Venerdì 19 maggio si è svolto a Firenze il terzo incontro del ciclo di letture su Gramsci in via del Leone. Le note selezionate dai Quaderni del carcere si concentravano questa volta sui concetti di ‘rivoluzione passiva’ e ‘rivoluzione permanente’, entrambi di centrale importanza nel dibattito sulla strategia politica dei partiti comunisti.


Rivoluzione permanente e guerra di movimento

In due delle note scelte (Q7, §16 e Q13, §7), Gramsci discute della ‘rivoluzione permanente’, dando tuttavia l’impressione di non comprendere a fondo l’essenza dell’idea sviluppata da Trockij e, prima ancora, da Marx. In particolare Trockij aveva svolto questo concetto a partire dalla rivoluzione russa del 1905, teorizzando il processo rivoluzionario in quel paese sotto almeno tre aspetti principali: 1) l’alleanza fra contadini e operai sotto la direzione (‘egemonia’, avrebbe detto Gramsci) degli operai; 2) il carattere socialista della rivoluzione, che avrebbe trascinato con sé lo sviluppo di quelle forze produttive che in Europa erano state liberate dalle rivoluzioni democratico-borghesi; 3) il necessario carattere internazionale del processo rivoluzionario, che se si fosse fermato a un paese arretrato come la Russia, senza estendersi al centro capitalista europeo, avrebbe inevitabilmente finito per soccombere alla pressione esterna (militare ed economica) dei paesi capitalisti. Nel 1917, di fatto, tale teoria fu messa in pratica dalla Rivoluzione d’Ottobre, che trasformò senza soluzione di continuità la rivoluzione democratico-borghese di febbraio in una rivoluzione socialista. Allo stesso modo, il destino totalitario dell’Urss dimostrò la fragilità di una rivoluzione compiuta ‘in un paese solo’.

Tale paradigma di azione politica viene identificato così con il concetto militare di ‘guerra di movimento’. Secondo Gramsci, fino a circa il terzo quarto dell’Ottocento, vale a dire finché gli apparati non solo politico-repressivi, ma anche burocratico-culturali dello stato borghese non saturarono l’orizzonte sociale dei paesi capitalisti, l’azione rivoluzionaria delle classi subalterne poteva essere diretta secondo il modello della guerra di movimento, cioè tramite l’azione diretta e ‘guerreggiata’ delle masse oppresse. Nel passaggio al nuovo secolo, invece, nella stessa misura in cui la guerra di movimento (militare) si era dimostrata obsoleta alla prova del fuoco del primo conflitto mondiale, la nuova strategia della ‘guerra di posizione’ (politica) doveva sostituirsi a quella della rivoluzione permanente, ormai relegata ai musei di storia dei movimenti rivoluzionari. Potevano fare ancora eccezione i paesi arretrati e quelli colonizzati dai paesi imperialisti: cosa che, peraltro, Trockij stesso aveva riconosciuto a proposito della sua teoria rivoluzionaria, dato che la Russia fino ai primi anni ’20 era un paese arretrato, con il compito di compiere in una volta rivoluzione borghese e socialista.

Rivoluzione passiva (o guerra di posizione?)

Con il Novecento, nei paesi del centro capitalista, lo ‘stato integrale’ borghese aveva progressivamente saturato lo spazio politico, economico e ideologico della società, e i settori ancora arretrati andavano progressivamente estinguendosi (l’Italia, in maniera per alcuni versi simile alla Russia, rappresentava una parziale eccezione). In questo nuovo contesto, secondo Gramsci, il paradigma strategico privilegiato di lotta politica è quello della ‘guerra di posizione’, il tentativo più o meno lento di accaparrarsi i bastioni sociali più importanti, di organizzare la difesa, e in generale di radicarsi nella società, nel tentativo di creare una propria ‘egemonia’, antagonista rispetto a quella dominante della classe capitalista. Esattamente come dal punto di vista militare, ci dice Gramsci, vincere la guerra di posizione significa prepararla bene in tempo di pace. L’impressione, tuttavia, è che la guerra di posizione nel suo complesso si risolva in questo stadio di guerra non guerreggiata, di accumulazione delle forze da parte di entrambi gli schieramenti e sì, di conquista metodica di posizioni strategiche, ma sempre in un contesto di non intervento diretto e rivoluzionario delle masse. La necessaria dialettica fra ‘guerra di posizione’ e ‘guerra di movimento’ non viene sviluppata da Gramsci in queste note.

Mentre l’identificazione fra ‘rivoluzione permanente’ e ‘guerra di movimento’ appare abbastanza esplicita, non si può dire la stessa cosa del rapporto fra ‘guerra di posizione’ e ‘rivoluzione passiva’. Sembra si possa sostenere che una situazione di rivoluzione passiva venga tendenzialmente a crearsi in un contesto politico di guerra di posizione, ma i due concetti non sono neanche lontanamente sovrapponibili. La ‘rivoluzione passiva’ (Q10, §41) è un processo rivoluzionario (in senso lato) che, anziché prodursi dall’azione diretta delle masse subalterne, viene calato dall’alto, da settori sociali conservatori o addirittura controrivoluzionari che, in reazione a una certa spinta presente o passata dal basso, introducono elementi politici ed economico-sociali progressivi, tra cui alcune esigenze espresse dalle stesse masse oppresse (in genere, mi sembra si possa dire, dopo aver sconfitto il movimento rivoluzionario stesso). Ancora una volta, Gramsci utilizza questo concetto per la storia d’Italia dopo l’unificazione (e, di soppiatto, per parlare del fascismo) e non sviluppa gli aspetti relativi a un’altra condizione fondamentale per una rivoluzione passiva: l’azione esercitata dai paesi esteri, dalle relazioni internazionali e dallo sviluppo dell’economia mondiale.

Il distillato teorico: il concetto di ‘egemonia’

Sebbene le note selezionate sviluppassero specificamente i concetti di ‘rivoluzione passiva’ e ‘rivoluzione permanente’, è emerso da esse chiaramente uno dei concetti più importanti del pensiero politico di Gramsci: quello di egemonia, sia dal punto di vista dello stato borghese che del partito rivoluzionario. Come si diceva più sopra, tra Otto e Novecento lo stato dei paesi capitalisti tende a diventare ‘stato integrale’, cioè a non essere più soltanto un apparato repressivo, ma a incorporare e controllare indirettamente tutti quegli elementi della società civile che garantiscono alla classe dominante una piena egemonia sulla società: imprese nazionali, media, partiti, scuole, catene commerciali, centri ricreativi, teatri e cinema, gli stessi sindacati, eccetera. Si vede qui come il classico concetto marxista di stato come cane da guardia o comitato d’affari della borghesia venga notevolmente complicato, a favore di un’immagine di stato che è esso stesso organo fondamentale del dominio di classe: non si limita a ratificarlo ed eseguirlo tramite i suoi mezzi repressivi, ma lo costruisce, facendolo evolvere in egemonia. L’egemonia si differenzia dal dominio (Q8, §36) per il grado di consenso con cui viene accettata, se non addirittura accolta, dagli oppressi. E in questo caso la differenza di grado si tramuta in differenza qualitativa. Là dove lo stato in epoche precedenti doveva esercitare un dominio essenzialmente repressivo sulle classi subalterne, la borghesia capitalistica, per mezzo dello stato integrale, può permettersi di costruire un consenso diffuso intorno alla propria egemonia di classe, che nasconde pur sempre un dominio di classe, sul quale l’egemonia si fonda. Manca, almeno nelle note che abbiamo letto, una trattazione delle condizioni economiche di tale processo, ma si può dire che qui Gramsci veda in anticipo, lucidamente, quello che sarà il funzionamento in campo politico-ideologico delle democrazie occidentali uscite dalla Seconda guerra mondiale.

Contemporaneamente, ma in modo diverso, la classe lavoratrice – organizzata in partito rivoluzionario – deve conquistare la sua egemonia: sugli altri settori delle classi subalterne e dei movimenti sociali, fornendo insieme un una visione del mondo complessiva per la società nell’ottica del superamento del capitalismo, quindi un programma e una strategia. 

L’importanza del pensiero di Gramsci

Emerge da queste note, ed è emerso nel corso della discussione di venerdì 19 al Leone, come l’attenzione di Gramsci sia rivolta particolarmente verso la sfera politica, culturale, e in generale verso i problemi della cosiddetta sovrastruttura. Senza dubbio, egli fa parte di un vasto momento della storia del marxismo, in particolare del marxismo occidentale, in cui è stato necessario criticare le tendenze economicistico-positivistiche della II Internazionale, per rilegare il pensiero di Marx ed Engels alle sue origini filosofiche e per compiere un balzo teorico e pratico dal punto di vista della lotta politica. Di questo momento fanno parte tutti i maggiori rappresentanti del marxismo occidentale, Lukács, Korsch, ma anche Lenin, Trockij, Luxemburg. Oggi, nell’arena della discussione politica e in vista della creazione di un’egemonia complessiva della classe lavoratrice, è probabilmente della massima importanza tornare a mettere l’accento sui fattori economici che fondano la nostra società, di fronte al crollo di popolarità subito dai concetti fondamentali del pensiero marxista a seguito del crollo del socialismo reale. Tuttavia, nella discussione interna alla sinistra radicale, valorizzare il pensiero politico di Gramsci sembra essere di centrale importanza per riuscire ad elaborare una strategia politica il meno grezza possibile, e per rivendicare l’appartenenza al campo marxista di un pensatore che dalla sinistra borghese continua ad essere indicato come un simbolo.

Il ciclo di letture su Gramsci terminerà questo venerdì, 26 maggio, ore 17.30, sempre in via del Leone 60, con una discussione sulle classi subalterne e il ‘moderno principe’.

Leonardo Niccolini

Nato a Genova nel 1998, è cresciuto in una famiglia di artisti. Ha studiato filosofia prima a Pavia e poi e Firenze, dove vive attualmente. Militante della FIR, si dedica anche alla fotografia e al cinema.