Il sistema che organizza e ordina l’economia della società moderna, quella dove viviamo noi oggi, è quello capitalista; esso è sorto in seno a una vecchia società, quella feudale, che si basava su una produzione limitata, ristretta, dove le merci erano poche, quando e se c’erano. All’interno di tale sistema i principali produttori, i contadini, erano un tutt’uno indivisibile con la terra che abitavano, senza possedere né la terra né i mezzi di produzione con cui la lavoravano, essendo assoggettati economicamente e giuridicamente a un signore (servi della gleba), o disponevano di propri strumenti di produzione (proprietari indipendenti) o li prendevano (anche lo stesso terreno) in affitto dai grandi proprietari terrieri (contadini liberi piccoli proprietari, contadini in affitto/mezzadri). Il rapporto della servitù della gleba è quello prevalente e caratteristico del modo di produzione feudale, e fu largamente diffuso in varie sfumature dal IX al XIX secolo, con estensione e durata diversa a seconda dei paesi: il Comune di Bologna lo abolì nel 1257, mentre in Russia (dove si era diffuso solo nel ‘600) esso cessò per decreto dello zar nel 1861.

L’ascesa del modo di produzione capitalistico vide appunto nell’agricoltura, all’epoca il principale settore dell’economia, la formazione di una classe di proprietari medi e grandi di imprese agricole commerciali dove i contadini non erano né servi assoggettati a tutto campo al loro padrone e privati della libertà di movimento, ma lavoravano come liberi cittadini che sottoscrivevano un contratto col capitalista, essendo alienati del prodotto del loro lavoro e ricevendo in cambio un salario.

Analogamente, nei secoli XVII-XIX si estese e si consolidò un sistema industriale che superava la precedente manifattura perlopiù in mano ad artigiani indipendenti, e che impiegava lavoratori salariati al fine di vendere prodotti sul mercato, quindi non come semplici beni, ma come merci. Un sistema dove si legavano un profitto crescente, dei singoli padroni così come di tutta la classe della borghesia, a un’espansione delle forze produttive in tutti i campi: crescevano industria, commercio, navigazione, trasporti stradali e ferroviari, e ogni tipo di infrastruttura e tecnologia utile alla nascente società e al suo mercato. A questo processo si accompagnava la decadenza e la diminuzione d’importanza del ruolo economico dell’antica classe dominante dei proprietari terrieri feudali. Allo stesso modo, rimaneva subordinata ed economicamente marginale la classe piccoloborghese dei piccoli produttori agricoli e manifatturieri, degli artigiani che lavoravano da soli, coi propri familiari, con pochi dipendenti salariati.

Nel Manifesto, Marx espone in estrema sintesi l’ascesa storica della borghesia:

Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali […] poi all’epoca dell’industria manifatturiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese.

La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria.

Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche.

 

Sotto la borghesia, un’altra classe sfruttatrice: la piccola borghesia

Il mondo di oggi presenta due grandi classi sociali: gli sfruttati (classe lavoratrice) e gli sfruttatori (classe borghese): entrambi “liberi cittadini”, ma i primi sono costretti a lavorare per i secondi perché non possiedono i mezzi con cui produrre i beni che servono loro per vivere; vendono dunque la loro disponibilità a lavorare e il loro tempo come possessori di forza-lavoro sul mercato; sono così “naturalmente” spinti a competere fra loro, a lavorare più a lungo e di più pur di ricevere in denaro il salario che permetta di mantenere sé stessi e la propria famiglia. I secondi, dalla necessità di vendere di più e fare più profitto per non soccombere alla concorrenza degli altri capitalisti, sfruttano i propri dipendenti incessantemente, mettendo in atto tutte le misure utili a far aumentare la durata e l’intensità del lavoro, e a far diminuire i costi che l’investimento del capitale affronta, così che il profitto derivante dal plusvalore del lavoro umano sia il più alto possibile.

In mezzo a queste due classi sociali esistono degli strati intermedi, che non sono propriamente proletari-salariati né borghesi: i liberi professionisti, che non dipendono direttamente da un padrone che li sfrutti, decidono loro come e per conto di chi lavorare nei limiti della propria necessaria sopravvivenza, e piccoli o piccolissimi proprietari: la cosiddetta piccola borghesia.

Per piccola borghesia si intendono tutti i padroni (proprietari), di una piccola o media azienda, che può essere un bar, un ristorante o un’attività commerciale di qualsiasi genere. Non ci soffermeremo su come questi investitori abbiano la possibilità di aprire un esercizio commerciale: potrebbero avere dei soldi in prestito da parte della propria famiglia o di istituti finanziari, oppure avere dei risparmi dal lavoro precedentemente svolto come salariati.

Per aprire un’attività di questa (esigua) grandezza non servono necessariamente milioni di euro; d’altronde, ci limiteremo a dire che fanno parte di questa classe sociale tutti coloro che, non volendo o potendo far parte dell’attività produttiva di un determinato settore inquadrati come operai, riescono a fare impresa privata per conto proprio.

Chi ha l’ambizione nel diventare proprietario sa che, lavorando come operaio, lo stipendio che percepirà non sarà mai come quello del padrone del ristorante, o di altre attività dove si viene impiegati, quindi il ruolo di padrone di una attività commerciale, oltre alla soddisfazione personale, ha un’unica motivazione: avere una situazione economica migliore.

La piccola borghesia, quindi i piccoli proprietari, come la grande borghesia (grandi imprese/multinazionali), trae i propri profitti sfruttando i lavoratori, massimizzando i tempi di produzione, non pagando e trattenendo parte dei salari, in maniera non differente di quanto succede nelle grandi aziende ma in versione molto più ridotta per volumi di profitto.

Sono risaputi e documentati, ad esempio, i casi dei lavoratori addetti nel settore della ristorazione, commerciale ed estetico, presi a lavorare da un piccolo borghese, che lavorano a nero, senza un contratto, con il rischio di subire vessazione e prepotenze, o di non avere più il posto di lavoro, qualora alzassero la testa.

La piccola borghesia, essendo appunto gettata continuamente sul lastrico dal grande capitale che la schiaccia sul mercato, tende a sfruttare le leggi spietate di questo stesso mercato a proprio favore, spesso rovesciando le difficoltà sui lavoratori stessi: “le tasse sono aumentate e dovrò pagarvi di meno questo mese, d’altronde siamo una piccola società” oppure “è complicato il settore imprenditoriale, non tutti ne sono all’altezza” o anche “siamo noi che vi diamo lavoro e facciamo girare l’economia”. Anche in questo caso si riproducono, in dimensioni infinitamente minori, le stesse dinamiche di sfruttamento tipiche della grande borghesia: anche un’azienda enorme come Fiat-Chrysler può licenziarti o metterti in cassaintegrazione con la scusa, di solito non corrispondente al vero, che “non si riesce a vendere ora, il mercato è fermo”, eccetera.

Un gran numero di testimonianze non fanno che confermare che la maggior parte di coloro che lavorano come dipendenti presso un’attività di bar o ristorazione non hanno un contratto che li tuteli in maniera paragonabile ai dipendenti di una grande azienda: questo è innanzitutto un grave problema per il lavoratore, perché non gli rimangono prove del proprio percorso lavorativo in quella azienda e quindi nessun appiglio legale per poter rivedere i propri diritti come lavoratore, a meno di cause legali che richiedono anni e che sono sempre incerte – sempre ammessa la presenza e la disponibilità di testimoni oculari.

Lo sfruttamento è dilagante nei settori dove è forte la presenza di piccole aziende: accade che i lavoratori, vengono retribuiti alla fine del turno, con una paga la maggior parte delle volte non proporzionata alla mansione e alle ore effettuate, o magari dove la paga “ufficiale” copre solo una parte dell’orario di lavoro effettivamente svolto.

In questo sconsiderato sistema di produzione, ad ogni richiesta del lavoratore di un maggiore salario o di un periodo di ferie, il piccoloborghese spesso risponde che non è possibile, per via delle troppe tasse, o per colpa della concorrenza esistente nel commercio. Insomma la piccola borghesia tende, essendo in continuazione messa alla prova dalle leggi del capitale, tenta di far pagare le conseguenze, ben poco piacevoli, di tali leggi ai lavoratori. Difficilmente un piccoloborghese, di fronte ai sacrifici imposti dal sistema capitalista, abdica dal ruolo di (piccolo o piccolissimo) padrone, preferendo di gran lunga far pagare tali sacrifici a chi lavora sotto di lui.

Ci sono attività commerciali dove nell’organico troviamo fratelli e sorelle, genitori e figli dei padroni stessi. Loro stessi lavorano, auto-sfruttandosi. La motivazione è banalmente intuibile: essi non vogliono essere sfruttati da un padrone e preferiscono auto-sfruttarsi.

Infine, come detto, la piccola borghesia rischia di ripiombare nella schiera da dove è scappata: la classe dei lavoratori salariati. In particolare in periodi di crisi, quando la concorrenza si fa più feroce, i profitti sono minori e il capitale si concentra nelle mani di pochi grandissimi imprenditori, il senso di insicurezza e la paura spinge la piccola borghesia, in assenza di una risposta operaia organizzata che le dia una prospettiva politica contro il grande capitale sotto le proprie bandiere, verso le politiche più reazionarie: è così che essa è diventata storicamente la base sociale delle forme di governo più reazionarie e antioperaie, come il fascismo.

Si potrebbe dire, per semplificare, che la piccola borghesia vuol essere padrona, ma non accetta le conseguenze delle regole del libero mercato che tanto ferocemente difende e appoggia, e quando queste regole vengono a bussare alla porta, in senso storico, invece di soccombere in modo passivo, tenta di rovesciarle sui proletari, finendo però per essere usata come massa reazionaria contro il proletariato stesso – ma tenuta al guinzaglio dalla borghesia.

Vanjia