Il giorno di Natale è morto Carlo Maria Maggi, 83 anni, mandante della strage di piazza della Loggia a Brescia. Dopo due decenni di indagini e processi, viene condannato all’ergastolo il 20 giugno scorso, senza mai scontare un giorno di carcere.

Con la morte di Maggi, se ne va un altro personaggio di quella che fu la “strategia della tensione”, promossa da settori particolarmente reazionari della classe dominante e attuata per mezzo di apparati dello Stato italiano, che vide protagonisti solo in parte i neofascisti.

Non vogliamo certamente invitare al perdono, né ricordare la strage di Brescia come un fatto storico da ricordare solamente in celebrazioni ufficiali. Vogliamo trarne una lezione sulla natura repressiva dello Stato e su quanto la borghesia possa mostrarsi spietata quando viene realmente messo in pericolo il suo ruolo di classe dominante. Pubblichiamo pertanto l’articolo di due compagni di Brescia che risponde proprio a questa necessità, analizzando il contesto internazionale, nazionale e locale.


La mattina del 28 maggio 1974, durante una manifestazione unitaria convocata in risposta ai numerosi episodi di violenza neofascista dei giorni precedenti, una bomba ad alto potenziale proveniente da una base Nato esplode in un bidone portarifiuti uccidendo otto persone e ferendone più di cento. Chi vuole comprendere appieno quegli avvenimenti non può esimersi dal collocarli nel contesto storico e sociale in cui si sono consumati: solo in questo modo si possono smascherare coloro i quali vogliono nascondere il ruolo repressivo dello stato nei confronti del movimento dei lavoratori e degli studenti.

 

Contesto internazionale

La fine della seconda guerra mondiale inaugura i “30 anni gloriosi” del capitalismo occidentale: il Dollar standard garantisce la stabilità del sistema monetario internazionale e il piano Marshall, permettendo il boom economico del vecchio continente, apre un florido mercato per le multinazionali americane. Per esorcizzare il fantasma della rivoluzione e contrastare l’influenza dell’Unione Sovietica, le classi dominanti occidentali fanno alcune concessioni al movimento operaio, mentre laddove sono più deboli (come in Grecia e nel terzo mondo) lo mettono a tacere con la violenza. Le amministrazioni statunitensi sono ovunque la stampella delle oligarchie più reazionarie e la scure che si abbatte sui movimenti di liberazione nazionale dei paesi post-coloniali. Proprio una sconfitta nel terzo mondo, per mano dei rivoluzionari vietnamiti, provoca il dissesto delle finanze statali americane che nel 1971 contribuisce al crollo del Dollar standard e all’inizio di una recessione economica internazionale. La crisi colpisce anche l’Italia e il tempo delle concessioni finisce: è allora nell’ottica di un attacco frontale al movimento dei lavoratori che dobbiamo leggere il 1974, l’anno di un’austerity peggiore di quella che subiamo oggi e di inquietanti derive autoritarie, ma anche della grande vittoria referendaria sul divorzio, vittoria che palesa le difficoltà della classe dominante attraverso la sconfitta dei suoi partiti di riferimento (Dc e Msi).

 

La “strategia della tensione”

L’obbiettivo fondamentale dello stragismo fascista – cominciato con la bomba di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 – era quello di favorire tramite il terrore la sospensione dello Stato di diritto e la presa del potere da parte dei militari. Dopo l’eccidio alla Banca dell’Agricoltura, il presidente Giovanni Leone (eletto grazie ai voti del Msi) firma lo stato di emergenza mentre il primo ministro Mariano Rumor si rifiuta di farlo e per questo subirà un’intimidazione sotto forma di bomba a mano di fattura israeliana. A lanciarla, il 17 maggio 1973 davanti alla questura di Milano, è un uomo dei servizi segreti infiltrato prima nel Pci poi tra gli anarchici.

L’ipotesi dello stato di emergenza era sostenuta da un’importante componente della borghesia italiana: Agnelli, padrone della Fiat, spingeva per un’alleanza tra il Msi e il Partito Socialdemocratico che sosteneva la proposta emergenziale. Soprattutto tra il 1969 (secondo anno della grande mobilitazione studentesca e dell’autunno caldo delle lotte operaie) e il 1974 (anno della strage di piazza della Loggia e dell’attuazione del compromesso storico) i fascisti ricevono generosissimi finanziamenti da grandi imprese (Fiat, Eni, Montedison), dagli Usa (il Msi è il partito più “filo-atlantico”) e dai grandi monopoli petroliferi (le “Sette Sorelle”).

La “strategia della tensione” non era dunque un complotto di “apparati deviati” ma la forma contingente del ruolo repressivo proprio dello Stato, in ogni epoca l’istituzione coercitiva al servizio della classe dominante.

 

La lotta di classe a Brescia

Nei primi anni ’70 il movimento operaio bresciano lottava non solo per rivendicazioni salariali, ma cominciava anche un’elaborazione avanzata su temi come la difesa della salute in fabbrica, la conquista di spazi di partecipazione più ampi e la richiesta di interventi pubblici sui temi della casa e dei servizi sociali essenziali. Questo nonostante (o forse proprio per) la particolare spietatezza del padronato locale, che arrivava in centri produttivi come Lumezzane, Nave e Odolo a non rispettare nemmeno i diritti sindacali minimi. Orari di lavoro che superavano le 12 ore giornaliere, assenza di buste paga e di tutele per gli infortuni, arbitrarietà della retribuzione, impossibilità di tenere assemblee sindacali e di scioperare e licenziamenti arbitrari per motivi politici o per incidenti sul lavoro erano all’ordine del giorno.

Sdegnati dalla riscossa operaia di fine anni ’60, i padroni bresciani rispondono con ferocia non concedendo trattative e assumendo come spie in fabbrica elementi fascisti (famoso il caso del terrorista di Avanguardia Nazionale, Kim Borromeo, assunto da Pasotti all’Idra e poi cacciato dagli operai). Fuori dalle fabbriche e dalle scuole, i fascisti servono invece ad aggredire i picchetti e i singoli militanti della sinistra.

 

Prima della strage

Il 13 maggio 1974 la vittoria del no al referendum che proponeva l’abrogazione del divorzio segna una svolta a sinistra della società italiana e una sconfitta per le speranze reazionarie. A Brescia il no raccoglie il 62%.

Mai come nei mesi che precedono la strage di Brescia si susseguono episodi di violenza fascista.

Nel dicembre 1972 uno studente di Lotta Continua è ferito a colpi di arma da fuoco in pieno centro città. Nel febbraio 1973 il già citato Kim Borromeo guida un gruppo di fascisti bombaroli che attentano alla federazione provinciale del Psi in Largo Torrelunga. Il 9 marzo 1974, sempre Borromeo viene fermato insieme ad un complice e sulla loro auto vengono trovate ingenti quantità di tritolo e di banconote. Tra marzo e maggio 1974 l’organizzazione terroristica Ordine Nuovo (fondata negli anni ’50 da Pino Rauti – nel 1974 già in Parlamento – e da Clemente Graziani) compie 12 attentati in giro per l’Italia. Nella notte tra il 18 e il 19 maggio il fascista Silvio Ferrari salta per aria sulla sua vespa in piazza del Mercato mentre trasporta un ordigno al tritolo. Il 21 maggio il fascista Ermanno Buzzi (che sarà incarcerato come colpevole della strage e “giustiziato” in prigione da altri fascisti) manda una lettera anonima al Giornale di Brescia (non pubblicata su ordine della Questura e della Prefettura) in cui annuncia un attentato contro le forze dell’ordine entro la fine del mese.

È proprio in risposta a queste provocazioni che viene convocata in piazza della Loggia una manifestazione antifascista.

 

Dopo la strage

Nei momenti drammatici che seguono l’esplosione della bomba, gli operai e gli studenti del servizio d’ordine organizzano i soccorsi e formano i cordoni per agevolare il passaggio delle ambulanze che andavano avanti e indietro tra piazza della Loggia e gli ospedali.

Mentre il capo dello Stato Giovanni Leone parla degli assassini come di “minoranze estremistiche” per nasconderne la natura fascista e la copertura di Stato, la risposta degli operai e degli studenti è immediata: fabbriche e scuole vengono occupate, non solo a Brescia ma anche in Lombardia e nel resto d’Italia. La sera stessa del 28 maggio viene convocato dalla sinistra rivoluzionaria un corteo antifascista a Milano e raccoglie 20.000 persone che manifestano fino a piazza San Babila, la “base” delle squadracce fasciste. Nei giorni seguenti cortei di centinaia di migliaia di antifascisti si svolgono in tutte le principali città italiane.

Le assemblee nelle fabbriche vedono votati all’unanimità ordini del giorno che condannano mandanti ed esecutori del disegno antidemocratico e l’operato delle forze dell’ordine che dopo la strage perquisiscono le case di militanti comunisti, chiedono la messa fuorilegge del Msi e avviano sottoscrizioni straordinarie in sostegno alle famiglie colpite dalla strage.

Nelle assemblee scolastiche, che vedono protagonisti gli studenti ma anche molti insegnanti, e in quelle di piazza si riporta quanto ascoltato in quelle di fabbrica. Dalle caserme arrivano delegazioni di soldati che portano solidarietà e sostegno economico raccolto tramite collette. Scendono in piazza i ferrovieri, ma anche gli artigiani. A dispetto del terrorismo fascista che voleva creare paura e confusione nel movimento operaio, le avanguardie dei lavoratori arrivano a presidiare tutta la città. Mentre in costose ville sul lago di Garda gruppi di fascisti si ritrovano a brindare alla strage, nei luoghi di lavoro e nelle piazze il proletariato è unito e cosciente.

Il 31 maggio i funerali delle vittime della strage sono la più grande manifestazione antifascista svoltasi a Brescia. Mezzo milione di persone occupa tutte le piazze e le strade. Lo slogan più gridato è “Msi fuorilegge, a morte la Dc che lo protegge” e Rumor e Leone sono costretti a scendere dal palco, sommersi dai fischi.

Quei giorni rappresentarono uno dei picchi della presa di coscienza da parte della cittadinanza bresciana: in una città storicamente democristiana (e ancora oggi tale) l’onda emotiva seguita alla strage determinò una vastissima mobilitazione e una profonda comprensione della natura del fascismo e dello Stato.

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