19,5 milioni d’italiani fanno la spesa nei fine settimana, dato che nel corso di essa lavorano. Quindi sarà un problema per essi. Infatti la domenica è il secondo giorno della settimana per fatturato. Come sarà un problema anche per 3,4 milioni di dipendenti che lavorano di domenica nelle attività […] Si stima che possano essere a rischio oltre 40 mila posti di lavoro” ci dice Federdistribuzione, la branca di Confindustra che fa riferimento alla grande distribuzione, dopo che Di Maio qualche settimana fa ha annunciato l’intenzione di affrontare il tema del lavoro domenicale nel commercio, una questione molto sentita dato che lavorare la domenica significa per molti salariati\e rinunciare all’unico giorno durante il quale essi\e possono stare con la famiglia. Un semplice lettore di quotidiani potrebbe già sindacare sui numeri dati da tali organizzazioni, visto che anche quotidiani come l‘Avvenire o IlSole24Ore (non propriamente la“Pravda”), asseriscono che cifre del genere siano opinabili ed ancora da verificare; anzi la prima testata riporta addirittura come dal 2012 – anno delle liberalizzazioni del governo Monti – ad oggi si siano persi oltre 30.000 posti di lavoro nel commercio. Le cifre sono importanti per avere un’idea, ma nei prossimi paragrafi vedremo come ci siano anche delle ragioni teoriche per avere un approccio critico a proposito delle sparate dei padroni su lavoro domenicale e occupazione. Cercheremo poi di capire se i lavoratori possono fidarsi dell’attuale esecutivo e in alternativa quale atteggiamento assumere.

CENTRALIZZAZIONE DEL CAPITALE E LAVORO DOMENICALE: ALCUNI SPUNTI PARTENDO DA MARX

Rispetto al lavoro domenicale bisogna innanzitutto chiarire come l’obiettivo principale del governo – un governo che ha forti riferimenti politici e militanti nella piccola borghesia – sia quello di salvaguardare i piccoli commercianti, i quali negli ultimi tempi hanno visto peggiorare gli effetti della competizione dei grandi colossi della distribuzione. Sono state infatti le grandi catene a beneficiare della liberalizzazione del lavoro domenicale, a scapito dei concorrenti minori; questo grazie alla maggiore efficienza, quindi capacità di gestire grandi volumi, oltre al miglior posizionamento nei centri commerciali rispetto ai bottegai tradizionali.

Certamente una situazione del genere non è andata nemmeno a vantaggio dei lavoratori, e non solo di quelli del commercio, ma dell’intera classe.

Il mezzo attraverso cui i colossi della grande distribuzione e della distribuzione telematica di massa vincono sui piccoli commercianti consiste nella loro capacità di imporre alle imprese il prezzo di acquisto delle merci che saranno poi vendute nei supermercati, negli stores etc.; capacità che evidentemente i concorrenti minori non hanno a disposizione. In termini marxisti, il grande capitale commerciale è in grado di catturare dal capitale produttivo [1] una quota di plusvalore ben maggiore rispetto ai piccoli commercianti, fatto che la liberalizzazione degli orari ha evidentemente peggiorato, avendo contribuito – pur non essendone la causa – al circolo vizioso della centralizzazione del capitale.

Ecco che più si accentra capitale nelle mani della grande distribuzione, maggiore è la quota di plusvalore del quale essa riesce ad appropriarsi e maggiore la tendenza degli industriali, o dei proprietari agricoli, che devono consegnare le merci a supermercati, stores etc. a comprimere il valore della forza lavoro, a delocalizzare la produzione dove costa meno, a sostituire braccia con macchine (estrazione di plusvalore relativo) oppure ad aumentare l’orario di lavoro e ridurre i salari dei propri dipendenti (estrazione di plusvalore assoluto) [2] – magari approfittando delle leggi sulla clandestinità e i respingimenti che aumentano la ricattabilità degli operai immigrati, soprattutto nel lavoro dei campi. Poichè inoltre il grande capitale commerciale è più efficiente dei bottegai e quindi ha bisogno di meno salariati proporzionalmente al capitale investito, i posti di lavoro persi a causa della chiusura dei piccoli esercizi non possono essere facilmente riassorbiti dall’aumento delle quote di mercato dei colossi della distribuzione. Più disoccupazione, inoltre, significa, maggiore possibilità di sfruttare i lavoratori, quindi di costringere la forza lavoro già disponibile a fare straordinari (spesso in realtà non pagati come tali) invece di assumere nuovi addetti per coprire le domeniche; questo, a volte anche con la complicità delle burocrazie sindacali, come nel caso dei lavoratori di Esselunga.

I LAVORATORI NON DEVONO FIDARSI DEL GRANDE CAPITALE…

Dovrebbe essere chiaro giunti a questo punto che i proclami dei padroni rispetto all’ecatombe di posti di lavoro che si verificherebbe intaccando il lavoro domenicale devono essere ridimensionati. Peraltro, il grande capitale nazionale ed internazionale e i suoi referenti politici parlano della domenica come il secondo giorno di importanza per il fatturato… Si dimenticano però che sono proprio i subalterni, spremuti dalla concorrenza salariale, accentuata come visto dalle liberalizzazioni d’orario, a costituire la domanda con la più alta propensione al consumo e con maggiori effetti sul moltiplicatore economico: se non vogliono rispolverare Marx o Kaleki, rispolverino almeno Keynes e alzino i salari!

In effetti, sarebbe sbagliato accentuare l’ignoranza dei capitalisti quando gridano alla catastrofe, poiché un atteggiamento del genere è radicato in obiettivi ben precisi; ovvero atomizzare i salariati e metterli l’uno contro l’altro, impedendogli di capire che la battaglia contro il lavoro domenicale è in ultima analisi una battaglia contro l’appropriazione da parte del capitale del nostro tempo libero, una lotta per evitare di consegnare le persone ai tristi fine settimana passati nei luoghi par excellence del consumo.

Bisogna infine distinguere tra bisogni essenziali e non, capendo finalmente che l’imperativo del consumo costante di surplus con cui riempire i nostri fine settimana non è un bisogno essenziale ma qualcosa di indotto dal sistema e che esso usa per la propria riproduzione (non a caso Walter Benjamin parlava del capitalismo come la “religione del puro rito”).

I LAVORATORI NON DEVONO FIDARSI NEMMENO DELLA PICCOLA BORGHESIA…

Tornando all’asse della nostra argomentazione: se abbiamo detto che il catastrofismo dei padroni va ridimensionato, lo stesso vale per le illusioni che di Maio voglia davvero regalare un giorno libero in più ai lavoratori. Se è vero come abbiamo visto che nel complesso la piccola borghesia “ci perde” dalle liberalizzazioni, l’illusione che una domenica “aperti si” e “l’altra no” possa aumentare i profitti stuzzica più di un padroncino. Come al solito questa categoria sociale sempre più allo sbando vuole la botte piena e la moglie ubriaca, pensando di poter frenare la concorrenza spietata della grande distribuzione con una semplice regolamentazione e illudendosi che qualche magia, qualche alchimia nei rapporti tra distribuzione e produzione, possa restaurare quelle relazioni tradizionali tra consumatore e commerciante locale.

E’ insomma consuetudine per la piccola borghesia perdersi in un euforico ed illusorio infantilismo senza fare i conti con la cruda realtà dei fatti: lo stesso illusorio infantilismo che fa gioire il governo giallo-verde, quando afferma, quasi in maniera donchisciottesca, di essere in procinto di eliminare il lavoro domenicale. In realtà, l’idea Di Maio è – proprio come Don Chisciotte – semplicemente quella di tornare al passato, sostituendo al “decreto salva italia” del 2012 (con il quale Monti aveva liberalizzato completamente gli orari dei centri commerciali) un sistema di turnazione strutturato sulla previsione che il 25% dei negozi resti aperto la domenica, fatta eccezione per le zone turistiche, dove rimarrà tutto uguale a prima, come richiesto dal ministro leghista del Turismo Gian Marco Centinaio.

La morale della nostra analisi è insomma che lo sfruttato non debba fidarsi ne della piccola borghesia ne del grande capitale, ed urlare a gran voce “abolizione del lavoro domenicale”: una rivendicazione di classe e di buon senso che solo la lotta dei lavoratori uniti può perseguire, non la speranza che la piccola borghesia possa risolvere anche i problemi dei salariati, quando non è strutturalmente in grado nemmeno di risolvere i propri. Piuttosto – sia detto di passata – dato che solo l’espropriazione dei grandi capitalisti potrebbe permettere di sopravvivere a bottegai, piccoli commercianti etc., sarebbero questi ultimi che dovrebbero mettersi alla coda del proletariato, l’unica classe in grado di portare fino in fondo una prospettiva anti-capitalista e di rottura con la grande borghesia.

  • Elia Pupil

(Elia scrive anche su LeGauche – Collettivo Autori Indipendenti).

NOTE

[1] Sulla natura improduttiva del capitale commerciale si veda: K.Marx, Il Capitale, Libro II ,sez. 1, cap.VI

[2] Sui concetti di “plusvalore assoluto” e “plusvalore relativo” si veda K. Marx, Op. Cit., Libro I, sez. 5, cap. XIV

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.