SCHIAFFO AL PROTEZIONISMO, FUGA VERSO ORIENTE

La General Motors, primo costruttore automobilistico degli Stati Uniti, ha presentato lo scorso 26 novembre il nuovo piano industriale per il 2019 che comporterà il taglio di 14.700 posti di lavoro, pari al 15% dell’intera forza lavoro nel Nord America: chiuderanno gli impianti di Warren e Detroit nel Michigan (qui ha sede il quartier generale dell’azienda) di Lordstown nello stato dell’Ohio (roccaforte storica della destra americana in cui, nelle recenti elezioni suppletive per il Senato, il candidato di Trump ha vinto per pochissimi voti) e di White Marsh nella Contea di Baltimora; più lo stabilimento di Oshawa in Canada, quest’ultima soprannominata “Canada’s Motor City” per la tradizione storica che lega questa realtà all’industria automobilistica e alla General Motors in particolare.
In un nota (1) l’azienda informa che “Oltre alla già annunciata chiusura dell’impianto di Gunsan, in Corea del Sud, GM cesserà le operazioni in altri due impianti fuori dal Nord America entro la fine del 2019”, pertanto nel giro di un anno si concretizzerebbe la stretta in ben sette stabilimenti.
Attraverso queste scelte la compagnia americana auspica il recupero di 6 miliardi di dollari entro la fine del 2020; 5 arriverebbero dal taglio dei costi ed 1 dalla riduzione degli investimenti, quel miliardo verrebbe reinvestito per lo sviluppo delle auto elettriche e quelle a guida autonoma.
Secondo l’amministratore delegato di GM Mary Barra (2) “Le misure intraprese consentiranno di portare avanti la nostra trasformazione per essere più agili, resilienti e redditizi. Dobbiamo anticipare i cambiamenti del mercato e i gusti dei consumatori, in modo che la nostra azienda resti ben posizionata sul mercato e continui ad aver successo sul lungo termine”. Il piano di ristrutturazione appare per Barra come una necessità ineluttabile “Abbiamo ragione nel dimensionare le nostre capacità sia per le esigenze del mercato che per ciò che vediamo negli Stati Uniti e nel mercato globale. Questo per assicurarsi che GM sia snella e pronta a guidare il mondo nelle auto che i nostri desiderano e nel futuro della mobilità”.

Scontata la reazione quasi rabbiosa del presidente Donald Trump che minaccia il taglio degli aiuti a GM, compresi quelli per le auto elettriche, e nuovi dazi sulle auto prodotte all’estero; va ricordato che le fabbriche destinate alla chiusura sono situate in Stati decisivi per la vittoria del tycoon nel 2016, lì ha fatto maggiormente presa l’ormai celebre slogan “America First” e pochi mesi fa, attraverso un tweet (3) Trump annunciava “Sono in arrivo grandi novità per i grandiosi operai dell’auto americani. Dopo molti decenni in cui avete perduto il vostro lavoro, finito in altri paesi, non dovrete più aspettare!”.
Con ogni probabilità il presidente americano si riferiva all’avvio delle trattative per la riforma del NAFTA* e in particolare ai benefici dei quali avrebbero dovuto giovare i lavoratori; l’accordo è stato poi siglato ufficialmente il primo ottobre e rinominato USMCA*, accordo che nello specifico rende più strette
le regole d’origine riguardanti le auto, per incentivare l’uso di componenti nordamericani, impone un salario minimo per il settore di 16 dollari l’ora, come deterrente per le imprese che vogliono delocalizzare in Messico, e facilita l’imposizione di misure protezionistiche per ragioni di sicurezza nazionale.
Quest’ulteriore inasprimento del protezionismo locale evidenzia delle criticità, l’aumento dei prezzi di materie prime come alluminio e acciaio su tutti; per l’
Economist (4) “Mentre aumentano i costi per la produzione, le case automobilistiche di tutti e tre i paesi troveranno più difficile competere con quelle asiatiche ed europee. Quando, per esempio, le case automobilistiche messicane perderanno quote di mercato, anche i produttori di ricambi americani, che contribuiscono per oltre un quarto del contenuto dei veicoli messicani, ne soffriranno”.
Chiaramente non si tratta solo di una questione di costi, la GM sta investendo ingenti capitali da almeno dieci anni nel mercato cinese e allo stato attuale delle cose è quello a crescita maggiore. Perciò dietro il rifiuto del re-shoring – il ritorno delle fabbriche negli States “ordinato” da Trump – da parte dell’amministratore delegato Barra c’è una strategia, una rotta tracciata che porta la società a produrre il più vicino possibile ai consumatori.

ALLE RADICI DEL DECLINO

Ad ogni modo tra l’incudine e il martello c’è il destino di migliaia di lavoratori, sacrificati in ogni epoca a prescindere dalla dottrina, protezionismo o liberalismo democratico che sia.
Nell’economia degli Stati Uniti, per i tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale la crescita dei salari corrispondeva al tasso di cambiamento della produttività. L’aumento combinato della produttività e del potere d’acquisto ha alimentato un notevole periodo di crescita economica. Tuttavia, verso la metà degli anni ’70, il tasso di cambiamento dei salari aveva cominciato a diventare piatto a fronte di profitti in costante crescita; si consideri inoltre che GM (così come gli altri due colossi Chrysler e Ford) faceva la stragrande maggioranza del suo fatturato nel nord America.
Le crisi petrolifere di quel decennio – sintomo di una più generale crisi della profittabilità dopo i 30 anni di espansione post-bellica – costrinsero le case automobilistiche mondiali a rivedere le proprie strategie e ad eccezione di quelle americane e della FIAT, le altre concentrarono integralmente la produzione sulle autovetture.
GM aveva puntato sulla diversificazione e dall’inizio degli anni ’80 si susseguirono numerose ristrutturazioni e acquisizioni discutibili, al contempo il Giappone invadeva il mercato americano con auto di migliore qualità e dai più bassi consumi.
Mentre nell’84 avviava una join venture con Toyota, la GM procedeva con decisione alla chiusura di numerosi impianti tagliando decine di migliaia di posti di lavoro poiché i manager non hanno mai voluto pianificare una strategia di lungo periodo, prediligendo i guadagni a breve termine.
Nel suo film d’esordio Roger & Me (1989) il regista Michael Moore documenta gli effetti catastrofici dei licenziamenti di massa nella sua città natale, Flint nel Michigan, in quella che era la sede storica di General Motors: chiudono i ristoranti e i negozi cittadini che dipendevano dallo stipendio degli operai, e molti di questi ultimi non riescono più a pagare l’ affitto; sfrattati dallo sceriffo, restano senzatetto in poche ore.
Ma i tentativi di rendere la compagnia più competitiva si rivelarono inutili: nel 1990 GM perse due miliardi di dollari, l’anno successivo oltre 4,5, all’epoca un record per una società statunitense. (5)

I primi “sussulti” dei lavoratori si registrarono con lo sciopero iniziato il 5 giugno 1998, proprio a Flint, dove la United Automobile Workers (primo sindacato del settore) sosteneva che l’azienda aveva rotto un impegno preso tre anni prima, nel quale avrebbe dovuto investire 300 milioni di dollari per aggiornare la struttura; una settimana dopo, 5.800 operai uscirono da un impianto di ricambi Delphi, sempre a Flint, esponendo le loro preoccupazioni sull’esternalizzazione della manodopera GM alle fabbriche non sindacali del Nord America e all’estero.
Uno sciopero che si diffuse rapidamente ad altri cinque impianti di assemblaggio e venne portato avanti per sette settimane, blocco delle operazioni che costò all’azienda oltre 2 miliardi di dollari.
Annunciato il 29 luglio, l’accordo per la conclusione dello sciopero includeva concessioni per entrambe le parti: GM promise di non chiudere le fabbriche e di investire 180 milioni di dollari in nuove attrezzature per ciascuna di esse, mentre i lavoratori accettarono di rinegoziare i piani di lavoro, compreso un aumento del 15% della produzione giornaliera richiesta per parte dei lavoratori.
Gli sforzi dell’azienda erano ormai concentrati su un business opposto a quel del mercato automobilistico, lo conferma l’acquisizione della Ditech (compagnia specializzata in ipoteche a basso costo) da parte della GMAC il ramo finanziario della General Motors, in altri termini l’azienda s’infilava nella peggiore bolla speculativa della storia a scapito della produzione.
Tra il 2001 e il 2006 aumenta in modo sensazionale l’elargizione di prestiti ipotecari, nonostante la situazione stagnante dei salari le famiglie americane sono incoraggiate ad accendere mutui e la prima casa diviene il garante del debito.
GMAC passò dai finanziamenti degli acquisti delle auto e dei concessionari a quello dei famigerati mutui subprime e nel 2004 l’80% dei profitti della General Motors provenivano proprio da quella fonte. (6)

IL SINDACATO GETTA LA MASCHERA

Nel mezzo di queste manovre vennero annunciati, nel 2005, 30.000 licenziamenti e maggiori contributi dei dipendenti al fondo pensioni; per iniziativa degli operai più coscienti venne lanciata una campagna di lotta di base, il cui scopo era quello di impegnare e preparare i lavoratori per resistere agli attacchi padronali sia nell’industria automobilistica che negli altri settori metalmeccanici.
A compimento della campagna si formò un comitato nel dicembre dello stesso anno, Soldiers of Solidarity, che organizzò numerosi incontri consentendo ai lavoratori di sollevare problemi, promuovere azioni imminenti e fornire aggiornamenti generali.
Questi incontri permettevano un contatto faccia a faccia ed erano esenti da funzionari, sebbene ci fossero sempre inviti permanenti ai leader dell’UAW per venire a partecipare “alla pari”.

Due anni più tardi il fallimento delle trattative fra azienda e sindacato porterà ad uno sciopero capace di coinvolgere 73.000 lavoratori, contro i nuovi tagli da apportare ai piani pensionistici e sanitari, oltre che ai salari stessi.
Proprio il sindacato si renderà protagonista di una condotta vergognosa, fin da subito il leader dello UAW Ron Gettelfinger (7) si espresse in questi termini “E’ assolutamente necessario tornare già nella giornata di oggi al tavolo delle trattative. Nessun singolo membro dello staff voleva lo sciopero, intendiamo concludere le trattative con GM”.
Sarà l’operaio Gregg Shotwell, portavoce di Soldiers of Solidarity e membro dissidente UAW, a pubblicare in rete i dettagli dell’accordo: Il contratto fra General Motors Corp. e United Auto Workers consente a GM di chiudere un impianto a Livonia (periferia di Detroit, Michigan) e nell’Indiana, anche un impianto di stampaggio a Flint e una piccola catena di trasmissione a Parma, nell’Ohio, vicino a Cleveland, rischiano; per l’impianto di Flint, sotto il titolo “Opportunità di prodotto”, il documento dice solo che UAW e GM esploreranno le opportunità per gli attuali dipendenti.(8)
In sostanza uno degli scioperi più partecipati di sempre ebbe come epilogo un accordo bidone, al proposito sempre Shotwell scriverà un libro
Autoworkers Under the Gun: A Shop-Floor View of the End of the American Dream nel quale denuncia l’opportunismo dilagante del mondo sindacale, del supporto alla competizione fra lavoratori e della sintonia quasi sfacciata fra leader sindacali e capi.

RECESSIONE, FALLIMENTO E SALVATAGGIO

Il 2007 è anche l’anno in cui la crisi dei mutui subprime produce l’effetto a catena che porterà alla Grande Recessione, tra le più gravi crisi capitalistiche di sempre; GM registrerà perdite per 38 miliardi di dollari (nessuna società o istituto bancario riuscì a far peggio) un dato che rende l’idea del peso di certe decisioni scriteriate.
Per qualche anno la GMAC* era riuscita a mantenere a galla l’intera compagnia ma l’imminente collasso generale portava giocoforza ai titoli di coda.
La General Motors Corp. dichiara ufficialmente bancarotta il primo giugno 2009, verrà messa sotto protezione del Chapter 11 – norma di legge sui fallimenti – con oltre 170 miliardi di debiti.
Il governo assume la guida della compagnia, nazionalizzata per il periodo del salvataggio; il neo-eletto presidente Barack Obama, nonostante la massiccia partecipazione statale, assicura che l’azienda sarà guidata da manager privati ma a prescindere dalle dichiarazioni di circostanza il risanamento prevede l’ennesimo stillicidio operaio: decine di migliaia di posti soppressi negli Stati Uniti e altrove nel mondo, tredici stabilimenti chiudono i battenti, soprattutto negli stati della cosiddetta
rust belt (Michigan, Illinois, Ohio).
Chi rimane dovrà fare i conti con enormi tagli salariali, soprattutto quelli rappresentati dallo UAW. Gli stipendi dei neo-assunti sono congelati a 14 dollari all’ora – poco al di sopra della soglia di povertà di una famiglia di quattro persone – per i prossimi sei anni. I pensionati hanno perso la copertura oculistica e dentistica.

Per il prossimo contratto, che durerà dal 2011 al 2016, lo UAW ha acconsentito che un arbitro imponga “salari competitivi”. Secondo i termini del prestito del Tesoro statunitense a GM, ai lavoratori è vietato lo sciopero. (9)
Nel novembre 2010 la General Motors viene riquotata in borsa e denazionalizzata, ironia della sorte acquisisce la AmeriCredit – specializzata in prestiti subprime – chiudendo l’anno con utili per 4,7 miliardi (il primo bilancio in attivo dal 2004) destinati a raddoppiare nel 2011, quasi 8 miliardi di dollari. Profitti che crescono sulla pelle dei lavoratori, i primi a pagare la prossima tempestiva debacle aziendale.

LA SITUAZIONE DELLA GM PARLA AI LAVORATORI FCA

Gli sconvolgimenti interni alla casa automobilistica americana sono la rappresentazione più esplicita dell’intero sistema capitalista, si può dire che quest’ultimo abbia fatto tesoro delle più raffinate tecniche di sfruttamento studiate e applicate da larga parte dell’industria dell’auto: la lean production prima ed ora il wmc* fungono da grimaldello per ridurre le pause, allungare gli orari di lavoro e abbassare ulteriormente i salari, ai quali occorre aggiungere il ricorso massiccio al subappalto ed all’esternalizzazione.
Nel ’79 la GM contava oltre 618mila dipendenti soltanto negli Stati Uniti, con l’occupazione globale arrivava a 853mila, oggi tocca complessivamente le 180mila unità; le esigenze accumulative tendono ad espellere forza lavoro in maniera strutturale, senza soluzione di continuità, lo stesso vale per la socializzazione delle perdite poichè Washington ha ceduto l’ultimo pacchetto azionario con un passivo di ben 10 miliardi di dollari.
Ciò è potuto avvenire grazie alla gentile collaborazione dello UAW, recentemente travolto dagli scandali che coinvolgono molti suoi alti funzionari e associati, corrotti dalla FCA (10) ed è difficile escludere che simile prassi non sia stata portata avanti in altre occasioni dati i pessimi contratti siglati, fatti votare ai lavoratori sotto il ricatto del licenziamento; un sindacato corporativo capace di vendersi al miglior offerente composto da novelli kapò della classe operaia.
Le lotte degli insegnanti del West Virginia così come quelle dei lavoratori degli hotel Marriott (supportati dai drivers di UPS che rifiutano di consegnare) devono incoraggiare all’autorganizzazione, perché quelle lotte sono la conferma che la forza degli sfruttati può far arretrare la borghesia, può strappare dei risultati parziali ma estremamente significativi.

Vale ancor di più per i lavoratori del settore automobilistico dal momento che la strategia di GM verrà presto emulata dagli altri grandi gruppi come ad esempio la “nostra” FCA, che presentando il nuovo piano industriale votato alla green economy (modelli ibridi ed elettrici) lascia intravedere l’estensione della cassa integrazione – già annunciata per 3.000 operai a Mirafiori – e nuovi tagli occupazionali, confermati dal fatto che per un’auto elettrica serve meno tempo, meno ore di lavoro rispetto ai modelli attuali. Non è chiaro, poi, quali saranno i volumi di mercato di modelli come quelli elettrici, in assenza delle necessarie infrastrutture pubbliche.
Senza dimenticare la scadenza degli ammortizzatori sociali a Pomigliano e Nola, non convergenti al nuovo piano; inoltre nel resto degli stabilimenti italiani permarranno i marchi di lusso, su tutte Maserati e Jeep, a danno delle utilitarie, scelta che non garantisce affatto l’occupazione considerato il fermento del mercato globale tra innovazione e dazi.
Pertanto è nell’interesse degli operai respingere il veleno nazionalista propagandato dalla classe dirigente politica e dai sindacati filo-padronali al fine di sostenere una mobilitazione collettiva, stabilimento per stabilimento, una causa comune priva di barriere nella miglior tradizione internazionalista.

 

Roger Savadogo

 

NOTE:

*North American Free Trade Agreement – trattato di libero scambio commerciale stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico
*United States – Mexico – Canada Agreement – rinnovo partnership fra le tre nazioni
*Trasformata in holding bancaria nel 2010 e rinominata Ally Financial
*world class manifacturing – programma per ottimizzare i tempi lavorativi

(1)https://media.gm.com/media/us/en/gm/home.detail.html/content/Pages/news/us/en/2018/nov/1126-gm.html

(2) https://eu.freep.com/story/money/cars/general-motors/2018/11/26/ontario-plant-closure/2112539002/

(3) https://mobile.twitter.com/realDonaldTrump/status/999278498182258688?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed&ref_url=https%3A%2F%2Fd-4298434642911698917.ampproject.net%2F1811202351440%2Fframe.html

(4) https://www.economist.com/leaders/2018/10/04/the-renegotiation-of-nafta-is-a-relief-but-it-is-not-a-success

(5) J.N. Sheth,  I vizi capitali delle aziende. Comportamenti autodistruttivi nelle aziende di successo, Pearson, London, 2007

(6) Ha-Joon Chang, 23 cose che non ti hanno detto sul capitalismo, Il Saggiatore, Milano, 2012


(7) http://www.repubblica.it/2007/09/motori/motori-settembre-2007/maxi-sciopero-gm/maxi-sciopero-gm.html

(8) https://www.foxnews.com/story/uaw-agreement-may-shut-down-2-gm-plants

(9) https://www.workers.org/2009/us/gm_0723/

(10) https://www.wsws.org/en/articles/2018/08/22/pers-a22.html

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.