lotta economica solo parziale che esige enormi sforzi e grandi sacrifici non può dare risultati accettabili. Peggio ancora: essa può indebolire il proletariato. Gli operai sono pronti a partecipare alle manifestazioni di lotta ed anche allo sciopero generale, ma non a piccoli scioperi, duri e senza prospettive. Malgrado gli appelli, i manifesti e gli articoli de L’Humanité, gli agitatori comunisti non compaiono in nessun modo davanti alle masse a predicare lo sciopero in nome di rivendicazioni parziali immediate. Essi hanno percezione che i piani burocratici dei capi non corrispondono per nulla alla situazione obiettiva né al sentire delle masse. Senza una significativa prospettiva, le masse non possono combattere e non cominceranno a lottare”.

Ecco un paradosso che ha il suo corrispettivo nella situazione attuale. Quando il governo procede a ranghi serrati e dal basso cresce la radicalizzazione delle masse e cresce la mobilitazione, anzichè convergere verso la generalizzaizone delle lotte nella prospettiva dello sciopero generale, le direzioni sindacali continuano a giocare al finto gioco della concertazione. Questo non impedisce i più combattivi che chiamano all’ azione come a quella del 19 Aprile: essi  cercano solo di coprire la mancanza di determinazione dei settori più combattivi della loro confederazione e a canalizzare la loro azione.

In questo senso, nel suo articolo intitolato “Ordinanze SNCF: l’ ocacsione”, pubblicato il 20 marzo, Lordon critica la “miseria del sindacalismo” sottolineando i limiti delle direzioni del movimento operaio. “Denunciare che le cose vanno male, e che tutto questo è odioso, è una domanda di vera politica. Significa voler prendere la via della vera politica, non una questione di buoni pasto […] É evidente che non riusciremo in questa lotta se non a condizione di far entrare i non ferrovieri nelle questioni dei ferrovieri. Nel 2018, dopo dieci anni di crisi strutturale mondiale, non si può fare sindacalismo come ai tempi del fordismo. Ecco il punto il cui il sindacalismo si confronta col proprio limite: se non è capace di fare politica e di riassumere in un discorso generale le varie istanze in un discorso d’ insieme, il sindacato non sarà più vincitore in alcun confronto e precisamente perché i grandi confronti hanno implicazioni politiche.”

Anche se è condotta a vantaggio di una variante del riformismo (quella incarnata da France Insoumise e da Mélenchon con la marcia del 5 aprile la quale, ben lontana dall’ essere una giornata di sciopero e di lotta centralizzata in prospettiva dello sciopero generale per vincere Macron, è solo l’ ennesimo tentativo di diluire il movimento operaio) la critica di Lordon ai limiti del sindacalismo non è priva di verità. Anzitutto c’ è la necessità che la lotta incarni un programma generale, un programma che superi le rivendicazioni parziali delle varie categorie (e senza negare il ruolo che queste rivestono in un gran numero di conflitti) per suscitare l’entusiasmo di ampie fasci degli sfruttati.

Quando il programma macronista (nel caso specifico per la questione delle ferrovie ma anche per altri servizi pubblici come insegnamento superiore, sanità, pensioni…) spinge alla concorrenza, alla privatizzazione ed alla ricerca del ritorno economico anche a rischio di creare servizi a doppia velocità, una per pochi ricchi privilegiati ed una per la grande maggioranza degli sfruttati e degli oppressi, quale prospettiva è più realistica ed unitaria di quella della nazionalizzazione-socializzazione dei servizi pubblici e dei settori strategici dell’ economia?

Allo stesso tempo, nel movimento studentesco, come uscire dall’impasse selezione o estrazione a sorte se non attaccando i tagli di finanziamenti che hanno creato questa situazione e imponendo investimenti massicci per la costruzione di nuove università in modo da mantenere realmente universale il diritto all’istruzione superiore? Ma per fare questo occorre anzitutto abrogare la legge LRU sulla responsabilità delle università che le ha consegnate nelle mani di “personalità esterne” espressione del potere dominante sulle università per instaurare un nuovo potere dove siano gli studenti ed il personale docente e non docente a decidere democraticamente il funzionamemto e gli indirizzi da seguire, le strategie pedagogiche  e gli obiettivi della ricerca, una ricerca finalizzata al bene ed al progresso della maggioraza degli sfruttati degli oppressi e non dei capitalisti.

Con tutta evidenza rivendicazioni di questa portata pongono problemi più generali come l’abrogazione dei regali concessi ai padroni (CICE, soppressione dell’ ISF) per reinvestire questo denaro nei servizi pubblici. Ma esse permetterebbero anche di superare il particolarismo e le divisioni e di rispondere alle aspirazioni di ampie fasce sociali (come ad esempio degli abitanti delle regioni più periferiche del paese, dove non a caso avanza il Fronte Nazionale) e dell’ insieme delle classi popolari che guardano con preoccupazione l’ avvenire dei propri figli. In questo senso queste rivendicazioni radicali combattono Macron ed il suo mondo, quello dove prosperano, governo dopo governo, i parassiti capitalisti ed aprono la prospettiva di una società nuova, organizzata e pianificata democraticamente dai lavoratori..

Alcuni potrebbero dire che questo non è un programma realista perchè non corrisponde al rapporto di forze ed al livello di coscienza dei lavoratori. Ma entrambi sono elementi dinamici che si forgiano con la lotta. Coloro che decretano i limiti del movimento prima della lotta sono solo profeti di sciagure. La lotta delle classi si intensificherà inesorabilmente nel prossimo periodo. Resta da vedere se il governo ed i capitalisti riusciranno ancora ad arginarla o se il movimento operaio saprà organizzare una offensiva di tale portata da farli retrocedere. Il fatto che milizie proto-fasciste attacchino il movimento studentesco è indice della situazione convulsa. Le necessità imposte da questa situazione devono guidare l’azione delle masse e non i pregiudizi conservatori dei loro dirigenti a proposito del loro “livello di coscienza” o del “rapporto di forze”.

I lavoratori sono stanchi delle lotte senza risultati e delle giornate di sciopero senza prospettive che prostrano la fasce più consapevoli degli operai. Ma la determinazione degli operai è proporzionale tanto agli obiettivi della lotta che alla fiducia nella possibilità di vittoria, come si è potuto constatare nel caso di mobilitazioni parziali come quella degli inservienti delle stazioni del gruppo Onet con il loro sciopero vittorioso di 45 giorni, quando non solo sono riusciti a bloccare gli attacchi ma anche ad ottenere nuove vittorie, come l’ integrazione del personale alla convenzione collettiva della manutenzione ferroviaria.

Il macronismo comincia a mostrare la sua fragilità e a dimostrare che è lontano dall’essere invincibile. La borghesia comincia da parte sua ad inquietarsi. Eric Le Boucher, nell’ articolo che abbiamo citato, si lamenta che “Macron va incontro ad un periodo burrascoso. Iniziano gli scioperi e anche se i francesi sono favorevoli alla riforma della SNCF, il potere rischia di lasciarsi le penne. Aggiungete poi le lamentele dei funzionari, quelle contro la CGS e l’ irrtiazione degli studenti contro Parcoursup, il nuovo dispositivo di iscrizione all’università, ed ecco che il malcontento cresce”.

La possibilità che la battaglia sulla questione delle ferrovie sia la scintilla di un movimento di contestazione contro Macron è concreta. Dal risultato di queste prime mobilitazioni dipenderà il futuro del suo quinquennato, ma dipenderanno anche le sorti del movimento operaio nel suo complesso. Un passo indietro del governo farebbe cessare il mito della sua invincibilità e potrebbe aprire una tappa di controffensive dei lavoratori e dei giovani su tutti i fronti. Smettiamo di tergiversare. Non c’ è più tempo da perdere e occorre dotare la classe operaia e i giovani di una strategia e di un programma di lotta capaci di portare alla vittoria.

Juan Chingo
Traduzione: Ylenia Gironella
Fonte: www.revolutionpermanente.fr

 

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.