Pubblichiamo di seguito la traduzione di un approfondimento di Juan Dal Maso, autore di opere sul pensiero marxista e militante del PTS argentino, sul pensiero di Isaak Rubin e sul feticismo della merce, con una premessa del traduttore.

I Saggi sulla teoria del valore di Isaak Rubin, economista marxista russo del secolo scorso, furono diffusi a livello mondiale solo negli anni ’70, a mezzo secolo dalla loro redazione, tenuti nell’ombra dalla burocrazia sovietica che lo aveva giustiziato nella grande purga del 1937 insieme a molti altri comunisti russi non abbastanza servili e affidabili secondo Stalin e la sua casta burocratica.

L’opera di Rubin si inserì così nel dibattito europeo ed internazionale di (re)interpretazione del pensiero marxiano: tale campo di battaglia ideologica si ritrovava anche nelle discussioni tra gli economisti in merito alla validità della teoria del valore, messa in discussione precedentemente lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale dai paradigmi marginalisti della Scuola Austriaca.
Il problema di fondo consisteva nella risoluzione del dilemma riguardante la corrispondenza tra i prezzi di produzione e il valore incorporato nella merce, totalmente messo in crisi dalle tabelle del terzo libro del Das Kapital (dopo l’inserirsi del fattore dell’uniformità del saggio di profitto settoriale, rompendo l’uniformità di composizione organica presente nel primo libro).
Cosí come in crisi era la sempre più avversata teoria della caduta tendenziale del saggio medio, tacciata di antiscientificità non solo da Böhm-Bawerked i Chicago Boys, bensì anche da intellettuali illustri di formazione marxista quali i fondatori della Scuola del Sovrappiù (Baran e Sweezy) e da Okishio che, vittima del sistema statico-simultaneo del neoricardiano Sraffa e del suo maestro von Bortkiewicz, formulò nel 1961 il suo teorema sull’innovazione tecnica e il saggio di profitto del capitale.
Tale opera di destrutturazione ed autoconsunzione della teoria del valore-lavoro avviata dagli stessi intellettuali di ispirazione marxista subí un deciso arresto con la pubblicazione dell’opera di Rubin il quale, al fine di contrastare l’offensiva teorica delle scuole economiche avverse del suo tempo, riaffermò le categorie dell’alienazione e del feticismo nell’analisi economica marxiana (instaurando i loro aspetti  qualitativi sulla categoria quantitativa del valore) e, così facendo, creava i presupposti per una critica strutturale alle speculazioni avverse in campo economico comprese, anche su un terreno ideologico più ampio, le “teorie” anti-socialiste staliniane.


Isaak Il’ijč Rubin (1886-1937) fu un notevole economista e studioso dell’opera di Marx.
Prima della rivoluzione russa militò nella frazione menscevica del Partito Operaio Socialdemocratico Eusso. Nel 1926 divenne uno studioso dell’istituto Marx-Engels, retto da David Riazanov. Nel 1930 fu detenuto e accusato falsamente di un complotto atto a riorganizzare un nucleo di menscevichi. Venne liberato nel 1934 ed inviato nel Kazakistan in una specie di esilio interno. Nel 1937 fu arrestato durante la Grande Purga stalinista e venne giustiziato all’incirca il 25 novembre 1937.

La sua opera più nota sono i “Saggi sulla teoria marxista del valore” (1928) che diedero una serie di apporti fondamentali per la riflessione critica sulle idee di Marx, in specie Il Capitale.

Metteremo a fuoco in questa occasione sulla sua lettura della questione del feticismo della merce, il suo ruolo nello sviluppo della comprensione marxista del capitalismo e la sua rilevanza teorica per comprendere gli argomenti ed il metodo dialettico di Marx.

Rubin contraddiceva quei critici di Marx (Tugan-Baranovskj e altri) che avevano interpretato l’esposizione di Marx sul feticismo della merce come una digressione puramente filosofica senza correlazione con la critica dell’economia politica. Invece Rubin sosteneva che la questione era la chiave per capire il capitalismo, in quanto questa fosse “una teoria generale delle relazioni di produzione dell’economia mercantile”.

Prima di trattare le argomentazioni di Rubin, vediamo in che modo Marx definiva il feticismo della merce nel suo noto passaggio del Il Capitale:

L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l’oggetto esterno, su un’altra cosa, l’occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.

Rubin segnalava che il feticismo della merce non era un’illusione ideologica, ma anzi il risultato di un processo sociale. Le sue basi oggettive erano date dal fatto che nel caratterizzarsi della società capitalista moderna per la sua organizzazione sociale in funzione dello scambio economico, i produttori si comportavano indipendentemente dalla società come se le merci fossero un qualcosa a sé. La merce quindi diventa un medium, per le relazioni umane, e assume un valore a parte. È proprio questa dualità nella natura degli oggetti che è la chiave per la critica economica di Marx.

Rubin sottolineava che nella società capitalista si ha un processo di mercificazione delle relazioni di produzione tra le persone e la personificazione delle cose. Questo significa che la natura sociale del lavoro si materializza nella merce che a sua volta fa con il suo possessore, che si immedesima in questa (ad esempio il capitale) e stabilisce a partire da queste cose (parlando sempre di merce di scambio) intraprendono determinati rapporti con l’esterno. Una volta che questo processo si diffonde a macchia d’olio, la merce tende a mantenere un suo valore assoluto anche quando lo scambio si interrompa per un qualche motivo. Da ciò nasce il feticismo del considerare che le cose “abbiano un valore” come caratteristica propria.

Rubin sosteneva che a districare il problema del feticismo, Marx a sua volta stabilì un’altra relazione tra le categorie sociali e la loro funzione. Ciò significa che analizzando le categorie sociali nei loro vari livelli di complessità, Marx espose una serie di forme che esprimevano le relazioni sociali a seconda degli oggetti.
Per esempio, il denaro che assolve la funzione di vincolare in maniera diretta il capitalista con gli operai, ha la forma di “capitale variabile”, mentre quelli che li vincola in maniera
indiretta con i mezzi di produzione è il “capitale costante”. I concetti basici dell’economia politica esplicitano le relazioni di produzione tra le persone, che sono mediate dalle cose,
che per questo compiono una funzione sociale e acquisiscono per tanto una forma sociale.
Per questo per Rubin la teoria di Marx analizzava una serie di forme economiche che rispondevano ad una serie di “relazioni di produzione di complessità crescente tra le persone”, incluse quelle più complicate come “la forma del valore” e la “forma del denaro”. In questo trattamento delle forme, risiede secondo Rubin la formulazione metodologica totalmente innovativa dei problemi economici secondo Marx. Rubin non si riferiva al trattare le forme come tali (questione già presente in Schiller, Hegel, nel romanticismo ed idealismo tedesco) bensì al trattamento delle forme economiche in relazione con le loro determinazioni sociologiche.

In questo contesto, Rubin (così come Antonio Labriola) caratterizzava il metodo dialettico di Marx come un metodo “genetico”. Questo metodo genetico (o dialettico) che contiene analisi e sintesi, fu contrapposto da Marx al metodo analitico unilaterale degli economisti classici. Il carattere unico del suo metodo non consiste solo nel suo carattere storico, ma anche nel suo carattere sociologico, nella intensa attenzione che dà alle forme sociali dell’economia.
Partendo da queste come date, gli economisti classici trattarono di ridurre le complesse forme sociali a quelle più semplici mediante l’analisi, con il fine di scoprire per ultimo la sua base o contenuto tecnico-materiale. Marx, in cambio, partendo da una condizione data dal processo materiale della produzione, di un livello determinato dalle forze produttive, cercò di spiegare l’origine ed il carattere delle forme sociali che assume il materiale di produzione.

La lettura di Rubin permette di approssimarsi alla dialettica marxista in un modo diverso dai modi più usuali (spiegazione delle leggi dialettiche) nello scegliere come centro della sua riflessione la problematica del feticismo della merce e la sua relazione con le caratteristiche specifiche delle relazioni sociali concrete tra soggetti (gli esseri umani che si relazionano in funzione della produzione e riproduzione della merce) tra soggetti e oggetti (le “cose” prodotte con il fine di essere comprate e vendute sul mercato) e tra piani di realtà che sono riprodotti concettualmente (categorie economiche e forme sociali). Di questo modo, le classiche questioni dialettiche della relazione di interdipendenza tra essenza e apparenza e forma e contenuto, che solitamente si espongono in modo astratto, sono riformulate in maniera originale a partire da una rilettura metodologica di Marx.

Questa proposta di lettura di Rubin rappresenta un importante contributo per la comprensione della dialettica come un pensiero del concreto.

 

Juan Dal Maso

Traduzione di Elia Pupil da La Izquierda Diario

Nato a Buenos Aires nel 1977, vive a Neuquén. Membro del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) dal 1997, è autore di "Il marxismo di Gramsci. Note sui quaderni del Carcere" (pubblicato in spagnolo, portoghese e italiano) e "Hegemonía y lucha de clases. Tres ensayos sobre Trotsky, Gramsci y marxismo" (Ediciones IPS, 2018), oltre a vari articoli su temi della teoria marxista.