L’agenda internazionale delle ultime due settimane è stata segnata dal tracollo della lira turca, che solo negli ultimi 15 giorni ha perso oltre il 15% del suo valore rispetto al dollaro, dopo quasi due anni di progressiva svalutazione. Causa immediata: il riacutizzarsi dalle tensioni con Washington in relazione alla detenzione di un pastore nord-americano nelle carceri di Ankara, episodio che a sua volta è da ricondurre alle frizioni geopolitiche sul terreno siriano.

Non è stato però grazie alle invocazioni ad Allah, né agli strali di Erdogan contro gli autori di un complotto internazionale se due giorni fa la divisa del paese medio-orientale ha frenato, almeno temporanemente, la sua caduta. Ben più efficace, infatti, è stato un mega-acquisto di valuta da parte del Qatar, alleato storico del governo a guida AKP, insieme alle parole del ministro delle finanze turco che ha rassicurato gli investitori rispetto al mantenimento della disciplina fiscale. Alias: nuovi attacchi nei confronti dei lavoratori (precondizione per ottenere il sostegno delle istituzioni finanziarie internazionali) i quali rappresenteranno un ennesimo banco di prova per un regime che ormai sta in piedi solo grazie alle manovre bonapartiste del suo promotore.

Precedentemente, la minaccia di impostare controlli ai movimenti di capitale e di chiedere aiuto a Russi e Iraniani non aveva fatto paura a nessuno (Putin e Rohani hanno già le loro magagne finanziarie legate alle sanzioni USA, che a loro volta sono collegate con la crisi della lira dato che la Russia rappresenta uno dei principali mercati della Turchia, il cui fabbisogno di petrolio è inoltre soddisfatto in larga parte dalla Repubblica Islamica). Anzi, la mossa aveva addirittura peggiorato la situazione, dopo che la picchiata della moneta turca era stata aggravata dall’annuncio di nuovi dazi USA contro Ankara, volti ad approfittare della vulnerabilità dell’ “alleato” e punirlo per via del suo ruolo ambiguo nei confronti di Mosca e Tehran nel contesto della partita medio-orientale.

I rettangolini blu scuro sono gli investimenti produttivi (in macchinari, impianti etc.), mentre gli altri colori indicano i soldi allocati dai capitalisti in maniera improduttiva o nella speculazione finanziaria. NB le spese in ricerca e sviluppo – rettangolino azzurro – sono improduttive dal punto di vista capitalistico fino a quando non si concretizzano in macchinari, impianti etc. FONTE: Michael Roberts – Thenextrecession.wordpress.com

I recenti sviluppi sono inoltre da ricollegare al progressivo esaurimento delle politiche monetarie espansive attraverso le quali USA e UE hanno cercato nell’ultimo decennio di far ripartire l’accumulazione capitalistica dopo la crisi del 2008. Incapace di incidere sulla profittabilità – ovvero sulla sovraccumulazione di capitale, causa ultima della crisi [1]– il Quantitative Easing ha infatti condotto, molto più che ad un aumento degli investimenti produttivi, a un’espansione del capitale fittizio, quindi dell’indebitamento pubblico e privato, che lo scorso anno ha superato i livelli del 2007.

Debito globale – partendo da sinistra – delle imprese non finanziarie, dei governi, del settore finanziario e delle famiglie. Come si vede facendo attenzione ai colori esso è ai massimi storici. FONTE: The Independent – https://ind.pn/2GfJc67

 

Nel frattempo i bassi tassi d’interesse in Europa e Stati Uniti dettavano un consistente incremento dei flussi finanziari dai centri imperialisti verso i paesi “emergenti e in via di sviluppo” (PEVS) – tra cui la Turchia. Il risultato è stato un tamponamento degli effetti negativi del recente raffreddamento della crescita cinese (e della riduzione del prezzo delle materie prime) sulle bilance dei pagamenti dei PEVS, quindi sulla sostenibilità del loro debito estero. Quest’ultimo, tuttavia, ha finito per raggiungere in alcuni casi livelli senza precedenti, aumentando la vulnerabilità di quei paesi quando nell’ultimo anno e mezzo la FED ha deciso di incrementare sensibilmente i tassi di interesse (la BCE comincerà dall’anno prossimo), con l’effetto di invertire la tendenza positiva dei flussi di capitale verso Asia, America Latina etc. Intanto, i timori scatenati dalla strategia protezionista di Trump, non tanto rispetto a un ritorno ai mercati nazionali ermeticamente protetti degli anni 30, quanto alla tenuta di un sistema finanziario internazionale gravato da una montagna di debiti inaudita, spingono gli investitori a disimpegnarsi dagli assets più rischiosi – ovvero quelli dei paesi emergenti e in via di sviluppo – da cui ulteriori tensioni sui rispettivi mercati valutari.

il debito in valuta estera dei principali PEVS. Fonte: Michael Roberts – Thenextrecession.wordpress.com

La prima vittima “illustre” di questo processo è stata l’Argentina, protagonista l’autunno scorso di una svalutazione che l’ha obbligata a contrattare un prestito con l’FMI per riuscire a continuare a pagare le importazioni e ad onorare il servizio sul debito estero (come da copione, il pegno è stata un contro-riforma delle pensioni, anche se la risposta dei lavoratori e della sinistra rivoluzionaria contro Macri non si è fatta attendere). Ora tocca alla Turchia, facile bersaglio non solo in relazione alle dinamiche geopolitiche, ma anche al fatto che l’acciaio – colpito già questo inverno dai dazi di Trump – è stata la prima voce delle esportazioni anatoliche nel 2017 (Daily Balah, 16/08/18, p. 3). Non è un caso, poi, se l’instabilità della lira ha generato una fuga di capitali da tutti i principali paesi emergenti (in particolare Messico, Indonesia e India), con ripercussioni anche sui mercati finanziari dei paesi occidentali; quello italiano in primis, in virtù degli interessi imperialisti della nostra borghesia in Turchia, dove Unicredit controlla la quarta banca del paese.

Nelle ultime 48 ore la situazione sembra essersi raffreddata e la stampa borghese ha cominciato a derubricarla come un problema del “despota Erdogan”, incapace di stare al passo con la “globalizzazione”. Il panico di questi giorni sui listini, tuttavia, ha fornito un chiaro monito rispetto a cosa potrebbe avvenire nel caso di un crack finanziario in un paese emergente e\o in via di sviluppo. Il capitalismo ne ebbe già un assaggio nel 1997, con la crisi Asiatica, la quale prima di diffondersi in Russia e Occidente trovò il suo epicentro in Thailandia. Il prossimo boccone, però, potrebbe essere di gran lunga più grosso e amaro dato che l’attuale interconnessione dei mercati finanziari è di gran lunga maggiore rispetto a vent’anni fa, così come abbiamo visto esserlo la loro fragilità. Oggi, inoltre, i paesi di quello che una volta era noto come “Terzo Mondo” rappresentano una fetta ben più importante dell’economia mondiale, anche se ciò non significa – come segnalano le dinamiche di cui abbiamo parlato fin qui – che le gerarchie politico-economiche mondiali strutturate dall’imperialismo siano venute meno [2]. Significativi, comunque, i dati rispetto alla quota del PIL mondiale ascrivibile agli Stati non appartenenti alla “triade” Ue-USA-Giappone, la quale passa dal 40% della fine degli anni 90 al 60% odierno!

Quota del reddito globale (calcolato a Parità di Potere d’Acquisto) ascrivibile ai PEVS e ai “paesi avanzati”. Fonte: Fondo Monetario Internazionale https://bit.ly/2MkVzRz

Dopo dieci anni dall’ultimo crollo di Wall Street, il capitalismo sembrava aver intrapreso la strada della ripresa – anche se in base agli stessi standard degli economisti borghesi gli ultimi due lustri hanno rappresentato un periodo di depressione [3]. Tuttavia, come mostra il caso Turco – dove instabilità geopolitica ed economica si intrecciano – nuove contraddizioni si sono accumulate e una nuova crisi potrebbe essere all’orizzonte, prima ancora che gli effetti dell’ultima possano essere considerati alle spalle.

Django Renato

 

NOTE

[1] La letteratura sul tema – in ultima analisi quello della “caduta tendenziale del saggio di profitto” studiata da Marx nel III Libro del Capitale – è ormai consistente. Oltre all’articolo nel collegamento ipertestuale, si rimanda a K. Marx, Il Capitalismo e La Crisi – Scritti Scelti, a cura di V. Giacchè, DeriveApprodi, 2011. Si veda anche M. Robert, The Great Recession, Haymarket, 2016. Michael Roberts, per chi legge l’inglese, tiene anche un aggiornatissimo blog di economia marxista: thenextrecession.wordpress.com

[2] Si veda per il dibattito attorno al tema: E. Mercadante, “Capitalismo y desarrollo desigual, ¿una desmentida al imperialismo?”. Si tratta di un articolo comparso sulla rivista argentina Ideas de Izquierda (presto disponibile in italiano sul nostro sito) e che ripercorre criticamente le fila della polemica tra John Smith e David Harvey sul tema dell’imperialismo (i libri di riferimento sono D. Harvey, New Imperialism, Oxford University Press, 2005 e J. Smith, Imperialism in the XXI Century, Monthly Review Press, 2016).

[3] Si vedano le riflessioni di Larry Summers, a suo tempo capo-economista dell’FMI, sulla “Staganzione Secolare”.

 

Per una analisi più complessiva della recente fase economica e delle prospettive per la lotta di classe si veda: Frazione Trotskista, “Tensioni economiche ed instabilità politica nella situazione mondiale”

Ricercatore indipendente, con un passato da attivista sindacale. Collabora con la Voce delle Lotte e milita nella FIR a Firenze.