Appunti su femminismo, intersezionalità, identity politics a partire dal panel “Femminismo e intersezionalità” tenutosi alla scuola estiva europea della Frazione Trotskista, lo scorso luglio in Francia.


Le imponenti manifestazioni, nate su stimolo della nuova ondata femminista a livello internazionale, costringono ad una serie di riflessioni sul concetto di oppressione e sulla rappresentazione che la struttura socio-economica ne offre; in tal senso, la domanda che ci si pone è la seguente: il capitalismo è un sistema completamente indifferente alle questioni di genere, etniche, di disparità sociale complessiva, oppure vi è una tendenza a recuperare e cooptare i possibili ambiti di lotta per annullare le ambizioni di una fetta di esclusi potenzialmente rivoluzionari?

Ancora: da un punto di vista internazionalista e rivoluzionario è possibile analizzare la realtà contemporanea senza considerare fattori determinanti quali la femminilizzazione e razzializzazione della classe operaia globale e le specificità nella sua composizione locale con autoctoni e stranieri?

Questa discussione è da sempre banalizzata dalle correnti della sinistra istituzionale sia in Europa che negli Stati Uniti, con due schieramenti divisi tra sostenitori e detrattori di quella che viene chiamata “identity politics”.

L’impostazione ideologica di entrambi i gruppi è totalmente integrata nelle logiche dei rapporti sociali esistenti: da un lato, quello presuntamente progressista, si eleva ad emancipazione l’ascesa sociale di un singolo individuo, originariamente parte della categoria degli oppressi, alla cerchia ristretta dei dominanti, specialmente se inserito nelle leve del potere politico – in questo senso è stata fatta un’icona dell’ex Presidente USA Barack Obama, di madre bianca americana e di padre immigrato keniota nero ; sull’altro versante si attaccano invece tutte le vertenze contro la discriminazione dei settori della classe operaia composti da immigrati, donne e da tutti coloro che ,oltre all’oppressione di classe, sono gravati dalle discriminazioni accettate e incentivate dalle istituzioni borghesi, poiché considerate “radical chic” o complotti vari.

In questo caso si assiste al fenomeno di una parte della classe dirigente della “sinistra” riciclatasi su un terreno sovranista, prima appannaggio della sola estrema destra, a cui si accoda sui temi della chiusura dei confini, della “sicurezza”, sull’antifemminismo violento e sui vari piagnistei per il recupero della sovranità nazionale.

Il concetto di intersezionalità viene impiegato nel 1989 da Kimberlé Crenshaw contro questa dicotomia di pensiero, per spiegare come un’identità sociale potesse essere oggetto di più forme di oppressione a seconda delle sue caratteristiche in rapporto alla realtà in cui è collocata: già nella seconda metà degli anni ‘70 il River Collective, un collettivo di femministe afroamericane lesbiche, denunciava nel suo manifesto la “trinità oppressiva” costituita da classe, razza e genere, la quale si regge anche sul femminismo bianco e sull’istituzionalizzazione di quello nero.

La polemica è qui sia rivolta contro il femminismo bianco e borghese, che rifiuta la questione di classe e pone sullo stesso piano la lavoratrice nera ghettizzata e la First Lady di turno, nella quale vede un modello sociale, sia contro la tendenza separatista, con la quale si vuole dividere in due campi netti il genere maschile e femminile, trasformando la giusta lotta contro l’oppressione di genere in una guerra fra sessi tanto sostenuta dalle correnti più reazionarie.

Alla denuncia verso le pratiche di frazionamento e scontro fra categorie di oppressi nella stessa classe, il River Collective associa un’incessante battaglia contro le tendenze machiste nelle organizzazioni di estrema sinistra e nei movimenti di liberazione anticoloniali, configurandosi come femminismo socialista.

In questa prospettiva il termine “identity politics”, che compare qui nella sua forma originale, designa l’attenzione per una particolare forma di oppressione, la quale non necessariamente riguarda tutto l’insieme della classe operaia, ed è tuttavia pilastro fondante della struttura economica e sociale.

Con l’inizio della successiva offensiva neoliberale degli anni ‘80 e il generale declino della partecipazione di massa ai movimenti di liberazione si afferma una tendenza individualista anche nel movimento femminile: la politica delle identità sociali si trasforma pertanto in politica dell’individuo e lo stesso impatto delle azioni collettive diminuisce.

L’ideologia del “privilegio individuale” si fa strada nel dibattito come forma di eradicazione delle ingiustizie del mondo e, contrapponendosi al femminismo radicale degli anni ‘70, non dichiara certamente di voler distruggere la fonte di tutte le oppressioni, cioè il modo di produzione capitalistico, bensì di voler vedere riconosciute giuridicamente le categorie oppresse, le quali sarebbero da sottoporre alla protezione dell’apparato statale.

Il movimento femminista perde notevolmente di radicalità in questa fase, diventando strumento dello Stato da cui era precedentemente perseguitato e oggetto delle campagne di marketing delle multinazionali, che iniziano il processo di vendita sul “mercato delle idee”, oggi particolarmente criticato.

L’obbiettivo degli sforzi dello Stato e delle corporation è impedire che la questione dell’anticapitalismo venga messa in primo piano per creare un’analisi strutturale delle forme di oppressione e sviluppare una strategia conseguente di abbattimento del sistema che le genere.

Con questo subdolo stratagemma, si crea un mercato privilegiato per la borghesia progressista che si nutre del femminismo neoliberale, mentre le multinazionali possono continuare a distruggere ecosistemi, realtà rurali e urbane, e praticare meccanismi di semischiavitù basata sul divario (“dumping”9 salariale, tra una campagna pubblicitaria contro la violenza e l’altra.

I settori privilegiati della società si sforzano continuamente di rappresentare gli oppressi tramite la logica del femminismo individualista e cooptare la legittima indignazione in favore delle politiche imperialiste nazionali, di cui il Partito Democratico statunitense si è fatto campione con Hillary Clinton.

Recentemente il dibattito sulle relazioni di oppressione fra capitalismo, razzismo e patriarcato è stato nuovamente aperto, in virtù della risposta ad una situazione politica internazionale caratterizzata da misure di austerità, accompagnate da continui attacchi alle donne, alle minoranze e alla classe lavoratrice tutta.

Com’è possibile analizzare queste relazioni?

La retorica liberale sul rispetto dei diritti dell’uomo, forgiata nel fuoco della rivoluzione francese, è già stata smascherata da tempo come discorso per la salvaguarda dei diritti del proprietario (già con Marx, nel suo Sulla questione ebraica).

Il razzismo viene creato e si consolida nell’epoca d’oro per i liberali, periodo caratterizzato dall’“accumulazione primitiva” tramite lo sfruttamento coloniale e la rendita fondiaria; il sessismo stesso è una visione ideologica della classe padronale, imposta a tutta la società per massimizzare i profitti e riprodurre le dinamiche economico-sociali nel contesto del “nucleo fondante della società”: la famiglia.

Il lavoro domestico, non retribuito, svolge una funzione fondamentale nella riproduzione del capitale, a partire dalla riproduzione della forza-lavoro.

Tutti questi temi non vengono minimamente affrontati dall’attivismo liberale; al contrario, è il marxismo ad essere oggetto di attacchi da parte di quest’ultimo, in cui si accusa i socialisti di occuparsi soltanto della lotta di classe, dividendo un presunto gruppo sociale unitario di tutte le donne o di tutti gli stranieri in favore degli interessi di “categoria”.

Già in una lettera del 1870 di Marx è tuttavia chiara la necessità di porre l’attenzione sulle questioni di oppressione interne alla stessa classe lavoratrice:

La borghesia inglese ha interessi ancora più notevoli nell’attuale economia irlandese. Attraverso la continua e crescente concentrazione dei contratti di affitto l’Irlanda fornisce il suo sovrappiù al mercato del lavoro inglese e in tal modo comprime i salari, nonché la posizione materiale e morale della classe operaia inglese.

E ora la cosa più importante! In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime il tenore di vita. Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i bianchi poveri verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana. L’irlandese lo ripaga con gli interessi della stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda.

Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo.

Al netto di questa considerazione, il marxismo ha una lunga tradizione di femministe socialiste, da Flora Tristan a Rosa Luxemburg ed Aleksandra Kollontaj, che affermano la centralità oggettiva della donna proletaria nei processi rivoluzionari e la necessità di organizzazione della componente femminile della classe lavoratrice come avanguardia delle lotte contro il capitalismo e le istituzioni tramite cui si riproduce: famiglia, Stato, rapporti sociali.

Alessandro Riva

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