Pubblichiamo la prima di tre parti di un dossier specifico a cura di Révolution Permanente sull’Arabia Saudita a partire dalla morte, per mano di agenti del governo saudita, del giornalista Jamal Kashoggi, sequestrato nel consolato saudita a Instanbul. Al di là dei dettagli dell’efferato omicidio perpetrato da un regime ultrareazionario, la morte di Khashoggi potrebbe avere conseguenze geopolitiche importanti per la Turchia, per l’Arabia Saudita e per il suo principale alleato, gli Stati Uniti.


Il rischio che corre l’Arabia Saudita è di destabilizzare o mettere in discussione le proprie relazioni economiche e strategiche con le potenze imperialiste. L’Arabia Saudita ha alcune priorità imperative: poter accedere agli investimenti stranieri, soprattutto americani, per riformare il proprio sistema economico dipendente dagli idrocarburi; continuare ad importare armi per finanziare la sanguinosa guerra con lo Yemen e mantenere una stretta cooperazione con gli Usa per contenere il nemico iraniano. Con tutta probabilità gli interessi geopolitici che legano l’Arabia Saudita alle altre potenze imperialiste non sono minacciati per il momento, ma resta il fatto che la posizione del principe ne esce notevolmente indebolita, sia all’interno del suo paese che all’estero.

 

I fatti

Il 2 ottobre Jamal Khashoggi, un giornalista dissidente saudita che lavorava al Washington Post, e noto per i suoi legami con gruppi politici religiosi come i Fratelli Musulmani, entra nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul per poi sparire senza essere mai uscito.

Nei giorni immediatamente successivi, il regno dell’Arabia Saudita si limita nega la scomparsa del giornalista. A seguito di un’indagine da parte della Turchia, le prove hanno però cominciato ad accumularsi e la morsa ha iniziato a stringersi attorno alla figura del principe ereditario Mohammed bin Salman. Secondo le immagini della videosorveglianza fornite da Ankara infatti, un gruppo di quindici persone vicine al principe avrebbe teso una trappola al giornalista saudita prima di ucciderlo e tagliare il suo corpo con una sega ossea. Sappiamo che questo commando includeva ufficiali delle forze speciali saudite e dell’aeronautica, agenti della sicurezza personale di Mohammed bin Salman, e, macabro dettaglio, un medico legale, capo del servizio medico legale del Ministero degli interni saudita.

A seguito di queste schiaccianti rivelazioni, l’Arabia Saudita ha rapidamente cambiato la propria versione dei fatti e ha ammesso la morte del giornalista, parlando di una rissa finita in tragedia. I principali leader occidentali non hanno accettato questa versione mentre Donald Trump, a causa degli stretti legami militari ed economici tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, ha assunto un tono conciliante, definendo credibile l’ipotesi avanzata da Riad di “un furto degenerato in omicidio”.

Lunedì 22 ottobre la CNN ha svelato il macabro filmato delle telecamere di videosorveglianza poste all’esterno del consolato saudita datate 2 ottobre che mostrano uno degli agenti sauditi coinvolti nel delitto che lascia il consolato con indosso gli abiti di Khashoggi. Un funzionario turco ha parlato di un “tentativo di depistaggio”, il cui scopo era di confermare le affermazioni di Riad che sosteneva che Kashoggi avesse lasciato il consolato vivo. Da parte sua Erdogan, che non ha alcun interesse ad aprire una crisi diplomatica con il regime saudita, ha dichiarato oggi “di non avere dubbi sulla sincerità di re Salman”, che ha fatto arrestare i 18 membri dell’operazione responsabili dell’assassinio di Kashoggi.

Si fanno sentire in questi giorni le prime ripercussioni economiche e geopolitiche a danno dell’Arabia Saudita. La complicata situazione vede al centro la figura del giovane principe ereditario Mohamed bin Salman. Un tempo la figura del principe ereditario era esaltata come quella di un riformatore progressista da parte dalle maggiori potenze imperialiste, mentre oggi la sua imprevedibilità rappresenta oggi un ostacolo per la conduzione degli affari e tutto questo finisce per indebolire la figura del principe stesso all’interno del proprio paese. I leader occidentali hanno anche condannato l’uccisione di Kashoggi, ma non hanno sospeso le esportazioni di armi in Arabia Saudita come ha fatto invece la Germania.

Prime ripercussioni: “Davos del Deserto”, il prestigioso forum economico organizzato dal fondo sovrano saudita e principale vetrina del regime è stato boicottato da molte figure politiche ed economiche, che hanno annunciato di rinunciare a partecipare: hanno rinunciato tra gli altri i capi di EDF e Siemens, il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Steven Mnuchin, il ministro francese dell’Economia Bruno Le Maire, il Ministro del Commercio britannico Liam Fox e Christine Lagarde, direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

 

Arabia Saudita, un regime reazionario…

Quello che sconvolge i principali media borghesi, oltre all’atrocità del crimine che danneggia l’immagine degli Stati e delle multinazionali che fanno affari con il regime saudita, è l’instabilità e la sregolatezza del giovane principe ereditario Mohamed bin Salman. Tratti caratteriali che, in un regime autocratico come l’Arabia Saudita, non sono opportuni per stringere affari. Come afferma la rivista liberale The Economist: “L’America, soprattutto sotto la guida di Trump, si è dimostrata disponibile a collaborare anche con autocrati brutali. Altro discorso sono invece gli autocrati inaffidabili. Il principe Mohammed ha un comportamento impulsivo come si evince da molti esempi, dall’embargo verso il Qatar fino al rapimento del primo ministro libanese. La sua guerra contro lo Yemen è diventata un pantano letale. La scomparsa di Khashoggi non fa che corroborare questo bilancio. Nel frattempo, alcuni a Washington iniziano a sostenere che il regime saudita non debba più essere trattato con riguardo dal momento che, grazie al fracking americano, non è più il maggiore produttore di petrolio al mondo.”

L’Arabia Saudita è infatti un regime che combina i tratti più reazionari ed arretrati del sistema feudale e prefeudale, con la presenza di veri e propri sovrani assoluti, con un sistema politico confessionale ultrareazionario, il tutto abbinato ad una economia che vive sullo sfruttamento del petrolio.

Dal punto di vista economico, l’ambizioso programma di riforme del principe ereditario Mohammed bin Salman, Vision 2030, mira a diversificare le risorse di un’economia le cui entrate dipendono per il 90% dagli idrocarburi. Il calo del prezzo mondiale del petrolio e del gas ha messo in grave difficoltà l’Arabia Saudita. Come riportato dal Financial Times: “La crescita del più grande paese esportatore di petrolio è rimasta stagnante da quando i prezzi del greggio sono crollati nel 2014 e il regno è entrato in recessione nel 2017. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 12,9% nei primi tre mesi dell’anno. Si tratta del tasso più alto mai registrato in Arabia Saudita. In un paese in cui due terzi della popolazione ha meno di 29 anni, il tasso di disoccupazione giovanile supera il 25%, cifra che raddoppia per le donne.” [1]

In questo senso, Mohamed bin Salman ha condotto una politica di investimenti particolarmente aggressiva attraverso il Fondo per gli investimenti pubblici (FIP), il fondo sovrano dell’Arabia Saudita. Petrolio e petrodollari – i soldi che provengono dalla vendita di idrocarburi – sono i due pilastri del potere politico saudita che li reinveste nelle società americane.

L’Arabia Saudita dipende strategicamente dalla stretta cooperazione con i servizi segreti statunitensi, da un lato per contenere l’Iran, l’altra potenza reazionaria con cui è in competizione per l’egemonia nella regione, dall’altro perché è impegnata in una catastrofica guerra contro lo Yemen, guerra descritta dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Gutierrez come “la peggiore crisi umanitaria attualmente in atto”. La guerra contro lo Yemen impone di importare armi e di lavorare a fianco dei servizi segreti delle maggiori potenze imperialiste: questo fa dell’Arabia Saudita il principale paese importatore di armi dalle potenze imperialiste, Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Sappiamo da Amnesty International che “nel 2015 la Francia ha chiuso contratti per più di 16 miliardi di euro con la sola Arabia Saudita. Nello stesso anno ha consegnato all’Arabia Saudita armamenti ed equipaggiamenti militari (tra cui 115 veicoli corazzati e oltre 700 fucili di precisione) per un valore di 900 milioni di euro. Il governo ha dichiarato di non aver rifiutato, revocato o sospeso le licenze relative all’esportazione di armi negli ultimi due anni. Secondo SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), la Francia nel 2016 avrebbe fornito veicoli blindati all’Arabia Saudita. Nello stesso anno, mentre lo Yemen era giù soffocato dal blocco marittimo, la Francia avrebbe fornito intercettatori militari alla guardia costiera saudita.” [5]

Questi stretti legami economici e strategico-militari con le potenze imperialiste, compresi gli Stati Uniti, limitano i rischi che l’Arabia Saudita corre. E tuttavia la posizione del paese si è indebolita negli ultimi anni e gli Stati Uniti potrebbero cogliere l’occasione per richiamare all’ordine il suo alleato riguardo alla guerra nello Yemen e spingere Ryiad a aumentare la propria produzione di petrolio. Perché allo stato attuale delle cose, nei rapporti trai due paesi, sono gli USA ad essere il partner forte. Come ricorda The Economist, “[l’Arabia Saudita] non è più il più grande produttore [di petrolio] al mondo. L’America ne ha prodotto di più quest’anno. Ma l’Arabia Saudita rimane il secondo maggior paese fornitore estero di petrolio per Stati Uniti, dopo il Canada, con 955.000 barili al giorno pari al 9% delle importazioni totali. Senza considerare il petrolio, il commercio bilaterale è limitato. Gli Stati Uniti hanno esportato beni per 16,3 miliardi di dollari in Arabia Saudita nel 2017, inclusi circa 3 miliardi di dollari di armi e munizioni. Le importazioni non petrolifere dal regno saudita invece ammontavano a soli 900 milioni di dollari. Questi dati sono però messi in ombra dai massicci investimenti sauditi negli Stati Uniti. Il fondo di investimento pubblico (FIP), fondo sovrano dell’Arabia Saudita, ha versato 4,9 miliardi di dollari alle società americane. Le banche hanno incassato centinaia di milioni di dollari in onorari e compensi legati ai vari progetti sauditi, come l’offerta pubblica di Aramco, la compagnia petrolifera di Stato”.

Per il momento, al fine di evitare qualsiasi crisi diplomatica che avrebbe potuto macchiare la figura del principe, la reazione del regime saudita è stata quella di individuare alcuni capri espiatori. Ciononostante, la credibilità del principe viene severamente messa in discussione. A livello internazionale, la sostituzione del giovane principe ereditario, considerato troppo imprevedibile, sembra ora un’ipotesi ragionevole. Recentemente, il senatore statunitense Lindsey Graham, vicino a Donald Trump, ha dichiarato: “L’Arabia Saudita è un paese e bin Salman è una persona. Le due cose vanno distinte”, aggiungendo che chiudere un occhio sull’uccisione di un avversario politico all’estero potrebbe spingere “i nostri nemici a fare lo stesso ovunque e non rispettare più noi”. L’aura che circondava bin Salman solo pochi mesi fa è sparita.

…reso fragile dall’imprevedibilità del principe bin Salman

Di fronte al rischio di vedere la propria autorità indebolita, bin Salman ha colto l’occasione per riorganizzare il servizio di intelligence intorno alla sua famiglia e liberarsi delle personalità imbarazzanti per consolidare il suo potere. Per salvaguardare la propria immagine a livello internazionale, a seguito di un’indagine preliminare, il governo saudita ha licenziato cinque alti funzionari e arrestato altri 18 sauditi. Tra i funzionari licenziati ci sono il consigliere del principe bin Salman, Saud al-Qahtani, e il vice capo dell’intelligence, il generale maggiore Ahmed al-Assiri. Il tutto supportato dal padre del principe, il re saudita Salman, che ha emesso un decreto per riconfigurare l’intelligence. Questo decreto dimostra che nonostante le tensioni interne, il principe ereditario Mohammed bin Salman conserva ancora la piena fiducia del padre e conserverà il ruolo di leader della sicurezza in Arabia Saudita.

Come ricorda The Economist, “anche se l’Arabia Saudita sta affrontando queste circostanze senza drammatiche rotture, l’omicidio Khashoggi ha fatto danni incalcolabili alla reputazione del paese. Democratici e repubblicani al Congresso USA sono furiosi”. Lindsey Graham, senatore repubblicano e alleato di Trump, è arrivato addirittura ad affermare che il principe ereditario “deve andarsene”, un fatto significativo. [3]

L’immagine del principe “riformatore” e progressista ne esce a pezzi, e compromette la sua capacità di fare affidamento sugli alleati interni e internazionali per ristrutturare il sistema politico ed economico del suo paese.

Come sottolinea il Financial Times, l’Arabia Saudita è un paese che sta affrontando crescenti difficoltà nel riformare il suo sistema economico totalmente dipendente dagli idrocarburi, perciò la sua capacità di acquisire la fiducia delle potenze imperialiste è fondamentale per portare avanti le riforme: «La crescita è rimasta stagnante per il più grande esportatore di petrolio del mondo da quando i prezzi del greggio sono diminuiti nel 2014 e il regno è entrato in recessione nel 2017. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 12,9% nei primi tre mesi dell’anno, il tasso più alto mai registrato dal governo. In un paese in cui due terzi della popolazione ha meno di 29 anni, il tasso di disoccupazione giovanile è superiore al 25%, cifra che raddoppia per le giovani donne.

L’Arabia Saudita è un complesso sistema di clan che si dividono il potere, e la concentrazione del potere nelle mani di una sola famiglia causa all’interno delle rivalità. Per modificare il suo sistema economico basato sulla rendita e indirizzarlo verso settori in grado di produrre direttamente plusvalore, il regime saudita deve attrarre gli investitori internazionali ma anche giovani e donne del mondo del lavoro saudita. Ma le recenti decisioni del principe di ristrutturare il sistema politico per concentrare il potere nelle proprie mani hanno provocato l’opposizione dai settori più conservatori della società, compreso il clero wahabita che sono uno dei pilastri del regime saudita.

Come scrive il giornale Orient XXI: “Il sistema saudita ha incarnato prima del 2015 una forma di autoritarismo che potrebbe essere descritta come pre-moderna. Lo Stato in Arabia non era quel Leviatano tipico dei regimi arabi del post-indipendenza, ma uno stato tradizionale di tipo patrimoniale che praticava una forma esasperata di paternalismo politico. In un tale sistema basato sui guadagni del petrolio, la cooptazione era la modalità preferita per gestire i conflitti politici, e la repressione era vista solo come extrema ratio, anche se si trattava di più che di una possibilità teorica. […] L’esercizio del potere in Arabia Saudita consisteva, in breve, in un gioco di equilibri permanenti tra fazioni e correnti, un gioco che, a sua volta, permetteva l’esistenza di un certo pluralismo politico […]. Per giustificare quella che appare come una vera e propria rivoluzione di palazzo, Mohammed bin Salman sostiene la necessità di preparare lo stato e la società sauditi da un lato per affrontare le sfide regionali (inclusa quella che Riad chiama “espansionismo iraniano” e che giustifica la guerra in Yemen) e in secondo luogo, per attuare il proprio progetto di riforma economica e sociale, presentato in modo accattivante col nome “Vision 2030″ e preparato con l’aiuto della società di consulenza statunitense McKinsey” [4].

Un altro importante fattore di pressione e opposizione interna proviene dalla stessa popolazione saudita, compresi i settori popolari e gli impiegati statali. In effetti, le riforme economiche che Mohammed bin Salman vorrebbe attuare per riformare il regno implicano tagli e austerità. Ma la struttura di classe in Arabia Saudita è molto peculiare: i due terzi della classe operaia sono costituiti da stranieri e la maggior parte dei lavoratori sauditi lavora per lo Stato, con condizioni di lavoro e salari molto più elevati rispetto ai lavoratori del settore privato, rappresentati per la maggior parte da stranieri. Come dice l’Economist: “Gli Stati del Golfo, scarsamente popolati, hanno assunto esperti occidentali per aiutare a costruire i loro paesi, e un esercito di asiatici per impiegarli nei lavori subalterni. Gli stranieri costituiscono circa la metà della popolazione degli Stati del Golfo, con percentuali che vanno dal 90% negli Emirati Arabi e nel Qatar al 30% in Arabia Saudita.”

Sul versante dei rapporti con l’estero, questo macabro omicidio rovina definitivamente l’immagine del principe ereditario e potrebbe fargli perdere il sostegno delle principali potenze imperialiste. Sul versante interno, questo indebolimento potrebbe risvegliare non solo l’opposizione delle forze conservatrici, ma anche i giovani e le classi oppresse nella società saudita. La capacità di bin Salam di attuare riforme favorevoli agli interessi delle potenze imperialiste potrebbe quindi essere messa in discussione; essendo troppo imprevedibile, il principe saudita risulta fortemente indebolito. Per il momento, gli interessi geopolitici che legano l’Arabia Saudita agli Stati Uniti sono troppo importanti per essere infranti, ma in ogni caso, una cosa è certa: bin Salman potrebbe essere richiamato all’ordine dal potere americano e potrebbe non essere più percepito come insostituibile.

Note

[1] [2] [4] “Saudi Arabia: how the Khashoggi killing threatens the prince’s project”, Financial times, 22.10.2018 .

[3] “Saudi Arabia’s alliances are being tested as never before”, The Economist, 18.10.2018.

[5] «Ventes d’armes à la coalition au Yémen: l’Élysée refuse de recevoir Amnesty International», Amnesty International France.

Max Demian

Traduzione di Ylenia Gironella da Révolution Permanente

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.