Pubblichiamo un saggio accademico del 2016 di Giacomo Turci, minimamente adattato, che ricostruisce la situazione politica che portò alla terribile strage dei minatori di Marikana nel 2012, in Sudafrica. Una cronaca e un’analisi accompagnate da un succinto riepilogo dello sviluppo coloniale e capitalistico del Sudafrica moderno.

Pubblichiamo contemporaneamente un saggio pubblicato da Pietro Basso in Marikana to the World, Marikana. A Moment in Time, Johannesburg, Geko, pp. 118-14, che esplora più nel dettaglio la fase politica sudafricana e mondiale dalla quale emerse la lotta operaia e la repressione poliziesca di Marikana.


Introduzione

L’attenzione mediatica dell’informazione europea ed in particolare italiana sugli eventi del continente africano si è focalizzata ancor di più sul Maghreb e sul Mashreq a seguito dell’ondata delle ‘primavere arabe’ che ha attraversato quella regione dal 2010. Uno sbilanciamento in qualche modo coerente con l’interazione sociale, culturale, politica più articolata, profonda e di lunga durata fra le due sponde del Mediterraneo, rispetto a quella fra Europa e Africa subsahariana.

Eppure, anche a sud del Sahara si registrano eventi politici, economici, sociali, culturali, militari non meno importanti (e drammatici) di quelli del Nordafrica, ma si affermano più raramente e con più difficoltà nello spazio dell’informazione e del dibattito pubblico.

La strage di Marikana del 16 agosto 2012 (1) è uno di quegli episodi, accaduti nell’Africa subsahariana, che sono riusciti a bucare lo schermo anche negli altri continenti ma, appunto, come episodio, slegato dal contesto sociale, storico della realtà del Sudafrica post-apartheid.

Storicizzare questa vicenda, illustrare sinteticamente la dinamica della lotta dei minatori di Marikana e dell’escalation che portò alla strage di Marikana, collocandole nel quadro storico e politico del Sud Africa, può permettere di leggere coscientemente le contraddizioni odierne della società sudafricana, lontane dall’essere risolte con la fine del regime di apartheid nel 1994.

Il presente elaborato ricostruisce dunque, in estrema sintesi, lo sviluppo economico e politico del Sudafrica moderno, all’interno del quale si è modellata una realtà sociale connotata da un’eccezionale presenza di popolazione bianca in un paese subsahariano, e da uno sviluppo capitalistico intenso e centrato sul settore minerario, collegato a un colonialismo che si potrebbe definire organico, con aspetti originali rispetto alla dinamica complessiva del colonialismo moderno.

Lo studio dei fatti di Marikana, infine, dà elementi significativi contrari alla tesi, condivisa più o meno esplicitamente a sinistra, di un Sudafrica alternativo o ’emancipato’ rispetto agli altri paesi subsahariani oppure alle terribili contraddizioni dell’economia capitalistica odierna.

 

Il colonialismo organico del Sudafrica

Il caso del Sudafrica, all’interno degli Stati odierni subsahariani, presenta una specificità di cui va tenuto conto senza dubbio per studiarne le dinamiche sociali, politiche, economiche. Esso è l’unico Stato subsahariano con una significativa percentuale (circa l’8%) di popolazione bianca, di origine europea (2). La particolare storia coloniale del Sudafrica ha determinato una situazione originale nell’evoluzione delle politiche razziste dei conquistatori europei, per il resto ampiamente applicate e diffuse in tutto il continente tra XIX e XX secolo.

Se il South African Communist Party coniò la definizione di «colonialismo di un tipo speciale» per il Sudafrica (3), si potrebbe parlare di un colonialismo più organico, portato fino in fondo, che non casualmente ha portato il Sudafrica ad essere uno Stato autonomo già un secolo fa (4), non irrilevante sul piano economico, politico, militare, con una sua classe dominante che aveva messo le radici nel paese in un processo durato secoli. Una classe dominante, però, percepita come un corpo estraneo dalla stragrande maggioranza della popolazione, soggiogata, e che d’altronde concepiva ufficialmente, ancora trent’anni fa, le grandi masse sue «concittadine» come un’altra nazione, ad essa sottomessa ed inferiore su tutti i piani, anche quello biologico. Una situazione molto vicina, nella pratica, a quella che Benjamin Disraeli descriveva a proposito della borghesia e del proletariato inglesi del 1845:

Two nations; between whom there is no intercourse and no sympathy; who are as ignorant of each other’s habits, thoughts, and feelings, as if they were dwellers in different zones, or inhabitants of different planets; who are formed by a different breeding, are fed by a different food, are ordered by different manners, and are not governed by the same laws: the rich and the poor. (5)

Una classe dominante bianca sviluppatasi a partire dal 1652, col primo insediamento commerciale al Capo di Buona Speranza della Compagnia olandese delle Indie orientali, e col progressivo affiancamento dei discendenti dei coloni olandesi (detti boeri o afrikaner) da parte dei conquistatori inglesi lungo il diciannovesimo secolo, impostisi saldamente come elité nazionale con le Guerre Boere del 1880-81 e del 1899-1902.

La realtà di una classe dominante esclusivamente (o quasi) bianca durante il periodo coloniale prima e del Sudafrica dell’apartheid poi, non deve portare alla concezione di una divisione ‘monolitica’ tra bianchi e neri: in questo senso gli stessi bianchi sudafricani non potevano e non possono vantare tutti lo stesso ruolo politico, l’appartenenza ad una medesima classe sociale, le stesse condizioni di vita, o anche solo la piena identità sul piano culturale, storico, etnico. La stessa storia della colonizzazione del Sudafrica ha visto, appunto, diverse fazioni contrapposte, con la vittoria politica finale dell’impero britannico, e dei suoi coloni inglesi, sui coloni bianchi dominanti fino a inizio Novecento, sostanzialmente i boeri-afrikaner di origine olandese.

 

Il razzismo economico dell’industria sudafricana

All’interno di tale quadro politico, il Sudafrica moderno, coloniale sviluppò un’economia dove il settore minerario, in particolari di materiali preziosi, come l’oro, i diamanti e il platino, era (ed è) il «cuore del sistema economico» (6):

Il Sudafrica si sviluppa come una società parzialmente industrializzata con profonde divisioni della sua popolazione basate su criteri biologici definiti legalmente. A mano a mano che l’economia si espandeva, essa assorbiva un numero sempre maggiore di lavoratori neri, ma le categorie razziali continuavano a definire la struttura sociale. […] Una società composta da “due nazioni”, caratterizzate l’una dai privilegi riservati ad una minoranza (i bianchi) e l’altra dalla sistematica e violenta segregazione, e le conseguenti privazioni, per la maggioranza (i non bianchi). Il sistema delle due nazioni può essere fatto risalire perlomeno alla seconda metà del XIX secolo quando lo sviluppo del capitalismo razziale in Sudafrica fu accelerato dalla scoperta dei diamanti nel 1867 e dell’oro a partire dal 1886. […] La scoperta di oro e diamanti […] trasformò l’intero territorio sudafricano – e dell’Africa australe più in generale – e mise in moto processi che che avrebbero poi modellato tutta la storia del paese fino ad oggi. L’ingente afflusso di capitale straniero, soprattutto britannico, collocò l’industria mineraria al centro del sistema economico del Sudafrica. […] Le relazioni sociali si sarebbero strutturate per definire in maniera netta la separazione della società, mentre lo sviluppo economico e la modernizzazione sarebbero stati realizzati mediante lo sfruttamento di una forza lavoro africana soggiogata e pagata con bassi salari e che si sarebbe dovuta riprodurre in un sistema di riserve indigene che avrebbe ridotto al minimo, per il capitale, i costi di riproduzione della manodopera stessa. Questo processo ha molti elementi di similitudine con altre colonie africane, soprattutto per l’Africa australe, ma con l’importante differenza che la presenza numericamente ed economicamente rilevante di popolazione bianca ha costituito l’elemento centrale per la strutturazione del contesto politico ed economico del paese. (7)

Un contesto, appunto, dove una borghesia organica di origine coloniale ha diretto un processo di proletarizzazione delle masse non-bianche legato allo sviluppo industriale e in particolare all’espansione del settore minerario: un processo che in Sudafrica è stato precoce e intenso rispetto agli altri Stati africani, e che si è distinto per l’impostazione di un razzismo economico capitalista più evoluto del mero sfruttamento coloniale basato su schiavitù e completa sottomissione delle popolazioni indigene. Un processo però, appunto, capitalista, in evoluzione lungo gli stessi assi di fondo del capitalismo europeo e poi mondiale: «Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX […] si rafforzò un’economia strettamente collegata al settore minerario e all’agricoltura europea» (8) dominata sempre da grandi proprietà e da capitali europei. In particolare, il settore minerario attraeva sempre più capitali, specie inglesi e olandesi, confermandosi sul finire del XIX secolo come il nodo centrale dell’economia e della politica sudafricana, divenendo il fulcro della trasformazione del Sudafrica coloniale in una società molto più simile a quella industriale e borghese europea:

La logica economica dei proprietari delle miniere era quella di poter sviluppare tale industria con profitto […] e, soprattutto, di poter rafforzare la propria capacità di reclutamento di forza lavoro a basso costo. L’industria mineraria, strutturata già nel 1889 nella Chamber of Mines, era in grado di diffondere le proprie posizioni e di fare pressioni nell’arena politica. (9)

Lungo il Novecento l’espansione e il consolidamento del settore minerario sudafricano, dopo l’unificazione politica di tutto il suo territorio, non fece che proseguire: «nel 1979 il Sudafrica produceva il 60% dell’oro mondiale, il 47% del platino mondiale, il 33% del cromo, il 21% del manganese, il 42% del vanadio, e rimaneva il primo produttore mondiale di diamanti» (10).

Di pari passo con lo sviluppo dell’industria sudafricana cresceva e si sviluppava la contrapposizione tra industriali e salariati, intersecandosi con la questione del regime politico razzista e quindi con la segregazione geografica, politica, economica tra neri e bianchi. Il governo sudafricano, infatti, nel primo Novecento intervenne estesamente sulla questione del lavoro con vari Acts volti a garantire i lavoratori bianchi, con quote di posti di lavoro riservati, specie nell’industria mineraria (11). Una situazione in cui, peraltro, il peso demografico della parte bianca della classe operaia sudafricana era molto più importante di oggi, se si tiene conto che nel 1904 i bianchi costituivano ben il 21,6% della popolazione (12).

 

Le politiche razziste e la lotta dei neri per l’emancipazione

Quegli anni conobbero anche la formazione del principale partito della popolazione nera sudafricana: l’African National Congress fu fondato nel 1912, su posizioni liberali, esprimendo essenzialmente le aspirazioni del ceto medio africano, almeno fino al 1949: il presidente dell’ANC Xuma scriveva al primo ministro Smuts nel 1942 per raggiungere un accordo che prevenisse scioperi futuri dei lavoratori neri. Furono lo sviluppo della classe lavoratrice nera e la pericolosa distanza politica dell’ANC da essa a creare le condizioni per una nuova linea politica, ispirata alle politiche democratiche e socialiste europee, sospinta dall’organizzazione giovanile dell’ANC, che espresse ben 3 membri nell’esecutivo nazionale di partito dopo il 1949, tra i quali Nelson Mandela (13). Di pari passo, la popolazione nera si mobilitava e si dotava di proprie organizzazioni anche nel campo della lotta economico-sindacale:

Se la legislazione sul lavoro e le politiche di sviluppo tendevano ad affrontare e soddisfare le rivendicazioni dei bianchi, le lotte politiche ovviamente non riguardavano solo i privilegiati bianchi. Le contestazioni dei lavoratori africani nel corso degli anni divennero più incisive, anche se procedevano in modo separato. Già dall’inizio del secolo si erano verificate lotte e mobilitazioni dei lavoratori neri, soprattutto del settore minerario, e nel 1927 l’Industrial and Commercial Workers’ Union, che rappresentava i lavoratori neri, contava già 100.000 iscritti (14).

A tale fase maggiormente dinamica della questione operaia e razziale seguirono i «quarant’anni perduti» del dopoguerra sudafricano con l’egemonia del National Party, a guida boera, che impose il regime d’apartheid, concetto inaugurato nella campagna elettorale del 1948 per indicare una politica organicamente segregazionista, resa ufficiale e pienamente incorporata nelle leggi dello Stato a partire dal 1949, e che comprendeva l’aperta persecuzione delle forze politiche della popolazione nera schierate contro di essa (15).

Con la fine dell’occupazione della Namibia da parte del Sudafrica, e col cambio d’epoca legato al crollo del blocco sovietico, dal 1990 si aprì un processo di negoziati e riforme per superare l’ormai insostenibile apartheid, passando per la completa legalizzazione delle forze d’opposizione e per la scarcerazione dei loro esponenti. Tra questi, Nelson Mandela, leader dell’ANC e primo presidente del Sudafrica post-apartheid (16).

Con le prime elezioni aperte a tutti i partiti, nel 1994, e con la Costituzione del 1996, il Sudafrica chiudeva la fase dell’apartheid, aprendo la transizione verso una “normale” democrazia. Una transizione che voleva esprimersi sul piano politico con un governo di coalizione larga e la fine del periodo di lotta armata continuata nel paese , ma anche su quello economico, con un mercato e una scala mobile aperti anche ai neri (basata sul concetto del black economic empowerment) (17).

 

Marikana: una lotta operaia nel Sudafrica post-apartheid

Il mito della florida democrazia arcobaleno del Sudafrica post-apartheid ha conosciuto una delle sue contraddizioni più importanti e drammatiche con l’eccidio di Marikana. Tale episodio, al contrario dell’ordinaria vita politica ed economica del Sudafrica, ha appunto raggiunto e colpito negativamente l’opinione pubblica mondiale, in controtendenza con l’immagine positiva del Sudafrica diffusasi con l’inserimento nella galassia delle economie BRICS, in crescita nonostante la crisi mondiale del 2007-8.

A distanza di anni è possibile ricostruire nel complesso gli avvenimenti che portarono alla strage in sé, cioè l’uccisione di 34 minatori e il ferimenti di altri 78 tramite un serrato fuoco di fucileria del South African Police Service (SAPS) che aveva circondato migliaia di minatori dell’azienda Lonmin in sciopero, riuniti in assemblea su un koppie, collinetta tipica delle ampie praterie sudafricane. Una strage che è stata descritta unanimemente dalla stampa come il più significativo singolo uso letale della forza contro civili da parte delle forze di sicurezza sudafricane dai tempi del massacro di Sharpeville nel 1960, durante l’apartheid (18).

La dinamica di un tale terribile fatto è comprensibile soltanto ricostruendo non solo il quadro storico generale da cui proviene il Sudafrica di oggi, ma anche la precisa situazione economica e politica che ha portato al precipitare degli eventi.

 

La Lonmin, il sindacato e le rivendicazioni dei minatori

L’azienda presso la quale erano impiegati i minatori in sciopero è la Lonmin. Quotata alla borsa di Londra e di Johannesburg, la Lonmin «è impegnata nella scoperta, estrazione, raffinazione e nel commercio dei metalli del gruppo del platino (PGMs, di cui le riserve mondiali sono per l80% in Sudafrica) ed è una delle più grandi introduttrici primarie di PGMs del mondo»: un’azienda con undici siti estrattivi, dotata di una licenza d’estrazione fino al 2037 rinnovabile fino al 2067 (20), simbolo del predominio del capitale britannico in Sudafrica, essendo in attività (inizialmente come London and Rhodesian Mining and Land Company Limited) sin dal 1909 (21).

Un metallo, il platino, essenziale in vari campi della manifattura in senso ampio: gioielleria, attrezzistica da laboratorio, contatti elettrici, automobilistica, odontoiatria, industria chimica.

Proprio la crescita esponenziale del prezzo di mercato del platino può essere individuata come la causa principale della vertenza dei minatori Lonmin: il prezzo del platino aveva avuto un impennata tra 2006 e 2008 (superando i 2000 dollari per oncia), un crollo verticale legato alla crisi mondiale (con la punta negativa di 800 dollari per oncia), e una risalita rapida, superando i 1600 dollari per oncia fra 2011 e 2012 (oggi segna circa 950 dollari per oncia) (22). Al raddoppio del prezzo del metallo estratto non stava corrispondendo un aumento né parziale né tanto meno proporzionale dei salari dei minatori Lonmin, i quali furono incoraggiati dall’esito di uno sciopero di ben diciassette settimane dei minatori della Implats (importante azienda sudafricana d’estrazione), che avevano strappato per i contratti di fascia superiore un salario mensile più che raddoppiato, da 4000 a 9500 rand al mese. La vertenza Lonmin partì allora con la richiesta di un salario di 12.500 rand (al tempo, circa 1500 dollari) (23), auspicando realisticamente di poter strappare perlomeno un salario di 7000 rand al mese, secondo il leader dello sciopero Tholakele Dlunga (24).

Lo sciopero coinvolse il complesso estrattivo di Marikana, nella North West Province, compreso nella north west platinum belt, il cuore del sistema minerario sudafricano. Un complesso che da solo garantisce il 95% dei utili della Lonmin (25), che impiega 28.000 lavoratori e la cui espansione aveva lasciato l’azienda in uno stato di seria vulnerabilità finanziaria: una situazione dove la prospettiva di uno sciopero a lungo termine, sul modello di quello della Implats, non era sostenibile economicamente dalla proprietà della Lonmin.

Lo scioperò si caratterizzò per la sua forma a gatto selvaggio, senza alcun preavviso e alcun termine prefissato. Questa forma radicale di sciopero, non particolarmente diffusa in Sud Africa post-apartheid fino a pochi anni fa, fu la risposta dei minatori all’incapacità del sindacato in quel momento egemone tra i lavoratori Lonmin, la National Union of Mineworkers (NUM) , di aprire un tavolo con la proprietà per discutere concretamente un aumento sostanziale del salario. Il leader dello sciopero T. Dlunga descrive così la nascita dello sciopero:

Most of us were under NUM, even me: I was a member of NUM. We took a decision to negotiate with the employer by ourselves because we were strugglin while the NUM was sitting comfortably in their offices. As we’re about to get there, marching without any weapons (26), they came out of the office and came around to meet us. They started shooting us. Without saying a word. […] So that was our plan: it’s better to stay at the mountain because even the stadium belongs to Lonmin. We decided to gather at the mountain because it’s commonal land. It belongs to everybody (27).

Una situazione nella quale l’ostilità del sindacato verso la lotta per il salario si inseriva in una ‘tradizione’ di lunga data di intenso sfruttamento di una massa di minatori poverissimi, i cui figli molto spesso non hanno avuto altra opportunità che ‘ereditare’ il lavoro dei padri, da parte di generazioni e generazioni degli stessi padroni anglo-olandesi.

La perdita di fiducia nel NUM aveva raggiunto un picco, inaugurando una vera e propria crisi interna, proprio a causa del suo appoggio esplicito alla seconda candidatura di Jacob Zuma come presidente del paese. Va tenuto conto che, in un paese dove un singolo partito (l’ANC) è stato il perno di ogni governo per un ventennio, la grande federazione sindacale ad esso esplicitamente collegata (il COSATU, Congress of South African Trade Unions, di cui il NUM costituisce il singolo settore più numeroso) è di fatto la principale arena entro la quale si decide la strategia elettorale del partito.

A seguito dell’appoggio a Zuma, appunto, il consenso verso il NUM diminuì tra i dipendenti Lonmin di Marikana dal 66% al 49%, facendo perdere al sindacato una serie di diritti e prerogative: l’occasione perfetta per l’AMCU (vecchia scissione del NUM, indipendente dall’alleanza tripartita COSATU-ANC-SACP) per radicarsi nello stabilimento, come poi è successo (28), a fronte della trasformazione del NUM in parte in organo sussidiario dello Stato e del suo partito di governo, in parte in un’azienda controllata dai vertici sindacali, divisa fra un trust e una compagnia d’investimento, e legata economicamente alle stesse aziende minerarie dove lavorano gli affiliati al sindacato (29).

 

Lo sciopero e la strage

Lo sciopero, scoppiato dopo il rifiuto di un dialogo da parte della proprietà, incominciò venerdì 10 agosto, con l’adesione iniziale di 3.000 lavoratori, cifra che aumentò poi di giorno in giorno.

Sabato 11 agosto gli scioperanti marciarono verso gli uffici sindacali per imporre al NUM di sostenere la vertenza: in una situazione in cui la tensione tra minatori e funzionari sindacali era già alta, membri del personale NUM esplosero colpi d’arma da fuoco contro gli scioperanti, uccidendone due e riuscendo a disperdere la folla. Durante il successivo processo sui fatti di Marikana, un dirigente del NUM dichiarò: ‹‹The National Union of Mineworkers denies any of their members attacked workers, and insists that their branch leadership were acting self defense›› (30).

Il giorno seguente alla sparatoria si verificò una rappresaglia dei minatori culminata nell’incendio di un mezzo delle forze di sicurezza della Lonmin con due agenti all’interno, morti per le ustioni riportate. Lo stesso giorno (ma la cosa sarà resa pubblica solo molto tempo dopo dalla commissione d’inchiesta su Marikana [31]) il generale di polizia Mbombo e il dirigente Lonmin Barnard Mokoena, in una conversazione telefonica, concordarono sul lanciare l’ultimatum il giorno seguente ai lavoratori per far concludere al più presto lo sciopero. Durante i giorni dello sciopero, un dirigente della Lonmin fu inserito nel consiglio operativo della polizia per Marikana, e l’azienda mise a disposizione della polizia alcuni elicotteri e strutture dove rinchiudere gli scioperanti arrestati.

Lo stesso 12 agosto, il SAPS (South African Police Service) cominciò a presidiare con forze ingenti la zona, arrivando a schierare 580 agenti, compreso un distaccamento del suo corpo di risposta rapida, la Special Task Force. È proprio allora che l’aperta ostilità di azienda e sindacato portò i minatori a continuare lo sciopero e a radunarsi sul koppie non lontano dal complesso minerario, luogo tradizionale delle loro assemblee sindacali, presto seguiti da lavoratori di altri stabilimenti minerari vicini, iscritti perlopiù al sindacato AMCU, ‘rivale’ del NUM e nato come sua scissione contrapposta alla collusione con le aziende e il governo dell’ANC.

Durante il pomeriggio tra 150 e 200 minatori, di ritorno da una sortita alla miniera volta a convincere a unirsi allo sciopero chi non vi stava partecipando, furono intercettati dalla polizia. Dopo aver tentato invano di convincere i minatori a deporre le ‘armi’ che avevano con sé (perlopiù bastoni, lance artigianali e coltelli), le forze di polizia apparentemente acconsentirono di scortarli fino al koppie senza ulteriori complicazioni. Nonostante il clima generalmente pacifico della giornata, la polizia aggredì improvvisamente i minatori in marcia con un intenso lancio di lacrimogeni e con armi da fuoco, generando uno scontro e una fuga caotici. Due minatori furono inseguiti, raggiunti e giustiziati a freddo a centinaia di metri di distanza dalla direttrice della loro marcia. Rimasero senza vita anche due poliziotti e un altro minatore. Nonostante tale episodio di violenza ingiustificata, i minatori continuarono lo sciopero.

Mercoledì 15 agosto le forze di polizia, intenzionate a sciogliere l’assemblea sul koppie quanto prima, si dispiegarono attorno ad esso cominciando a circondarlo con mezzi blindati e con del filo spinato, di modo da limitare la possibile via di fuga ad uno stretto corridoio, facilmente controllabile nonostante la netta superiorità numerica dei minatori.

I colloqui con i capi dello sciopero, non offrendo alcuna promessa sugli aumenti salariali, non ottennero lo scioglimento dell’assemblea e la fine dello sciopero: i minatori passarono un’altra notte sul koppie, stavolta circondati da filo spinato e da centinaia di poliziotti armati (32).

Giovedì 16 agosto, nella prima mattinata, accaddero due fatti premonitori dello svolgimento della giornata: alle 8 di mattina giunsero nell’area di operazioni quattro furgoni delle onoranze funebri di Phokeng, cittadina non distante, ordinati dalle forze di polizia nonostante in quel momento non ci fosse alcun cadavere da spostare. Non molto più tardi, il generale Mbombo dichiarò, durante una conferenza stampa: ‹‹today we are ending this matter›› (33); così effettivamente sarebbe stato.

Cosciente della crescente pericolosità della situazione, il presidente del sindacato AMCU Joseph Mathunjwa convinse le forze polizia a permettergli di parlare con i lavoratori: tenne così un’appassionata orazione di fronte agli scioperanti per indurli a sciogliere la loro assemblea e a sospendere lo sciopero per continuare la vertenza evitando un’escalation di violenza: ne convinse un migliaio a terminare il presidio per continuare la contrattazione per altre vie. La grande maggioranza degli scioperanti, però, aveva deciso di continuare ad oltranza lo sciopero e il presidio del koppie, nonostante l’intimazione della polizia a deporre le armi (34). Quando, pochi minuti prima delle 16, un contingente di minatori cercava di forzare il blocco per ritirarsi verso le proprie abitazioni, la polizia lo fece dirigere verso una linea di fucilieri già schierata: alle 15.53 gli agenti aprirono il fuoco sui minatori; una sparatoria divenuta famigerata grazie alla sua diffusione sui media a livello globale. Da quel momento, cominciò la fuga in massa dei minatori. Sul terreno rimanevano oltre cento persone, alle quali non fu somministrato alcun primo soccorso. Trentaquattro persone non sopravviveranno alla strage, tra cui Mongezeleli “Bhayi” Ntenetya il quale agonizzò e spirò in diretta TV; altre settantotto riportarono ferite più o meno gravi. Il SAPS non registrò alcuna perdita. Alla fine della giornata, 270 minatori erano stati arrestati con l’accusa di “violenza pubblica”, poi mutata in “concorso in omicidio”; nessun poliziotto coinvolto nell’operazione è stato poi accusato o tanto meno arrestato nel frattempo: un esito che il discorso del generale Mbombo, appena il giorno dopo la strage, auspicava neanche troppo velatamente:

Let us take note of the fact that whatever happened represents the best of responsible policy. You did what you did because you’ve been responsible. You are making sure that you continue to lead your oath, making sue that South Africans are safe and that you equally are citizens of this country ande safety starts with you (35).

 

La fine della lotta e la commissione d’inchiesta

La strage di Marikana non fermò lo sciopero alla Lonmin: esso continuò per un mese, concludendosi con la concessione di aumenti tra il 7% e il 22% del salario (a fronte del 300% richiesto inizialmente). Nelle settimane successive alla strage, circa centomila lavoratori sudafricani scesero in sciopero “a gatto selvaggio” in tutto il paese, manifestando la loro solidarietà coi lavoratori della Lonmin e rivendicando come loro un sostanzioso aumento del salario, a fronte di una condizione di povertà estrema diffusissima anche tra i lavoratori a tempo pieno. L’AMCU, che sostenne la continuazione della lotta sindacale, uscì rafforzata da tale ciclo di scioperi, divenendo il primo sindacato nelle tre più grandi miniere di platino del Sud Africa.

Parallelamente, il 23 agosto 2012, il presidente Jacob Zuma dava mandato a una commissione d’inchiesta statale di condurre indagini per ricostruire la dinamica degli atti di violenza legati allo sciopero dei minatori Lonmin: un lavoro durato circa tre anni e che ha prodotto un voluminoso report dal quale però escono ‘puliti’ sia le forze dell’ordine, sia i vertici della Lonmin, sia i politici coinvolti nella vicenda, nonostante le numerose evidenze di una condotta diffusa assolutamente priva della volontà di evitare la violenza e invece ben decisa a mettere fine allo sciopero nei tempi più rapidi possibili anche con un dispiego massiccio della forza, e di una serie di disposizioni apertamente menzognere, da parte della polizia, durante il processo di inchiesta ufficiale sui fatti di Marikana (36); un risultato a dir poco insoddisfacente secondo i parenti delle vittime (in tutto 44) i minatori della Lonmin, che ha fatto discutere aspramente l’opinione pubblica sudafricana.

 

La retorica del Sudafrica post-apartheid e il black empowerment reale

Il NUM, seppur da sempre collegato all’ANC, era nato al pari di quest’ultimo come forza di opposizione sociale, di lotta aperta al Sudafrica dell’apartheid: era stato uno dei centri della mobilitazione della classe operaia nera contro il regime razzista e il settore più colpito dalle politiche oppressive dell’apartheid. Cyril Ramaphosa, quando era ancora ‘soltanto’ un giovane avvocato militante dell’ANC, ha fondato il NUM e ha guidato la lotta vittoriosa dei metalmeccanici contro l’apartheid: l’evoluzione della sua carriera è forse il miglior simbolo della contraddizione stridente tra la retorica del Sudafrica “libero” lanciato verso il “black empowerment” e l’evoluzione reale del ceto politico e sindacale sudafricano post-apartheid. Se da giovane, sull’onda di un clima radicale diffuso nella sinistra e nel movimento operaio africani, Ramaphosa affermava: ‹‹There’s no such ting as liberal bourgeois: they’re all the same, they use fascist methods to destroy workers’ lives›› (37), la sua visione e le sue posizioni sono cambiate radicalmente con la fine dell’apartheid, così come ricordato da Rehad Desai:

He soon became a leading member of the African National Congress, and from this position joined the black economic elite. Ramaphosa, who once saw South African working class as a force to change now found himself on the other side of the table. At the time of the massacre he was a board member of Lonmin (38).

Il black empowerment si è declinato, nel caso dei metalmeccanici sudafricani (e non solo), non tanto in un miglioramento generalizzato e sostanziale delle condizioni di vita e dei diritti sul posto di lavoro, quanto nella cooptazione dei vertici del movimento operaio in una elité nera, in una middle class più allargata rispetto al passato, affiancata o sottoposta ai grandi capitali ‘tradizionali’, perlopiù anglo-olandesi. Fu così possibile, come provato dalla commissione d’inchiesta su Marikana, che Cyril Ramaphosa, mentre si rifiutava di andare a parlare coi minatori in sciopero, era protagonista di uno scambio di mail con esponenti del governo al fine di spingerli a inviare quanti più agenti di polizia possibile contro gli scioperanti.

Il Ramaphosa manager della Lonmin e businessman con interessi in parecchi settori economici non ebbe dunque problemi a liquidare pubblicamente la lotta dei suoi ex-compagni di sindacato come un episodio violento da condannare e da non ripetersi:

‹‹We’ve gone through our waves of strikes and we always have strikes because we have such a robust democratic system that allows workers to express themselves an people should never be alarmed. This is the South African way and we need to accept that. Workers will voice their dissatisfaction withdrawing their labour. What we are against is that quite a number of those strikes have tended to turn violent. That is one behaviour that we need to get out of our system›› (39).

Così, mentre il tasso di disoccupazione dei neri sudafricani si aggira tuttora attorno al 30%, mentre al raddoppiarsi del prezzo del platino si sono registrati aumenti salariali minimi costati la vita a decine di persone, l’attuale vice presidente dell’ANC (eletto quattro mesi dopo il massacro di Marikana, Ramaphosa ha una ricchezza stimata di 675 milioni di dollari) (40) e che stride dolorosamente con la situazione di miseria, di pesante sfruttamento, di perdurante segregazione sociale ed economica che ancora affligge larghe masse della popolazione sudafricana; che stride con le 34 croci bianche piantate ai piedi del koppie di Marikana.

 

Note

1.The Telegraph, Police Shoot Strikers at South Africa’s Lonmin Marikana mine.

2.Statistics South Africa, Mid-year population estimates 2014.

3. M. Zamponi, Breve storia del Sudafrica. Dalla segregazione alla democrazia, Roma, Carocci Editore, 2016, p. 2.

4. Un’autonomia incominciata nel 1909 con il South Africa Act, ampliata nel 1931 con lo Statuto di Westminster e evoluta in piena indipendenza politica dal Regno Unito con l’indipendenza del 1961.

5. B. Disraeli, Sybil, Book II, Chapter V, 1845, citato in en.wikiquote.org/wiki/Sybil_(novel).

6. M. Zamponi, Breve storia del Sudafrica, cit., pp. 11, 14-5.

7. Ivi, p. 12.

8. Ivi, p. 49.

9. Ibidem.

10. Ivi, p. 101.

11. Ivi, pp. 68-9.

12. W.K. Hancock, Smuts I, The Sanguine Years 1870–1919, Cambridge University Press, 1962, p. 219, citato in it.wikipedia.org/wiki/Sudafrica.

13. M. Zamponi, Breve storia del Sudafrica, cit., pp. 60-2, 86-8.

14. Ivi, p. 60.

15. Ivi, pp. 73-122.

16. Ivi, pp. 117-8.

17. Ivi, pp. 121-2.

18. J. F. Albrecht, M. C. Dow, D. Plecas, D. K. Das, Policing Major Events: Perspectives from Around the World, CRC Press, 2014, p. 201.

19. La ricostruzione degli eventi collegati alla strage di Marikana, successi fra l’undici e il sedici agosto 2012, così come una serie di dichiarazioni legate a quegli eventi sono in buona parte basate sui seguenti documentari: eNCA, Marikana Massacre Documentary, 2014; R. Desai, Miners Shot Down, 2014, consultabile al sito .

20. Lonmin Plc, About us.

21. M. E Page, Colonialism: an International Social,Cultural and Political Encyclopedia, Santa Barbara, ABC-CLIO, 2003,. pp.350–1, citato in en.wikipedia.org/wiki/Lonmin.

22. InvestmentMine, Historical Platinum Prices and Price Chart.

23. Greg Marinovich, Beyond the chaos at Marikana: The search for the real issues.

24. R. Desai, Miners Shot Down, 2014.

25. Lonmin Pcl, Marikana.

26. Nei filmati della giornata, i lavoratori tengono bastoni e aste in mano, ma non c’è prova che li usino per offendere.

27. R. Desai, Miners Shot Down, 2014.

28. J. Malala, The Marikana action is a strike by the poor against the state and the haves, The Guardian, 17-8-2012, consultabile al sito.

29. M. De Waal, A NUM-sized headache, and no-one else to blame, Daily Maverick.

30. Marikana Commission of Inquiry, Report on Matters of Public, National and International Concern arising out of the tragic Incidents at the Lonmin Mine in Marikana, in the North West Province, Pretoria, 2015, consultabile al sito www.sahrc.org.za/home/21/files/marikana-report-1.pdf .

31.R. Desai, Miners Shot Down, 2014.

32.Oltretutto, un poliziotto filmato durante l’operazione a Marikana ammise che i proiettili “dichiarati” per l’operazione fossero solamente quelli di gomma, e non quelli letali.

33. R. Desai, Miners Shot Down, 2014.

34. Le quali, oltre a quelle già descritte, comprendevano qualche piccola arma da fuoco con le quali, secondo la versione del SAPC smentita dai filmati girati sul luogo da Rehad Desai, i minatori avrebbero aperto il fuoco per primi durante il pomeriggio del 16 agosto.

35. R. Desai, Miners Shot Down, 2014.

36.A. Lang, Police ‘lied about Marikana mining massacre’, The Telegraph, 19-9-2013.

37. R. Desai, Miners Shot Down, 2014.

38. Ibidem.

39. Ibidem..

40. The Economist, Fool’s gold, 27-4-2014.

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.