Compie 40 anni la legge italiana sull’aborto, frutto di un’aspra battaglia sociale, politica ed etica. A volere una norma che riconoscesse il diritto per le donne all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) furono sopratutto i radicali, appoggiati da altre forze politiche laiche e da diverse realtà sociali.

Il 22 maggio 1978 nacque, pertanto, quella legge, la “legge 194”, che venne confermata in seguito da un referendum  nel 1981. Sino ad allora l’aborto veniva effettuato  in modo clandestino, “sicuro” e “libero” per chi avesse abbastanza denaro da permettersi il trattamento in una clinica all’estero.

“Era una ‘tragedia italiana’; è stata una battaglia collettiva, simbolica, epocale “, afferma il medico e scrittore Carlo Flamigni. Una rivoluzione “imperfetta ma riuscita”.

 

La legge 194 e il suo stato di salute oggi

Dove è finita, 40 anni dopo, la legge 194?

Da una parte viene boicottata dall’obiezione di coscienza; dall’altra è bloccata sul fronte RU 486 da una procedura complicata e farraginosa.

La legge 194 richiede di porre necessariamente la libertà al centro della questione, difendendo prima di tutto il diritto alla libera scelta della maternità, che non è, automaticamente, il diritto ad abortire: quello è semmai uno strumento, emotivamente molto pesante, attraverso cui si esercita; più o meno invasivo a seconda delle metodologie. Ma al centro deve restare la libera scelta della maternità e il diritto ad esercitarla.

Gli italiani hanno scelto, nel 1981, che fosse un diritto della donna decidere se portare a termine una gravidanza o meno, trattandosi del suo corpo. Hanno deciso che bisognava mettere un punto agli aborti clandestini, i quali richiedevano pratiche degradanti e pericolose, e ai viaggi della speranza.

Sono trascorsi 40 anni e ancora esistono centri che praticano aborti clandestini, anzi, l’assunzione di farmaci fai-da-te che hanno come effetto collaterale quello di provocare contrazioni uterine che portano all’aborto, sarebbe diventata una prassi diffusissima, e sono tornati attuali i viaggi della speranza, che vedono donne percorrere centinaia di chilometri per poter abortire nei tempi previsti dalla legge. E percorrono in lungo e largo l’Italia alla ricerca di una struttura che garantisca il rispetto di un diritto riconosciuto.

A questo proposito l’inchiesta della giornalista Elena Stramentinoli (trasmessa da Rai Tre a Presadiretta), costituisce un capitolo imprescindibile della 194 e testimonia il tradimento della volontà popolare, lo spregio per la libertà di scelta e per la dignità della donna. Stramentinoli fotografa una realtà agghiacciante, in cui le percentuali di obiezioni di coscienza dei ginecologi sono altissime, tanto da diventare obiezioni di struttura, perché in molti ospedali non c’è nessun medico che pratichi l’aborto. Il racconto, restituisce uno spaccato di disumanità sconcertante in cui si muove la donna che dovesse decidere di interrompere una gravidanza. È come se le venisse costantemente detto: colpa tua, se non volevi essere trattata in questo modo la gravidanza la portavi a termine, sei tu che hai deciso, ora non ti lamentare, vuoi che ti sia garantito il diritto ad abortire? Patisci ciò che implica per te l’averlo acquisito. Una eterna punizione. Sofferenza. Come se fosse normale dover pagare un prezzo psicologicamente insostenibile per aver deciso di non volere o di non potere avere un figlio. E il medico abortista che ancora oggi in Italia è considerato un medico imbarazzante, un medico che si arricchisce generando morte. Tutto questo ci restituisce l’immagine di un paese profondamente arretrato, terribilmente succube di logiche proprie della peggiore spiritualità possibile.

 

La guerra dei cattolici antiabortisti contro l’IVG

Anche il manifesto affisso da Provita a Roma e ricomparso a Perugia e in altre città, è ulteriore prova di quanto la legge 194, che ha reso legale l’interruzione di gravidanza, sia ancora sotto attacco e ancora nel mirino dei fondamentalisti cattolici, dai più oltranzisti, passando per consulenti del ministero della Salute e membri del Comitato nazionale per la bioetica come Eugenia Roccella e Assuntina Morresi, che hanno scritto un libro contro l’aborto farmacologico.

Il manifesto di Provita a Roma.

 

Si fanno chiamare Prolife ma, a bene vedere, non sono affatto per la difesa della vita umana. Non sono affatto dalla parte della donna, anzi ne mettono a rischio la salute per difendere la sacralità dell’embrione (dunque per i cattolici come per i più granitici positivisti l’identità umana sarebbe tale in base al solo genoma!).

Per portare avanti la loro crociata i Provita hanno inventato la «sindrome del boia», al fine di colpevolizzare le donne, accusandole di assassinio. Non contenti, hanno rincarato la dose di fake news con la sindrome Abc (abortion-breast-cancer), affermando che ricorrere all’aborto aumenti il rischio di sviluppare cancro al seno (addirittura, a loro dire, di oltre il 150%).

Falsità totali che vanno contro ogni evidenza scientifica, sostenute per affermare la dottrina cristiana che schizofrenicamente vuole la donna da vergine a madre e che, sin dalle origini, demonizza il desiderio e annulla l’identità femminile. “Il genoma dello zigote è il punto di partenza per la costruzione della biologia umana ma, tuttavia, ritenere che lo zigote sia persona significa negare la trasformazione che avviene alla nascita con l’attivazione della corteccia cerebrale e l’emergere del pensiero che è specifico della realtà umana” (Maria Gabriella Gatti, Contro la violenza sulle donne, edito da Left.)

Quando si tratta di scelte individuali su temi eticamente sensibili, l’interferenza c’è, ed evidenti sono le difficoltà che incontra una donna che scelga di interrompere la gravidanza.

 

L’obiezione e i Cav: come azzoppare una legge

La legge viene applicata, ma a macchia di leopardo e azzoppata dall’obiezione di coscienza.  In molti casi il consultorio pubblico è diventato un front-office dei militanti pro-vita, per intercettare le donne intenzionate a interrompere la gravidanza e demonizzarne questa scelta per spingerle verso i loro Centri per la vita (Cav), il cui scopo è convincere a seguire la gravidanza.
I Cav sono strutture private gestite da volontari e sostenute al 68% con soldi pubblici, di cui il 58% sono versati da comuni, asl e province, che in alcuni casi inviano a queste strutture anche vittime di tratta e di diverse forme di disagio; mentre per l’altro 10% si tratta di non meglio definiti “contributi pubblici vari”. Attualmente in Italia ce ne sono 355, presenti principalmente in Lombardia, Piemonte, Veneto e Sicilia.

Poi ci sono gli altri principi l’essere gratuito, accessibile e collettivo che ancora stentano a decollare. Oggi viviamo un paradosso, i consultori magari ci sono, ma non fanno quello per cui sono stati fondati. Il risultato è che è più semplice farsi accogliere dai centri per la vita cattolici, come mostrano i dati raccolti da l’Espresso: l’80% delle donne che si rivolgono ai Cav sono straniere. 

Bisogna tornare a spiegare in termini scientifici perché l’aborto non è un omicidio, convinti che la liberazione delle donne dall’oppressione sia un tema cardine nella costruzione di una nuova sinistra laica e progressista. Purtroppo la cronaca ci dice che per l’altissimo numero di obiettori la legge sull’interruzione di gravidanza è ancora inapplicata in molte regioni di Italia. Secondo i  contenuti nella Relazione sull’attuazione della legge 194/78 diffusi all’inizio del 2018 dal Ministero della Salute, il 70,9% dei medici è obiettore di coscienza. Una percentuale altissima in continuo aumento. Una sorta di boicottaggio neanche tanto velato, una delle più forti discriminazioni del servizio sanitario italiano nei confronti delle donne. L’obiezione, spesso usata impropriamente si estende oltre gli ospedali e viene applicata anche alla contraccezione d’emergenza con mancate prescrizioni o con farmacisti che si rifiutano di vendere la pillola del giorno dopo. Stando ai dati del 2016 – raccolti dal Sistema di sorveglianza epidemiologica delle Ivg, che vede impegnati l’Istituto superiore di sanità (Iss), il ministero della Salute e l’Istat da una parte, le Regioni e le Province autonome dall’altra le Ivg in quell’anno sono state 84.926, una diminuzione del 3,1% rispetto al dato del 2015, quando ne erano state registrate 87.639. Sono invece dimezzate rispetto al 1982 (le Ivg stimate erano 234.801), anno in cui si è riscontrato il valore più alto in Italia. Un altro dato emerso dalla relazione riguarda poi il fatto che le ragazze italiane più giovani sono tra quelle che ricorrono di meno alle Ivg nell’Europa occidentale: tra le minorenni, il tasso di abortività per il 2016 è risultato pari a 3,1 per 1000, un valore identico a quello del 2015, ma in diminuzione rispetto agli anni precedenti. Sarebbe necessario favorire la pillola del giorno dopo al posto dell’intervento chirurgico, privilegiando il Day Hospital ed evitando così un ricovero di tre giorni, risparmiando risorse da investire in consultori, contraccezione e nella promozione di una corretta informazione. Nonostante l’aborto sia legalizzato, l’obiezione di struttura, non ammessa dalla legge 194 (solo il 60% degli ospedali con reparto di ostetricia ha un servizio IVG) e la dilagante obiezione di coscienza, aggravano anno dopo anno il disservizio in molte Regioni, limitando di fatto il diritto alle scelte riproduttive e alla salute di molte donne che vivono nel nostro paese. La legge prevede il diritto di obiezione solo per i singoli medici, non per intere strutture e significa che ognuna di queste dovrebbe essere in grado di garantire comunque il servizio. Per quanto riguarda i consultori, l’obiezione non può essere prevista per alcune importanti procedure che possono precedere un’IVG: i medici che lavorano nei consultori devono garantire alle donne che scelgono di abortire i certificati necessari per l’operazione e non possono opporsi alla prescrizione dei contraccettivi, compresi quelli di emergenza (la cosiddetta “pillola dei cinque giorni dopo” e la “pillola del giorno dopo”). Oltre i dati c’è dunque una situazione in cui approfittando di una parte della legge e della presunta universalità del diritto all’obiezione di coscienza si è cercato di costruire un’obiezione concretissima e sistemica in cui le donne si trovano incastrate e da cui le regioni si devono difendere. La legge dice che per quanti obiettori vi siano in un ospedale deve comunque esserci qualcuno obbligato a soccorrere e assistere una donna che vuole abortire. Quel che non si capisce, ancora, è che non assistere una donna in quella fase è omissione di soccorso, perché quello di cui una donna che intende abortire ha bisogno è assistenza sanitaria gratuita. Gli obiettori sono ovunque. Le cifre vanno dal 70 al 90% per Regione e aumentano al Sud. Di fatto per una ragazza che ha bisogno di una pillola del giorno dopo, per quando oggi non serva affatto la prescrizione, si trovano mille medici pronti a sconsigliarla/non-informare e mille farmacisti obiettori, pure loro. Perfino tra i portantini pare ci sia un discreto numero di obiettori. L’aborto è una delle scelte più difficili che una donna possa compiere, non importa quanto sia convinta e i motivi che l’hanno spinta a farlo. Oltre a questo, si aggiunge l’incredibile difficoltà con cui, soprattutto al sud, è difficile accedere a questa pratica.

Il numero degli obiettori di coscienza aumenta di anno in anno: dal 2005 si stima che il 12% in più dei medici hanno scelto di appellarsi alla propria coscienza e dichiararsi obiettori, in alcune regioni vi è addirittura la quasi totalità dei ginecologi che rifiuta la pratica. Un quadro totalmente diverso dal panorama europeo: in Inghilterra solo il 10% dei medici si dichiara obiettore, in Svezia invece i ginecologi che intendono dichiararsi tali sono indirizzati verso altre specializzazioni. In Italia, invece, sono ben 7 su 10 i medici che rifiutano di effettuare interventi di aborto volontario per motivi etici. Di fatto, quindi, appellarsi alla legge 194 è possibile, ma molto complicato. Anche il comitato per i diritti umani dell’Onu è intervenuto, un anno fa, sulla situazione italiana: “Lo Stato dovrebbe adottare misure necessarie per garantire il libero e tempestivo accesso ai servizi di aborto legale, con un sistema di riferimento valido”.

Fa discutere la sentenza del Tribunale di Gorizia che, il 15 dicembre scorso, ha assolto una farmacista dall’accusa di omissione o rifiuto di atti d’ufficio perché aveva negato la “pillola del giorno dopo” a una cliente per obiezione di coscienza.

Severe sono state sia le reazioni di Federfarma che di Federconsumatori in quanto la vicenda investe non solo la deontologia ma anche la natura e i doveri del servizio farmaceutico. L’obiezione di coscienza non è contemplata in quanto la farmacia è il primo presidio del Ssn sul territorio e quindi il farmacista è deputato alla dispensazione del farmaco e per legge deve erogarlo.

Inoltre sia la pillola del giorno dopo (Norlevo) che dei cinque giorni dopo (EllaOne) non sono farmaci abortivi, ma contraccettivi di emergenza che ritardano o inibiscono l’ovulazione. In quest’ottica appare dunque ancora più ingiustificato e inammissibile il rifiuto della farmacista.

I dati Istat, confermano che gli aborti in Italia sono in forte calo, da quando è stata messa in commercio come farmaco da banco la pillola dei cinque giorni dopo. Ma ancora mancano campagne istituzionali di informazione sulla contraccezione. Non basta dunque lottare per la piena applicazione della 194. Occorre portare avanti la battaglia culturale sostenendola anche con azioni concrete.  Dobbiamo lottare per la contraccezione gratuita, perché gli obiettori lavorino fuori dalle strutture sanitarie pubbliche e dalle farmacie, perché la Ru486 sia somministrata dai consultori pubblici, senza ospedalizzazione e, soprattutto, perché si affronti nelle scuole in modo non superficiale e scevro da pregiudizi il tema della sessualità.

 

La lotta tra antiabortisti e movimento femminile

All’attacco culturale e politico al diritto delle donne di scegliere liberamente del proprio corpo, si affianca quello contro gli spazi femministi che subiscono intimidazioni da parte delle formazioni fasciste o che vengono sgomberati, sfrattati o messi in vendita dalle istituzioni. Attacco a cui è necessario rispondere rafforzando i legami di solidarietà tra le diverse realtà femministe ad ogni livello, nel rispetto delle diverse anime che compongono il movimento. A queste rivendicazioni va dato un carattere non semplicemente rievocativo o celebrativo, bensì un’impronta di lotta. Questo in ragione soprattutto dell’attacco clerico-fascista mosso dalle associazioni pro-life che da anni sta erodendo i margini di applicabilità della legge 194: basti pensare come già detto sopra, ai maxi-manifesti anti-abortisti apparsi a Roma nei giorni scorsi che con un vero e proprio capovolgimento della realtà vorrebbero spacciare l’aborto come prima causa di femminicidio nel mondo.

Degna di nota proprio per denunciare la portata di questo problema, su iniziativa di un gruppo di studentesse universitarie fuori sede, nasce a Pisa Obiezione Respinta, un progetto di mappatura di tutti i luoghi (dagli ospedali ai consultori, fino alle farmacie dove non viene venduta la pillola del giorno dopo) in cui viene praticata l’obiezione di coscienza e dove le donne si trovano ad essere ostacolate e giudicate per le loro scelte. Il progetto, grazie anche  alla pratica della segnalazione diretta alla pagina facebook, acquista ben presto una valenza nazionale configurandosi come un efficace strumento di denuncia e punto di riferimento informativo oltre che strumento di presa di parola collettiva per rompere la propria condizione di solitudine e nominare la violenza subita.

In quest’ottica bisogna lottare per la contraccezione gratuita, perché gli obiettori lavorino fuori dalle strutture sanitarie pubbliche e dalle farmacie, perché la Ru486 sia somministrata dai consultori pubblici, senza ospedalizzazione e, soprattutto, perché si affronti nelle scuole in modo non superficiale e scevro da pregiudizi il tema della sessualità.

La Legge 194, fu, all’epoca, la conferma, dopo il referendum sul divorzio nel 1974, di una diffusa condivisione del processo di crescita civile e di democratizzazione che attraversava il paese.
Ed è una cosa che è bene ricordare. Perché oggi il vento soffia in direzione decisamente contraria. E quei manifesti intrisi di oggettiva violenza e di una visione truce e minacciosa della natalità rimandano al calderone in ebollizione della nuova destra, a quel mix di xenofobia, omofobia, negazione dei diritti della donna, neofondamentalismo che trova anche in Italia un consenso sufficientemente ampio da connotare il prossimo futuro governo.

Più che suonare le campane dell’indignazione, per altro legittima e condivisibile, sarebbe probabilmente più utile tornare a raccontare le ragioni che sorreggono la 194. Evitando di dare per scontato ciò che in buona parte forse non lo è più. Partendo da un giudizio di fondo e cioè che la 194, pur nell’altissima percentuale di medici obiettori, ha funzionato. La piaga dell’aborto clandestino, una vera e propria industria illegale con le facce, a seconda del reddito, della “mammana” o della clinica compiacente, è sostanzialmente scomparsa. Migliaia di donne hanno salvato la vita e nessuna è stata più costretta a pratiche pericolose e psicologicamente traumatiche se non drammatiche. E già questo non è poco.

 

La diminuzione dell’IVG e il suo contesto sociale

Altro elemento rilevante è che le interruzioni volontarie di gravidanza si sono drasticamente ridotte passando da 234.800 nel 1982 a meno di 60 mila nel 2016 (-74%). Ottantamila se si conta la popolazione immigrata. Così le statistiche ufficiali del Ministero della Salute indicano un progressivo ridursi sia del tasso di abortività che è nel 2016 del 6,5 su mille donne tra i 15 e i 49 anni (- 60% rispetto al 1982) sia del rapporto di abortività (numero delle interruzioni a fronte dei nati vivi) che è sceso al 182,4 per mille. C’è stata insomma una diminuzione costante e consistente per tutte le classi d’età sia pure con un indice minore di decremento per le ragazze con meno di venti anni d’età. Fatto su cui bisognerebbe aprire una seria riflessione ma che rimanda comunque a numeri tra i più bassi a livello europeo. Per altro in Italia ci sono, in percentuale, meno interruzioni volontarie di gravidanza rispetto alla Francia o alla Gran Bretagna, per non parlare degli Stati Uniti. Detto in altri termini, si è sventata la paura che la soluzione abortiva diventasse in qualche modo un mezzo per il controllo delle nascite o la supplenza del non uso di anticoncezionali. Non era imprevedibile. Perché comunque, come sosteneva il movimento femminista, l’interruzione di gravidanza è una scelta dolorosa, una prova esistenzialmente difficile anche quando esercitata in piena consapevolezza e libertà. Tutto solo bene, dunque? No, a partire dagli squilibri regionali: in Campania oltre l’80% di medici sono obiettori, in Sicilia l’87%, in Trentino addirittura il 92%. In Liguria il 65%. Numeri molto lontani da quelli francesi (7%) o inglesi (10%).

Non a caso, il tribunale europeo per i diritti civili ha più volte inviato l’Italia ad eliminare le difficoltà dovute appunto a un’obiezione di coscienza non sempre limpida.
Pesano anche la riduzione e la sempre minore funzionalità dei consultori che dovrebbero aiutare ad evitare interruzioni di gravidanza sia di fatto imposte da condizioni economiche o di fragilità sociale, la sostanziale carenza di educazione sessuale adeguata ai modelli culturali e comportamentali contemporanei. Sempre ancora troppo limitato, rispetto alla media europea, è l’uso di contraccettivi da parte dei più giovani e probabilmente eccessivamente elevato il ricorso all’aborto dermatologico con l’introduzione della pillola dei 3 o dei 5 giorni dopo. Ma pur con queste carenze parziali, per altro tutte singolarmente importanti, difficile si possa razionalmente tornare indietro. Riprecipitare in quello scenario abbruttito che circondava l’aborto clandestino. Ma siamo in tempi in cui i gradini di civiltà tendono a essere scesi in grande velocità. I diritti delle donne così come la parità di genere rischiano di scivolare nell’ombra dell’esecrato “politically correct”.

Il femminicidio, quello vero e non quello con cui cinicamente giocano i manifesti dei “CitizenGO”, è solo la tragica punta dell’iceberg dell’arretramento culturale. Per questo forse bisognerebbe tornare a parlare nelle scuole o nei quartieri di cosa è la legge 194. Raccontare il “prima” e il “dopo” e perché deve essere difesa. E come ha permesso di salvare tante vite. Vite vere.

Ylenia Gironella

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Laureata in psicologia clinica e di comunità, con specializzazione nel metodo Montessori, educatrice, attivista di Non Una di Meno transterritoriale Marche. Vive a Recanati (MC).