Questo 30 ottobre, a fronte del piano di esuberi previsto da SCM Group per delocalizzare la produzione, alcuni operai della fabbrica, circa un quinto, hanno indetto un presidio permanente davanti ai cancelli sostenuti soltanto dal SI Cobas. L’azione di sabotaggio, prolungatasi giorno e notte fino al 6 novembre, ha in realtà visto il susseguirsi di tre tavoli di trattativa tra prefettura, SI Cobas, SCM Group e ispettorato del lavoro in cui alla fine si è arrivati ad un accordo per il quale i lavoratori avrebbero dovuto sospendere il presidio e tornare a lavorare in cambio di un reintegro all’interno dell’azienda o, diversamente, almeno di una liquidazione al pari degli altri dipendenti.

La vicenda, che ha interessato 30 lavoratori di cui 4 addirittura già licenziati, pare derivi dalla decisione dell’azienda di chiudere entro la fine di aprile la fonderia dello stabilimento di Rimini e di spostarla nella sede di Villa Verucchio. È bene precisare che l’SCM Group di Rimini conta 120 lavoratori assunti direttamente dall’azienda, più altri 30 da due cooperative in appalto. Questi ultimi si sono ritrovati di fronte al più totale rifiuto, da parte dell’azienda, di rispondere ai doveri che le committenti hanno nei confronti delle rispettive ditte appaltatrici, nonostante i rapporti di lavoro di questi 30 lavoratori dovrebbero essere totalmente regolati da SCM Group, proprio come per gli altri 120. Tutto ciò, in definitiva, è andando così solo a peggiorare il rapporto ambiguo e diseguale che vigeva già da prima tra questi operai e l’azienda soprattutto nella retribuzione. Per fare solo un piccolo esempio, un operaio delle fonderie assunto direttamente da SCM Group guadagna in media 1400 € al mese, mentre un operaio delle fonderie con analogo livello contrattuale assunto dalla cooperativa 1200 € al mese.

Una realtà neanche poi così tanto isolata se si pensa alle miriadi di rapporti lavorativi regolati, illecitamente come in questo caso, sempre tramite cooperativa in appalto. Secondo l’Art. 1655 del c.c. infatti “l’appalto è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”. Questa modalità si può applicare, per fare qualche esempio, alle mense all’interno delle aziende o ai servizi delle pulizie, ma rapporti regolati direttamente dall’azienda del posto di lavoro non possono essere regolati da cooperative in appalto. Per molte aziende questo tipo di rapporto lavorativo rappresenta un buon escamotage per pagare meno tasse e contributi. Nate su un principio di democrazia interna e di mutualismo tra i suoi membri, le cooperative in realtà oggi si possono considerare come delle vere e proprie associazioni a delinquere dove i lavoratori sono sottopagati, il più delle volte non conoscono nemmeno i loro datori di lavoro e a fine rapporto non hanno nessuna tutela.

La vicenda in questione rimane però singolare perché è una delle prime, se non la prima, per un territorio dove non vi sono grandi stabilimenti industriali come il riminese. Il fatto che l’azienda abbia lamentato un danno economico, sebbene l’entità di tale danno potrebbe non essere così importante quanto i padroni vogliono far sembrare, deve spronare altri lavoratori a seguire l’esempio tra le fabbriche limitrofe, a anche, e soprattutto, all’interno dello stesso stabilimento. È vero che i restanti 120 lavoratori della fabbrica non sembrano essere, nell’immediato futuro, a rischio esubero né devono scontare le peggiori condizioni dei lavoratori delle due cooperative in appalto, ma è vero anche che solo mantenendo una capacità di organizzazione ed offensiva ci si può tutelare da attacchi futuri e si può migliorare la propria condizione. Dal momento che i 30 lavoratori che hanno intrapreso questo presidio stanno lottando per gli interessi di tutti, creare una solidarietà diffusa e attiva tra tutti i lavoratori dello stabilimento è un traguardo necessario.

Azimuth

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