Quale ruolo giocano i social network nel crescente clima di odio razziale? E quale in rapporto alla recente traduzione di quest’odio in azioni violente? Una ricerca dell’Università Statale di Milano, “Il razzismo oggi: una ricerca attraverso i social”, fornisce alcuni elementi per comprendere il fenomeno.

“Con tecniche di Social Media Intelligence (SOCMINT), i ricercatori hanno analizzato oltre 25mila commenti comparsi su un centinaio di fonti, tra social (Facebook, Twitter e Youtube, ecc.) e giornali on line che dessero la possibilità di postare commenti”. Oggetto di studio sono state le reazioni a 3 fatti di cronaca, 3 omicidi nei quali erano coinvolti rispettivamente:

a) un migrante in qualità di assassino e un’italiana in qualità di vittima;

b) un migrante in qualità di vittima e un’italiano in qualità di omicida;

c) un italiano in qualità di assassino e un’italiana in qualità di vittima.

Obiettivo della ricerca era valutare l’interesse suscitato negli utenti da questi tre fatti e, al contempo, se l’elemento razziale influenzasse i giudizi di valore sul reato. 

Proprio come ci aspetteremmo, la risposta emersa è affermativa. In termini di attenzioni e numero di commenti, a) ne ha ha attirato il maggior numero (straniero omicida-italiana vittima), seguita da b) (straniero vittima-italiano omicida) e c)(nessuno straniero coinvolto). In più, quando uno straniero è coinvolto (in qualità di autore del gesto o persino, come nel caso di b, in qualità di vittima) il fatto viene sempre colto come opportunità per uno scontro verbale (di solito tendenzialmente violento) su temi più generali, come la gestione dell’immigrazione e la situazione politica.

Quali responsabilità hanno i social?

A questo punto qualcuno potrebbe pensare che la soluzione sia la censura dei social, o comunque l’imposizione di “nuove norme” che regolino i contenuti. Tuttavia la ricerca non dimostra affatto che i social in sé siano il problema, si limita invece ad analizzare le dinamiche della sua manifestazione, cioè a fare una diagnosi dei sintomi, dove la disattenzione alle vittime e le frasi d’odio cieco e distaccato dalla realtà sono solo il rantolo della frustrazione generale che per quanto tenti di trovare rifugio, “consolazione” o opportunità di sfogo nel virtuale, ha origine nella vita concreta e nella politica reale (e rimando a tal proposito all’articolo che spiega la radice politica dell’escalation razzista). Ciò non toglie che, come la stessa ricerca evidenza, la peculiare “architettura” virtuale dei social presta il fianco a reazioni amplificate, sproporzionate e in cui ogni aspetto emotivo è attenuato. Quest’ultima lezione, ovviamente, non vale solo per le manifestazioni di razzismo, ma andrebbe presa come monito per qualsiasi tipo di attività sui social, sebbene rimanga altamente significativo da un punto di vista politico, il fatto che le reazioni verbalmente violente relative alla morte di Marchionne, ad esempio, non abbiano raggiunto in numero e intensità quelle suscitate dalle stragi di migranti nel Canale di Sicilia: un’inversione di tendenza, per quanto non sarebbe di per sé un passo in avanti nell’organizzazione della classe oppressa, sarebbe però forse il sintomo di un progresso nella coscienza di classe.

Matteo Iammarrone

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.