È in corso in tutta Italia il periodo di assemblee locali che costituiscono la prima fase del percorso congressuale vero e proprio della CGIL, il più antico e il più numeroso sindacato italiano. Dopo la videointervista a Eliana Como, “portavoce” dell’area di minoranza “Il sindacato è un’altra cosa”, intervistiamo Dario Salvetti, operaio e RSU della GKN di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze. Ci arriva, a intervista già chiusa, la notizia del risultato del congresso FIOM-CGIL in fabbrica: 2 voti al documento 1 (maggioranza uscente), 158 voti al documento 2.


Partiamo da un fatto recente: è mancato l’ex Amministratore Delegato di FCA, Sergio Marchionne. Il giorno della sua morte ci sono state scene surreali di silenzio totale, come di paralisi degli operai in diversi stabilimenti Fiat. Alla GKN, che è parte dell’indotto FCA, quali reazioni si sono avute tra gli operai? Si è già aperta una discussione sul possibile enorme ridimensionamento di FCA in Italia nel prossimo futuro?

In GKN mi è apparso di cogliere una generale sobrietà rispetto alla notizia della morte di Marchionne: nessuna adesione alla esaltazione di Marchionne da parte della stampa nazionale. Marchionne come individuo non ci è mai interessato. Il punto era il suo ruolo. E il suo ruolo ora è preso da un altro. Le politiche contro cui ci battiamo sono sempre lì. Se Marchionne deve essere elevato a simbolo, per noi va ricordato come il simbolo dello scambio “lavoro-diritti”. Ricattò gli operai Fiat: vi porto il lavoro se rinunciate ai diritti. I diritti non ci sono più per tutti e il lavoro c’è stato solo per alcuni. Ed è oltre tutto a forte rischio.

Si continua a denunciare il fatto che FCA non fornisce il piano industriale con chiarezza. A me il piano sembra chiarissimo: sviluppare il “polo del lusso” in Italia con la produzione di Alfa, Maserati e Ferrari. Il che non può garantire i volumi necessari a occupare tutti gli attuali operai FCA.

Veniamo al Congresso CGIL: il sindacato vi arriva con un solo grande documento di maggioranza, che però nasconde una lotta intestina non da poco. Qual è stata la dinamica degli ultimi anni che ha portato a questa situazione, con un dibattito centrato solo sul candidato segretario generale e con la sola opposizione formale dell’area, numericamente molto contenuta, “Il sindacato è un’altra cosa”?

Sì, a eccezione del nostro documento, tutte le anime della Cgil si presentano sotto l’ombrello di un grande documento unico, senza il benché minimo emendamento. La discussione dentro la maggioranza è sostituita da una sorta di presidenzialismo spiccio: chi farà il segretario generale? Landini o Colla o chi altro? E’ una discussione imbarazzante.

Quando in passato Landini si differenziava dalla Camusso, pur rimanendo dentro il perimetro della maggioranza congressuale, lo faceva partendo almeno da delle differenze esplicite. Lo scontro, reale o no, avveniva ad esempio sul Testo Unico sulla Rappresentanza. Quale sarebbe oggi invece la differenza tra Landini, Colla o qualsiasi altro aspirante a fare il segretario generale? Se tale differenza esiste, non è dato conoscerla. Gli esponenti della maggioranza nei congressi ripetono tutti la stessa storia: tutto bene, Carta dei diritti favolosa, via referendaria eccellente, Cgil sempre sul pezzo, stagione contrattuale tutto bene.

Lecito scontrarsi per un segretario differente, se a nomi differenti corrispondono impostazioni politiche e sindacali diverse. Ma se tutto è piatto e unitario, perché Colla al posto di Landini o viceversa? Sulla simpatia? Perchè uno buca lo schermo? Un dibattito avvilente in questi termini. Un dibattito che trasuda sfiducia nelle idee e nella capacità di mobilitazione dei lavoratori, ridotti a tifare un nome invece di un altro.

Emblematici della passività delle burocrazie della CGIL gli accordi di categoria firmati durante l’ultima stagione, dove la norma sono ormai salari legati alla produttività e welfare aziendale. Un peggioramento netto delle condizioni sindacali complessive dei lavoratori. Che interesse hanno i dirigenti del sindacalismo confederale a farsi battere così su tutta la linea, senza avere nulla in cambio?

Le aziende hanno rotto da tempo la concertazione. L’hanno fatto da destra, superando il sindacato concertativo con il sindacato dei servizi e degli enti bilaterali. Un modello che è pienamente rivendicato e praticato da Cisl e Uil. La Cgil rimane a parole in mezzo al guado, invocando il ritorno al sindacato “della concertazione”. Ma tale modello sindacale, per altro fortemente negativo per i lavoratori, non ha i margini per esistere. Così, contratto dopo contratto, anche le diverse categorie della Cgil si orientano per la promozione dei “servizi”, degli “enti bilaterali”. E’ un modello che permette all’apparato sindacale di mantenere un ruolo sociale, anche in assenza di margini concertativi. Ma è un modello che nega l’essenza stessa del sindacato. La bilateralità, i fondi integrativi sanitari e pensionistici, possono essere gestiti anche da un sindacato giallo direttamente in rapporto con l’azienda.

Il programma delle aziende è chiarissimo: legare sempre di più i salari alla produttività, tentando sempre di più forme di ritorno al cottimo, incentivare i “pagamenti in benefits e servizi”, preparando il ritorno al “pagamento in natura” come usava negli anni ’50.

A questo “piano” aziendale, si resiste solo rimettendo in piedi un protagonismo dei lavoratori, un sindacato rivendicativo con un programma chiaro e radicale.

Quali effetti ha avuto l’ascesa del Movimento 5 stelle e della Lega all’esecutivo sui calcoli del gruppo dirigente della CGIL? Che prospettiva può avere, quando tutti i maggiori partiti oggi in parlamento l’hanno scaricata o l’hanno sempre avversata?

Io credo innanzitutto che il vertice sindacale non capisca perché così tanti lavoratori hanno votato partiti dell’attuale Governo. Non si sente corresponsabile di questo scenario. Preferisce spargere pessimismo e sfiducia nei confronti della classe: non ci capiscono, non ci seguono ecc.

E’ evidente che razzismo e guerra tra poveri sorgono quando si smarrisce la via della lotta collettiva dei poveri contro chi li sfrutta.

Migliaia di proletari che si sentono attratti dalle idee di Salvini sono anche il frutto amaro di un’intera stagione di moderatismo sindacale. Se sei un’organizzazione di oltre 5 milioni di iscritti e contro il Jobs Act metti in piedi un solo sciopero generale, se fai rientrare la lotta, per darti alla raccolta di firme referendaria e alla Carta dei diritti, autoconvicendoti che così ti sei messo al centro della scena politica del paese, stai in verità passando implicitamente questo messaggio ai lavoratori: ci possiamo fare poco o nulla.

Come non si fa a vedere che Movimento 5 Stelle e Lega si sono potuti impadronire demagogicamente di un tema come l’abrogazione della Fornero anche perché il principale sindacato italiano non ha mai veramente praticato la lotta contro la controriforma Fornero? La peggiore controriforma pensionistica europea passata con la convocazione di sole 3 ore di sciopero. Un fatto rimasto nell’immaginario collettivo di milioni di lavoratori come lo “sciopericchio”, a cui negli anni sono seguiti tavoli di discussione con il Governo dove non era chiaro nemmeno cosa si stesse a fare.

Detta in una sola frase, la subalternità del principale sindacato italiano al Pd è una delle concause del voto ai 5 Stelle e alla Lega da parte di un settore importante di lavoratori dipendenti e disoccupati.

E’ una subalternità particolare. La Cgil non è concepita in verità nel mondo del Pd. Non siamo alla vecchia cinghia di trasmissione tra partito e sindacato. Non è un rapporto complessivo tra organizzazione sindacale e politica. E’ un rapporto ramificato tra cordate, singoli dirigenti. Ad esempio, tra i presentatori dell’emendamento in Parlamento peggiorativo del Decreto Dignità in senso confindustriale c’è anche la Cantone, attuale parlamentare del Pd ed ex segretaria dello Spi Cgil. Un fatto che vale più di mille analisi.

Politicamente credo che il cuore di tanti dirigenti Cgil si collochi in quella zona grigia alla sinistra del Pd. Quella zona che non è più Pd, ma non è nemmeno realmente alternativa al Pd stesso. E non essendo né di qua né di là, semplicemente non è.

Per questo di fronte al nuovo Governo, il rischio è duplice e speculare. Da un lato c’è il rischio che un settore dell’apparato sindacale faccia aperture di credito assolutamente ingiustificate a Di Maio e compagnia, facendosi trascinare dall’impresionismo, dalla corrente del momento e dal sacro e sempiterno “rapporto con le istituzioni”. Dall’altro c’è il pericolo che il gruppo dirigente Cgil faccia una opposizione a questo Governo, schiacciata però sui tempi, modi e parole d’ordine della galassia del centrosinistra. Questo è il regalo più grande che si può fare a Salvini.

Puoi illustrarci in sintesi quali sono le parole d’ordine su cui come opposizione state spingendo di più nella vostra fabbrica e nel territorio, che ti sembrano prioritarie e più convincenti?

Il programma sindacale deve tornare ad essere un chiaro e radicale riferimento nella testa dei lavoratori. Anche i lavoratori che non sono pronti ad appoggiarci, devono avere chiaro chi siamo e per che cosa lottiamo: “Ah sì, loro sono quelli che vogliono abrogare Jobs Act, Fornero, leggi precarizzanti”. Salario minimo intercategoriale, riduzione d’orario a parità di salario, ritorno al collocamento pubblico con l’abrogazione delle agenzie interinali: devono essere idee forza, vettori della nostra azione.

Tuttavia, sai, in un Congresso le parole costano poco. E quindi abbiamo sentito agitare parole d’ordine apparentemente radicali anche da alcuni relatori del primo documento. Per questo, è altrettanto importante mettere l’accento sui metodi di lotta e di costruzione del sindacato. Bisogna essere chiari: oggi le aziende non vogliono concedere nulla. Anche il Decreto Dignità di Di Maio, che è solo un misero ritocchino estetico al Jobs Act di Renzi, le ha messe in fibrillazione. Chi oggi parla di reintrodurre l’articolo 18, senza dire che è impossibile farlo senza uno scontro sociale importante con Confindustria e il grande capitale, è il vero irresponsabile.

Recuperare forme di coordinamento tra delegati, costituire comitati degli iscritti o collettivi di azienda, praticare scioperi di solidarietà tra vertenze diverse è fondamentale se ci si vuole attrezzare a sostenere una reale azione di cambiamento dei rapporti di forza.

E’una prospettiva che va praticata sempre, quotidianamente, in ogni passaggio, vertenza, contratto. Non è possibile chiamare i lavoratori ad essere radicali solo quando le aziende ci mettono con le spalle al muro, quando magari licenziano o ti lasciano senza alternativa.

“Il sindacato è un’altra cosa” giunge a questo congresso indebolita, come area, a seguito di processi di fuoriuscita dalla CGIL, e dei riflessi della passivizzazione generale della base del sindacato. Personalmente, come pensi possa essere riattualizzata una lotta per diffondere posizioni saldamente dalla parte della classe lavoratrice e anticapitaliste, e guadagnare bastioni da cui rilanciare la battaglia contro la burocrazia? Come avete concretamente impostato la vostra azione come compagni della minoranza CGIL-FIOM in fabbrica, che risultati avete ottenuto?

Sui numeri finali del congresso o sull’attuale forza dell’area, faremo i bilanci necessari a fine congresso. Dobbiamo avere chiaro che il congresso è solo un passaggio. E’ nella pratica sindacale, nelle mobilitazioni, che può e deve rivitalizzarsi una opposizione sindacale classista.

Rispetto alla questione dei “bastioni” pongo due critiche: innanzitutto, non penso sia fattibile né auspicabile prendere un singolo modello empirico e esportarlo tale e quale “preconfezionato”; in secondo luogo, sul piano della strategia politica in senso ampio, non solo sindacale, bisogna evitare l’approccio, diffuso tra diversi gruppi politici della storia recente anche solo rimanendo in Italia, di elevare a modello una “fabbrica-feticcio”, dove magari il singolo gruppo ha una concentrazione di militanti, e di farne arbitrariamente il centro della lotta di classe del paese, un centro che magari a un certo punto “inspiegabilmente” crolla e dall’oggi al domani scompare dal contesto generale di lotta e dal dibattito.

In Gkn abbiamo semplicemente provato a problematizzare come resistere, anche con i rapporti di forza dati, in un’azienda qualora i lavoratori riescano a mantenersi compatti e uniti. Perchè finora questa è stata la nostra forza. Semplicemente, quando la lotta chiama, i lavoratori sono tutti sui cancelli. E’ una compattezza delicata, messa sempre in discussione da manovre di divisione. E’ qualcosa che va protetto e rivitalizzato tutti i giorni.

E’ questa banale compattezza di mobilitazione che ci ha portato a fare una serie di accordi, pur sempre difensivi, come il ripristino dell’articolo 18 del 1970, l’esistenza di un bacino di richiamo dei precari ecc. ecc.

Questa forza però ci ha portato anche a problematizzare il rapporto tra delegati, lavoratori e consapevolezza operaia. I lavoratori investono la Rsu di una “delega”, di un rapporto “fiduciario”.

Le vittorie non generano automaticamente e di per sé consapevolezza. Anzi, possono addirittura portare a ingessare un rapporto di fiducia passiva. Senza protagonismo operaio, invece, è impossibile pensare di reggere. I lavoratori tra l’altro ti chiedono, giustamente, di assolvere anche una serie di funzioni di mera tutela legale ed economica: lettura buste paga, informazioni, interventi sulle singole postazioni di lavoro ecc. ecc. Il rischio è che il delegato sindacale sia concepito come “un servizio”, come “un’istituzione” e non come l’organizzatore dell’azione collettiva dei lavoratori.

In questo modo anche il delegato più combattivo e onesto può essere lentamente risucchiato in una mentalità burocratica, di servizio. Può lentamente alienarsi dal resto dei suoi colleghi, iniziare a sentirsi più vicino alla mentalità di un mero “amministratore” della routine sindacale. La classe cessa di essere il suo mondo e inizia ad appartenere al mondo della mediazione tra classe e azienda. Da lì a passare completamente dalla parte dell’azienda, il passo è breve.

La burocratizzazione della rappresentanza sindacale è il risultato di una serie di fattori. Non è determinata solo da avere in tasca la tessera di un sindacato o di un altro. E questo è un pezzo di analisi che spesso non trovo nemmeno tra i compagni che promuovono il sindacalismo di base.

Sempre nella consapevolezza che il problema non è risolvibile tra le quattro mura di una singola azienda, in Gkn abbiamo provato a mettere in campo delle contromisure. Al sindacato concertativo e al sindacato “corporativo”, dei servizi e degli enti bilaterali, contrapponiamo il sindacato partecipativo e rivendicativo. Un sindacato che deve avere non solo programmi differenti, ma anche metodi diversi.

Da tempo abbiamo provato a promuovere il collettivo di fabbrica, che convochiamo prima delle assemblee di stabilimento più delicate o per ragguagliarlo nei passaggi più difficili. Il collettivo si riunisce a fine turno o in momenti particolari il fine settimana.

Ora stiamo provando a fare un passo in più, lottando per arrivare alla formazione di delegati di raccordo che affianchino la Rsu. Il modello è quello dei vecchi consigli di fabbrica e dei delegati di reparto, che si era formato sull’onda delle grandi mobilitazioni e vittorie operaie. Più il sindacato è diffuso tra i lavoratori, più è facile che risponda agli interessi e al protagonismo dei lavoratori, più si riesce a combattere la separatezza tra lavoratori e struttura sindacale.

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.