Le privatizzazioni, le promesse di nazionalizzazioni farlocche, la strategia che serve alla classe lavoratrice

43 morti e 600 sfollati, questo il bilancio definitivo della catastrofe abbattutasi su Genova ormai più di una settimana fa, quando il ponte Morandi, gestito dal gruppo Atlantia (famiglia Benetton), è crollato come un castello di carte, scatenando un vero e proprio terremoto politico. “Revoca della concessione ai Benetton! Nazionalizzazione!” sono le parole d’ordine che sembrano circolare tra gli scranni della maggioranza e del governo, reazione – strumentale o meno lo vedremo presto – a un’ondata di sacrosanta indignazione popolare per una “tragedia” che coinvolge tutta una serie di nodi cruciali degli ultimi vent’anni – in primis quello delle privatizzazioni.

 

Prima il profitto: cenni sulle privatizzazioni degli anni ’90

Il viadotto al centro della polemiche – costruito dall’IRI negli anni 60 – era uno dei “fiori all’occhiello” dell’industrializzazione trainata dallo Stato nel secondo Dopoguerra quando, con l’obiettivo di rilanciare il capitalismo italiano, il controllo pubblico delle infrastrutture e di importanti settori industriali aveva assunto un peso rilevante. A partire dagli anni ‘90, tuttavia, l’esaurimento del modello di accumulazione keynesiano (cominciato con la crisi degli anni ‘70), spinge le principali famiglie della nostra borghesia a fare man bassa delle aziende statali, grazie alla complicità dei governi di ogni schieramento, ma in primis di quelli a guida Ulivo-Democratici di Sinistra (non è un caso che oggi il Partito Democratico – sempre più servo dei padroni a scapito della sua stessa sopravvivenza politica! – gridi alla “follia collettiva” di fronte all’ipotesi del ritorno allo Stato delle autostrade).

Il processo in questione – quello delle privatizzazioni degli ultimi decenni – fu giustificato con la necessità di ridurre il debito pubblico per entrare nell’Euro e di rilanciare l’economia aumentandone “l’efficienza”. Ѐ certo che l’IRI – smantellato definitivamente nel 2002 – non rappresentasse un’isola di “democrazia operaia” nel capitalismo (le “partecipate” erano fonte di sprechi e di clientelismo a vantaggio dei partiti che tutelavano la “stabilità” nell’interesse degli Agnelli, Pirelli etc.). Altrettanto certo, però, è che nessuno degli obiettivi ufficialmente affidati alle privatizzazioni è stato raggiunto; anzi importanti colossi pubblici sono stati dismessi o ridimensionati dopo essere stati acquisiti a prezzi irrisori dai privati. Basti pensare all’ILVA che, oltre ad aver continuato a distruggere l’ambiente, negli ultimi decenni di gestione RIVA ha drasticamente ridotto gli occupati e nella classifica mondiale dei produttori d’acciaio è passata dalla nona posizione del 1988 alla sessantunesima del 2016 [1].

In generale, insomma, il risultato della cessione delle aziende pubbliche è stato un approfondimento del declino manifatturiero del paese, con relativa stagnazione e aumento del peso del debito pubblico sul prodotto interno lordo; tutto questo mentre i padroni rimpolpavano le proprie tasche spezzettando, rivendendo o ristrutturando le vecchie partecipate e appropriandosi di settori in grado di garantire rendite monopolistiche come le telecomunicazioni, l’energia e, last but not least, le autostrade, la cui gestione – quindi investimenti, manutenzione e incassi – pur fatta salva la proprietà dello Stato sulla rete, è oggi detenuta per il 60% da Atlantia (tramite Autostrade per l’Italia S.P.A.).L’abbordaggio da parte dei Benetton alla concessione dell’infrastruttura – prorogata da Renzi fino al 2042 – è cominciato nel 1999 quando la famiglia fonda Schemaventotto S.p.a. per acquistare il 30% di Autostrade SpA, prima inquadrata nell’IRI. Patrocinio: governo D’Alema. Costo €2,5 miliardi, a fronte di 11 miliardi di incassi fino al 2003, quando l’acquisto dell’84% delle azioni comporta l’esborso di altri 6 miliardi, subito però recuperati rivendendo parte delle quote ad altri investitori (in primis la HBSC, quarta banca mondiale ed oggi secondo socio di Atlantia) surclassati, infine, dai 43 miliardi di ricavi complessivi incamerati fino ad oggi[2]!

 

Le responsabilità del crollo del Ponte Morandi

Bisogna aspettare l’esito delle indagini!” è lo strale lanciato da Partito Democratico, Forza Italia e giornali dei padroni in risposta ai “duri provvedimenti” promessi dal governo contro i Benetton dopo il crollo del viadotto sulla A10. Senza immergersi nelle controversie tra ingegneri e avvocati, è tuttavia evidente che si tratta di un argomento strumentale. La percezione che l’infrastruttura fosse pericolante, infatti, era patrimonio di migliaia di genovesi, come ad esempio i delegati USB dell’azienda di gestione e raccolta rifiuti AMIU, che da tempo avevano denunciato la caduta di pezzi di ferro e calcinacci da sotto il ponte, mentre nel 2017 un report del Politecnico di Milano sanciva una volta per tutte che l’infrastruttura necessitava di una manutenzione straordinaria. Ciò nonostante, Atlantia si faceva forte di perizie interne che garantivano rispetto alla stabilità del viadotto, mentre il bando lanciato finalmente in aprile per avviare i lavori di manutenzione non aveva ancora alcun vincitore al momento del collasso dei piloni avvenuto la settimana scorsa.

Invece, l’urgenza su cui pressavano (e pressano) i Benetton era quella del progetto Gronda, ovvero l’opportunità di accaparrarsi 4,3 miliardi di fondi pubblici per la costruzione ex-novo di un’intera arteria autostradale di circa 60km, utile solo a peggiorare l’entità della cementificazione di una città come il capoluogo ligure già devastata dal dissesto idro-geologico con l’alluvione di 7 anni fa. Questa la tesi portata avanti anche dai comitati no-Gronda, alcuni molto vicini ai 5Stelle e al centro delle polemiche negli ultimi giorni per aver dato sponda negli anni scorsi alle rassicuranti perizie di Autostrade sul ponte Morandi, la cui precarietà veniva, al contrario, agitata da padroni, politici ecc. per giustificare la costruzione della nuova autostrada (nel cui progetto c’era anche la ricostruzione, appunto, del viadotto della A10).

Sia chiaro, la strumentalizzazione dell’episodio fatta dalla classe dominante e dai suoi lacchè è stata vergognosa: il ponte Morandi era da risistemare Gronda o non Gronda, mentre le responsabilità del Movimento 5 Stelle non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dei partiti tradizionali – Lega compresa – che hanno regalato le autostrade ai capitalisti, insieme a miliardi di soldi pubblici per costruirne di nuove e inutili – se non per arricchire ‘ndrangheta e padroni – come l’autostrada Brebemi in Lombardia. Certo è, però, che opporsi alla Gronda negando la precarietà strutturale del famoso viadotto, per giunta abboccando alle fregnacce di Autostrade, segnala l’incapacità disarmante dei grillini di capire che non ci si può fidare di chi beneficia di un sistema basato sulla proprietà privata e lo sfruttamento, ove l’imperativo della massimizzazione del profitto subordina qualsiasi considerazione di onestà, sicurezza etc.

E’ utile ricordare, in questo solco, che non solo i Benetton, ma anche i Gavio e un pugno di altre imprese minori controllano le concessioni autostradali, e tutti utilizzano più o meno gli stessi metodi: solo negli ultimi tre anni, infatti, i pedaggi sono aumentati attorno al 4%, a fronte di una riduzione complessiva del 70% degli investimenti di competenza (gestione ordinaria e straordinaria, quindi anche manutenzione) tra il 2016 ed il 2017, rispetto ai €2,4 miliardi stanziati ogni anno tra il 2007 ed il 2015 [3]. Tutto ciò con l’appoggio dell’ultimo governo (i pedaggi vengono decisi in trattative segrete con gli esecutivi), il quale, peraltro, ha aumentato dal 20 al 40% la quota dei lavori sulla rete che i concessionari possono affidare direttamente a imprese di propria fiducia, invece che a quelle selezionate tramite bando pubblico. Non che il meccanismo degli appalti sia una panacea – anzi! come sottolineeremo ancora non esistono risposte ai problemi essenziali risolvibili dalle leggi borghesi – ma è chiaro che ridurne il peso facilita ulteriormente ai padroni il compito di comprimere il più possibile i costi a scapito della sicurezza, pagare meno tasse e aumentare le tariffe in maniera ingiustificata, senza nemmeno dover pagare tangenti ai politici per poter gonfiare impunemente le spese dichiarate allo Stato.

Come spiega emblematicamente il Sole24Ore (21/08/18, p. 5):

le concessionarie autostradali preferiscono appaltare i lavori a società del loro stesso gruppo, le quali poi li subappaltano con ribassi consistenti. Anche il 30% e più (molto di più, nel caso delle progettazioni). La cifra che viene contabilizzata è quella uscita dalle casse della concessionaria, che però resta nell’ambito dello stesso gruppo. Questo, tra l’altro, aiuta a rispettare in pieno gli obiettivi di spesa previsti dai piani economico-finanziari allegati alle convenzioni con lo Stato[…] L’attuazione degli investimenti (per nuove costruzioni e ampliamenti), invece, è ben più indietro (69,4%).[Spesso i lavori vengono affidati] a piccole imprese che li eseguono con budget ridotti all’osso e devono rinunciare ad utilizzare abbastanza personale qualificato o ad impiegare i migliori materiali possibili. Qualcuno lamenta anche che certi lavori si limitano a un lifting di facciata, lasciando inalterato il degrado strutturale. C’è un risvolto anche per i professionisti, di solito giovani ingegneri, che a volte accettano incarichi mal pagati per certificare lavori di cui può accadere che dubitino gli stessi esecutori.

 

La querelle sulla nazionalizzazione

La giusta causa per la revoca non è da rintracciare in codicilli o in commi da azzeccagarbugli, la giusta causa sono i 39 morti. E ogni volta che qualcuno come Consob o qualche professorone ci dirà che dobbiamo stare attenti ai mercati e agli iter burocratici, rispondetegli che se vogliono possono andare a dirlo alle famiglie delle vittime. Noi agiremo subito. L’atto di revoca è stato annunciato dal presidente del consiglio in persona, e lo sta istruendo direttamente insieme al Ministro Toninelli e li ringrazio a nome di tutto il Movimento per quello che stanno facendo in questi giorni

scrive Di Maio ai parlamentari per chiarire la linea dei 5Stelle prima di prendersi le ovazioni ai funerali di Stato di domenica scorsa.

“Nazionalizzazione? Guardando i bilanci, rispondo di sì: io non sono pro e contro Autostrade o Benetton. Non sono contro i privati, ma in questo caso il privato ha fatto un disastro. Quello che faremo noi sarà dettato non da voglia di vendetta ma di giustizia”

fa eco Salvini, anche se poi aggiunge:

“non arriverà in 15 giorni: perché giustamente essendo noi un Paese civile, ci sarà spazio per la controparte, per spiegare cosa ha fatto, cosa non ha fatto, per giustificarsi. Durerà alcune settimane questo percorso; durante queste settimane valuteremo cosa è meglio per gli italiani”.

Quanta sostanza c’è dietro tutte le roboanti dichiarazioni dei membri dell’esecutivo? Per comprenderlo dobbiamo partire da un presupposto: una legge volta appositamente a revocare la concessione ad Atlantia rappresenterebbe uno scontro frontale non solo con i Benetton, ma con l’intera classe dominante. Come abbiamo visto, in effetti, un importante settore produttivo pubblico ha rappresentato un elemento decisivo nell’accumulazione capitalistica fino a pochi decenni fa. La fase della ricostruzione e del rilancio imperialistico dell’Italia nel secondo dopo-guerra, insieme a un clima culturale influenzato dalla presenza dell’Unione Sovietica e rapporti di forza soggettivi tra classi più favorevoli al proletariato sono tuttavia gli elementi che avevano giustificato un assetto del genere e che sono venuti meno da oltre trent’anni (durante i quali, con la complicità delle forze tradizionali del movimento operaio – trasformatesi nei peggiori partiti borghesi come il PD – i padroni si sono ripresi tutto).

Ecco che prima della tragedia di Genova, anche solo evocare come ipotesi di scuola l’idea di una nazionalizzazione è stato un tabù assoluto; così, un decreto come quello ventilato nei giorni scorsi, volto a trasferire allo Stato la gestione delle autostrade controllate dai Benetton, costituirebbe un pericoloso precedente, non solo per gli altri concessionari autostradali, ma per il complesso della borghesia nostrana, le cui frazioni più finanziarizzate ed internazionalizzate sono state le principali beneficiarie delle privatizzazioni andate invece a scapito di utenti e lavoratori che hanno visto aumentare tariffe, peggiorare servizi e condizioni di lavoro. Perché, insomma, se si può parlare di nazionalizzazione delle autostrade, non si dovrebbe parlare anche di nazionalizzazione dell’ILVA, di Alitalia, ma anche di Enel, Telecom etc. e di tutti gli esempi di imprese che – almeno dal punto di vista dei cittadini e dei lavoratori – non hanno dato grande prova di sé una volta passate dal pubblico al privato?

Non stupisce perciò la posa “idrofobica” mostrata in questi giorni dai giornali degli Agnelli, De Benedetti, Benetton etc. di fronte alle sparate di Salvini e Di Maio, tornati tuttavia rapidamente nei ranghi per voce dei rispettivi bracci destri Buffagni e Giorgetti, nelle cui dichiarazioni – rese molto credibili dal recupero in borsa di Atlantia – hanno escluso che si avrà una revoca della concessione attraverso decreto legge (singolare notare come invece, il partito di Salvini l’avesse approvato senza discutere il provvedimento d’urgenza che nel 2008 prorogava la concessione ad Atlantia). Insomma: il mezzo per “sbarazzarci” dei Benetton sarà un lungo iter giudiziario, come quello già avviato da Toninelli, durante il quale “la magistratura indipendente” non potrà nulla contro gli immensi mezzi finanziari e politici dei padroni che riusciranno a scongiurare la rescissione del contratto (la Lega parla già di levare ai Benetton solo la A10) o almeno ottenere dallo Stato una penale di 20 miliardi che con buona pace di Toninelli – sicuro che non si tratti di un problema – potrà, sì, essere pagata con i pedaggi… Ma mantenendoli ai livelli elevatissimi di oggi ed evidentemente sacrificando gli aumenti negli investimenti in manutenzione e sicurezza, senza i quali una statalizzazione non avrebbe alcun senso!

Nemmeno tutte queste ambiguità del governo devono però stupire: la Lega Nord è un partito che ha governato il paese per anni e da lustri ha in mano le regioni dove risiede il Gotha del capitalismo italiano (in primis la Lombardia), mentre i 5Stelle, pur avendo ottenuto – come del resto la Lega – molti voti dei lavoratori, sono un partito piccolo borghese, tanto come personale che lo dirige che come ideologia; un’ideologia caratterizzata dal feticismo per la legalità, l’interclassismo e l’empirismo più idiota che gli permette di rinnegare da un giorno all’altro qualsiasi presa di posizione. Tutti elementi, insomma, che rendono incapace il Movimento 5Stelle di affrontare seriamente i cosiddetti “poteri forti”.

 

Per un piano di nazionalizzazioni serio. Nazionalizzazioni operaie.

Solo un partito politico influente e radicato nella classe operaia, e con una strategia rivoluzionaria, potrebbe porsi seriamente il compito di rompere con la classe dominante e il suo Stato per portare avanti un programma serio di nazionalizzazioni – ovvero come espropri alla borghesia, senza indennizzo e soprattutto sotto il controllo democratico dei lavoratori e degli utenti, non dei borghesi vestiti da funzionari pubblici. Le aziende dell’IRI e quelle ancora di proprietà del ministero del tesoro, infatti, erano e sono dirette da manager che facevano e fanno la spola tra consigli di amministrazione di gruppi multinazionali e incarichi pubblici (chi pensa che “il governo del cambiamento” sia amico dei lavoratori si legga il curriculum del nuovo presidente delle Ferrovie dello Stato Castelli, investito da Toninelli. Un CV non molto diverso da quello del dimissionario Mazzoncini, nominato dal PD). Con lo smantellamento dell’IRI, inoltre, le partecipate statali hanno anche giuridicamente come scopo principale il profitto (dal 1992 sono infatti passate a “soggetti di diritto privato”) e sono coinvolte in prima persona nelle imprese imperialiste della classe dominante. Si pensi, a tal proposito a Ferrovie dello Stato che punta tutto su TAV ed investimenti in Iran, Grecia etc., invece che sui treni che usano ogni giorno i lavoratori pendolari. Si pensi ad ENI – parzialmente privatizzata, ma il cui azionista di maggioranza rimane lo Stato – responsabile della destabilizzazione della Libia, del saccheggio della Nigeria, del sostegno a governi che massacrano i giovani e gli operai come quello di Al Sisi…

Una strategia rivoluzionaria, inoltre, è necessaria anche nella misura in cui limitarsi a togliere la concessione ai Benetton non basterebbe a risolvere gli immani problemi di manutenzione e sicurezza a cui il crollo del Ponte Morandi rimanda e che affliggono le infrastrutture – non solo autostradali – del nostro paese, colpito ogni anno da terremoti e alluvioni dettate da speculazione e cementificazione

Per affrontare tutto ciò sarebbe necessario un progetto di investimenti complessivo, il quale a sua volta non può che ricollegarsi alla rottura con l’Unione Europea capitalista e i suoi vincoli di bilancio, al rifiuto del debito pubblico, quindi alla nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici (siderurgia, telecomunicazioni, energia, trasporti etc.), molti dei quali tra quelli finiti nelle mani dei pescecani che hanno beneficiato delle privatizzazioni di due decenni fa, ovvero le principali famiglie della classe dominante italiana. Un programma, questo, che potrebbe inoltre gettare le basi per una pianificazione più generale dell’economia, l’unico modo per uscire dall’impasse produttiva ed occupazionale del capitalismo in crisi, risultato inevitabile di un sistema fondato sull’anarchia della produzione a vantaggio di un manipolo di sfruttatori.

Quella della costruzione di una forza in grado di porsi obiettivi del genere è una strada lunga – che passa non solo dallo smascheramento di questo governo, ma anche dalla lotta contro le burocrazie sindacali, principale freno alla mobilitazione indipendente della classe operaia, come non ha perso occasione di dimostrare il funzionariato della CGIL accodandosi agli isterismi dei padroni e del PD di fronte all’idea di nazionalizzare autostrade. La costruzione di una forza rivoluzionaria è una strada lunga, ma è l’unica se vogliamo evitare che tragedie come quella del ponte Morandi si ripetano, se vogliamo risolvere le immani questioni aperte dalla crisi del capitalismo.

 

Frazione Internazionalista Rivoluzionaria

Note

[1] IISI, World Steel Producers 1988-2005 e 2016

[2] Sole24Ore, “Autostrade e concessioni, 70 anni di storia dall’Iri ai Benetton”. Si veda anche: Huffington Post, “Autostrade per l’Italia ha incassato dai pedaggi 43,7 miliardi, reinvestendone meno di 20 nella rete”.

[3]D. Balotta, “L’Aumento dei Pedaggi? Un altro Regalo del Governo alle Concessionarie”, Il Fatto Quotidiano.

La FIR è un'organizzazione marxista rivoluzionaria, nata nel 2017, sezione simpatizzante italiana della Frazione Trotskista - Quarta Internazionale (FT-QI). Anima La Voce delle Lotte.