A pochi mesi dal picco della tensione tra Seul, Washington e Pyongyang – raggiunto con i test missilistici nord-coreani e le provocazioni di Trump dell’autunno scorso – Kim Jong Un e il presidente “sudista” Moon Jae In si sono incontrati per dare avvio a un negoziato che promette di concludersi con la stipula di un trattato di pace tra la Republic of Korea (ROK) e la Democratic Republic of North Korea (DRNK). Non è la prima volta che i governi situati ai lati opposti del 38° parallelo intavolano trattative [1], ma quella cominciata la settimana scorsa segna alcuni punti di novità come ad esempio la disponibilità di Pyongyang a parlare di “pace” direttamente con Seul [2]. In effetti, non si può affatto dire che Washington, ma anche Pechino, siano assenti dalle mediazioni. Il meeting di venerdì 27 aprile è infatti stato preceduto da un colloquio tra il leader nord-coreano e Xi-Jinping, al quale è seguito un incontro tra Kim e il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, in attesa di un’imminente appuntamento ufficiale con il presidente statunitense; come vedremo, inoltre, la questione coreana non può essere compresa senza fare riferimento alla partita strategica tra Washington e Pechino.
Comprensibilmente, Trump ha colto l’occasione per prendersi il merito dei recenti sviluppi diplomatici, interpretati – a dire il vero – anche da molti osservatori come il risultato dell’intensificazione delle pressioni USA sulla Cina affinché fosse più rispettosa del regime sanzionatorio imposto dalla “comunità internazionale” alla dittatura di Pyongyang. Anche se è vero che negli ultimi mesi Xi Jin Ping ha imposto una sensibile riduzione delle forniture di petrolio alla RDNK[3], la realtà è più complessa e segna al contrario il fallimento di lungo periodo della politica di isolamento portata avanti dagli Stati Uniti nei confronti della Corea del Nord, la quale – bilanciando abilmente tra Pechino, Washington e Seul – è riuscita negli anni a portare a termine il suo progetto di costruzione di un arsenale atomico che ora può essere utilizzato come leva per trattare alla pari con gli altri attori. E’ dunque probabile che Trump sbagli – e ci torneremo – a inneggiare alle evoluzioni di questi giorni come a un primo passo verso la “denuclearizzazione della Corea del Nord”. Nei colloqui tra Moon e Kim, peraltro, se è vero che le parti si sono impegnate ad evitare provocazioni militari reciproche, e Seul ha promesso di smantellare gli altoparlanti che emettono propaganda anti-comunista lungo il 38° parallelo, non si è stabilito nessun passo concreto verso la “denuclearizzazione”, alla quale pur si fa cenno nella dichiarazione uscita dall’incontro.

 

IL (TARDO) STALINISMO NORD-COREANO IN CRISI

Un elemento poche volte tenuto in considerazione dai commentatori per leggere gli avvenimenti di questi giorni sono le trasformazioni in corso nell’economia nord-coreana, dove il deterioramento della pianificazione cominciato con il crollo dell’URSS – da cui la profonda crisi degli anni 90 – e aggravato dall’isolamento internazionale, hanno finito per sviluppare un vero e proprio proto-capitalismo indigeno. Il “mercato nero”, infatti, è ormai pienamente alla luce del sole e nei pori dell’apparato produttivo statale prosperano imprese de facto private, ma registrate come pubbliche in cambio di mazzette ai burocrati o per mano dei funzionari stessi (in particolare di quelli di medio-basso livello). Le cifre che indicano il peso dell’ “economia di mercato” sul PIL nord-coreano attorno al 50% sono da prendere con le pinze, ma l’importanza del “settore privato” sembra ormai da qualche anno un dato di fatto con il quale il regime di Pyongyang deve fare i conti [4].
E’ evidente, in altri termini, che a causa di una realtà del genere, la burocrazia possa giocare sempre meno sulla pura e semplice paura dell’imperialismo per puntellare la sua preminenza sociale e politica; se essa vuole sopravvivere come casta dominante è invece sempre più necessario bilanciare i proto-capitalisti locali – ormai egemoni nel settore dei trasporti e del commercio – con una maggiore apertura al capitale straniero, come fece il Partito Comunista Cinese a partire dagli anni 80 [5]. Questo anche nell’ottica di impostare una crescita economica in grado di fare da contraltare alle sempre più accentuate disparità sociali associate all’aumento di importanza delle relazioni “di mercato”.
Non esistono, infatti, né la volontà né i presupposti oggettivi per un ritorno a un modello di accumulazione “stalinista”. E’ discutibile, giusto per capirci, che vi siano settori rilevanti della burocrazia disposti a rinunciare alle ingenti ricchezze private recentemente incamerate grazie alla crescente importanza della zona grigia tra pubblico e privato; lo attesta, ad esempio, l’aumento esponenziale della speculazione edilizia avvenuto negli ultimi 7-8 anni a Pyongyang e il proliferare, sempre nella capitale, di ristoranti di lusso dove, come riferisce l’esperto di Corea del Nord Andrei Lankov, il prezzo di un pasto equivale allo stipendio mensile del nord-coreano medio! Tutto questo, peraltro, avviene nonostante il formale ritiro avvenuto tra il 2005 e il 2009 di una serie di misure “liberalizzatrici” (dal punto di vista economico) applicate nel 2001\2002 da Kim Jong Il [6]. Nelle campagne, poi, la diffusione dei piccoli appezzamenti privati è una realtà che il figlio Kim Jong Un ha recentemente legalizzato, plausibilmente anche nell’ottica di costruirsi una base di consenso in un contesto di crescente polarizzazione sociale (Deng Xiaoping docet).


 

COREA DEL SUD: DALLA “REAZIONE” AL “PACIFISMO”, PASSANDO PER LA LOTTA DI CLASSE

Dietro il colloquio tra i leader delle due coree hanno avuto un ruolo anche le vicende politiche e sociali sudcoreane degli ultimi anni, tra le quali un inasprimento della lotta di classe. L’attivismo diplomatico di Moon – che ha già portato in febbraio alla partecipazione congiunta delle squadre di pattinaggio della ROK e della RDNK alle olimpiadi invernali di Seul – può infatti essere compreso solo analizzando il contesto nel quale l’attuale presidente è diventato tale. E’ utile ricordare, in questo solco, come le elezioni vinte da Moon nel maggio 2017 seguano alle imponenti mobilitazioni e allo sciopero generale che costringono sei mesi prima alle dimissioni della presidentessa Park Geun-Hye, implicata in una serie di scandali personali e giudiziari. Gli stretti rapporti tra quest’ultima e una fattucchiera – a quanto pare regolarmente consultata nella valutazione delle opzioni politiche – oltre ai risvolti di un indagine che vede la Park implicata insieme ai vertici dei Chaebol in un caso di corruzione, rappresentano tuttavia solo la goccia che fa traboccare il vaso.
Nel 2012, infatti, la figlia del dittatore sudcoreano degli anni 70 ottiene la presidenza sulla base di una retorica particolarmente reazionaria e anti-comunista volta a mascherare l’intento di approfondire le politiche di austerità tramite le quali il predecessore – il collega del partito conservatore Lee Myun Bak – aveva gestito gli effetti della grande crisi del 2008. Nel 2015 tuttavia le misure anti-operaie che portano la Corea del Sud a diventare il quinto paese più diseguale del mondo generano una risposta del movimento sindacale, protagonista in novembre di un grande sciopero generale contro una riforma del codice del lavoro non dissimile nella sostanza dal “nostro” Job Act. Il governo reagisce con un giro di vite repressivo contro i lavoratori, accompagnato da un aumento delle provocazioni rivolte a Pyongyang.

In seguito allo sciopero generale, viene arrestato il segretario della Confederazione dei Sindacati Coreani Lee Young Hoo; lo stesso destino subito un anno prima da dodici parlamentari della sinistra riformista dopo la messa fuori legge del Partito Progressista Unificato, accusato strumentalmente di essere al soldo di Kim Jong Un. Nel 2016 viene inoltre stipulata con Obama l’installazione di un nuovo sistema missilistico in chiave anti-nordcoreana (il THAAD: Terminal High Altitude Anti-Balistic Defense) e si rescinde l’accordo che aveva portato un decennio prima all’avvio di una zona economica speciale cogestita dal capitale sudcoreano e dalla burocrazia di Pyongyang nella città di Kaesong, situata a pochi kilometri dal 38° parallelo (lato RDNK).

Il conseguente aumento delle tensioni diplomatiche e militari con la Corea del Nord si rivela tuttavia un boomerang e un sentimento “pacifista” sarà, insieme all’opposizione alle politiche filopadronali e al disgusto per gli scandali, il catalizzatore del grande movimento di piazza e di lotta che obbligherà la Park alle dimissioni [7]. I tentativi di distensione operati da Moon nei confronti di Pyongyang vanno dunque identificati nella volontà del politico “democratico” di assecondare la spinta delle proteste del 2016, anche se non si può dire che il personaggio in questione ne rappresenti la genuina espressione: pur avendo tradizionalmente un atteggiamento più morbido nei confronti della Corea del Nord, il Partito Democratico Sud-Coreano non rappresenta affatto una discontinuità dal punto di vista dei punti di riferimento di classe e della politica economica rispetto a quello Conservatore. Anzi, fu il “maestro” di Moon – l’attivista per i diritti umani sotto la dittatura del padre della Park – Kim Dae Jong, il promotore delle privatizzazioni e degli attacchi ai diritti dei lavoratori giustificati con l’esigenza di rinegoziare i debiti contratti con l’FMI in seguito alla “crisi asiatica” del 1997 [8].
La “pace” che interessa a Moon è insomma quella che interessa alla borghesia sudcoreana, ovvero quella che mira a promuovere gli investimenti dei Chaebol in Corea del Nord accelerando il processo di restaurazione del capitalismo – quindi di peggioramento delle condizioni dei lavoratori – nella RDNK, mentre le prospettive di un esito negoziale che davvero metta la parola fine al pericolo di un’escalation militare sono a conti fatti scarse.

 

LO SCENARIO INTERNAZIONALE E LE PROSPETTIVE PER LA PACE

Come abbiamo accennato nell’introduzione, il significato della questione coreana non si riduce al problema della “riunificazione”; in altri termini, non stiamo parlando di uno strascico della guerra fredda, bensì di una questione da leggere nel contesto dell’attualissimo scontro strategico tra Stati Uniti e Cina. Forse più rilevante dei tweet di Trump e della retorica di questi giorni è il discorso del comandante USA per il Pacifico – l’Ammiraglio Patson – il quale un paio di settimane fa ha riferito al Congresso gli elementi centrali della strategia USA in Asia Orientale, tra cui la necessità di un consolidamento della proiezione militare “yankee” nella regione in chiave anti-Pechino. A tal proposito è utile ricordare che il “pacifista” Moon, dopo aver vinto le elezioni, non abbia più fatto cenno a uno smantellamento del THAAD, mentre nei mesi passati le sue prese di distanza dalle provocazioni e dalla politica di aumento delle sanzioni promossa da Trump sono state molto blande, a differenza di quanto era avvenuto durante le presidenze dei colleghi “democratici” Kim Dae Jong e Roo Mo Hyun, più volte in rotta con Bush nel contesto nei negoziati tra Washington, Seul e Pyongyang cominciati a fine anni 90 con Clinton e terminati nel 2006 (in occasione del primo test nucleare sudcoreano) [9].

In effetti, soprattutto nella stampa Giapponese, è stata rilanciata l’ipotesi di un accordo in base al quale la RDNK , in cambio di un ritiro dello scudo missilistico installato da Obama, possa rinunciare ai suoi missili balistici proiettati verso la California, ma non a quelli rivolti all’arcipelago nipponico [10]. Può darsi che Trump abbia seriamente ventilato un’ipotesi del genere come leva per forzare Tokyo a un maggiore impegno nella corsa agli armamenti; è difficile però che in virtù degli stretti legami tra il capitale nipponico e quello Americano – nonché a causa dell’urgenza di stringerli ulteriormente nel contesto del conflitto con Pechino – possa trattarsi di qualcosa di più di una minaccia (un po’ come per la questione dei dazi agli europei). E’ inoltre improbabile che gli Stati Uniti diano il loro beneplacito a un trattato di pace che confermi la Corea del Nord come potenza nucleare: la controversia con l’Iran è ancora aperta, mentre più in generale si tratterebbe di un durissimo danno “d’immagine” per il già da tempo declinante imperialismo a stelle e strisce. E’ utile osservare, a questo punto, che l’annunciata chiusura da parte di Kim Jong Un del sito per i test nucleari di Punggye-ri, lungi dal rappresentare un primo passo verso lo smantellamento dell’arsenale nucleare, possa significare benissimo che il regime non ne abbia semplicemente più bisogno… Dichiarare l’intenzione di interrompere i test, come ha fatto il leader nord-coreano, inoltre, non significa automaticamente congelare il programma nucleare dal quale dipendono il prestigio e i privilegi dell’esercito che dalla morte di Kim il Sung (il nonno di Kim Jong Un) rappresenta il principale puntello della dinastia al potere nella RDNK [11].

Se è vero poi che la Cina avrebbe tutto l’interesse a un trattato di pace che possa rendere più difficile per gli Stati Uniti strumentalizzare le tensioni con la Corea del Nord per esercitare pressioni diplomatiche, essa avrebbe molto da perdere da un accordo che non solo rischia di rivelarsi inutile per ridurre significativamente la minaccia militare USA (Pyongyang pare non metterà come paletto il ritiro delle truppe “Yankee” dal 38° parallelo), ma minaccia anche di segnare un avanzamento delle posizioni del capitale sudcoreano ed euroamericano in un paese dove le imprese cinesi stanno sviluppando grossi interessi. Secondo alcune fonti, in effetti, il settore minerario nord-coreano sembra un vero e proprio “eldorado”, rappresentando la più grande riserva mondiale di terre rare (vitali per la produzione delle batterie al litio che fanno funzionare, ad esempio, i telefoni cellulari e le auto elettriche sulle quali il PCC sta puntando molto nelle sue politiche industriali). Inoltre, è chiaro che una maggiore integrazione economica tra Seul e Pyongyang ridurrebbe nel lungo periodo le leve che Pechino può esercitare sul vicino per contrattare con Washington e con il Giappone.
Sembra insomma estremamente plausibile che, una volte inseritisi più direttamente USA e Cina nei negoziati coreani, il “pino della pace” piantato l’altro ieri da Kim e Moon sarà condannato a perdere molte foglie…

 

Lorenzo Lodi

 

Note

[1] si veda: C. K. Armstrong, Inter-korean Relations in Historical perspective, Journal of Studies for Korean Unification, Vol. 14, No. 2, 2005, pp. 1-20.

[2] R. Cossa, Testing Pyongyang’s Sincerity, ISPI, 27/04/2017. La Corea del Nord non ha mai accettato di trattare con la corea del sud al di fuori di un ambito negoziale ove non fossero direttamente coinvolti gli USA, né un leader nord-coreano si è mai recato al sud per un’incontro ufficiale: i due Stati non si riconoscono formalmente e in particolare Pyongyang ha sempre adottato l’approccio di cui sopra nella misura in cui l’armistizio del 1953 non fu firmato da Seul, ma solo da Washington.

[3] J. Kynge, “China uses economic muscle to bring N Korea to negotiating table”, Financial Times, 30\03\18.

[4] Si veda: A. Lankov, The Resurgence of a Market Economy in North Korea, Carnegie, 2017.

[5] Si veda: P. Maurus, La Corée du Nord se rêve en futur dragon, Le Monde Diplomatique, febbraio 2014.

[6] A. Lankov, op. cit.

[7] S. Il-Kwon, «Révolution des bougies» à Séoul, Le Monde Diplomatique, gennaio 2017.

[8] O. Miller, South Korea after Park, Jacobin, 18/05/2017.

[9] A. Fiori, The Third Inter-Korean Meeting: Is the “Moonshine Policy” Beginning?, Ispi, 27/04/2018.

[10] Si veda per una rassegna della stampa internazionale relativa agli sviluppi della questione coreana delle ultime settimane: G. De Simone, “Missili e Twitter nel Negoziato Coreano”, Lotta Comunista, marzo 2018.

[11] Si veda: J. Woo, Kim Jong-il’s military-first politics and beyond: Military control mechanisms and the problem of power succession, Communist and Post-Communist Studies, Volume 47,N° 2, June 2014, Pages 117-125.

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.