A partire dai risultati per ora molto, molto scarsi della stagione del rinnovo dei CCNL per milioni di lavoratori e lavoratrici, il rilancio del movimento operaio, come centro della lotta alle politiche confindustriali di questa doppia crisi, ha bisogno di parole d’ordine e un piano d’azione all’altezza della situazione, contro gli accordi a perdere che la grande burocrazia sindacale sbandiera come vittorie.


Un movimento operaio che non è ancora protagonista della lotta alla crisi

Un elemento che sembra ormai emerso con una certa chiarezza in questo autunno è l’incapacità del movimento dei lavoratori di divenire il catalizzatore del diffuso malcontento sociale che si respira in Italia. Questo produce, a sua volta, effetti negativi sui molteplici gruppi e gruppuscoli di quella che in assenza di termini migliori definiamo sinistra radicale – una nebulosa galassia di movimenti e micro-partiti su posizioni spesso alquanto distanti tra di loro. Orfana di un centro gravitazionale attorno al quale ancorare la propria azione politica, la sinistra radicale fluttua scompostamente tra accuse al governo di essere prono ai diktat di Confindustria e la malcelata sensazione di vivere in una realtà dispotica nella quale la presunta dittatura sanitaria attuale rappresenta un primo e parziale momento di una più generale torsione autoritaria. La prima posizione si snoda grosso modo lungo un lessico marxista ma, in assenza di un movimento reale, largo, che ne incarni le ricadute rivendicative, rimane su un piano esclusivamente di propaganda. La seconda attinge invece dagli scritti di Foucault e Agamben, finendo per portare acqua alle posizioni piccolo-borghesi di quanti prospettano il diritto inalienabile di produrre e commerciare senza ostacoli. L’elemento che le accomuna, ad oggi, è l’insignificanza politica.

La nostra salute vale più dei vostri profitti”: la barricata della lotta di classe in marzo

La situazione era molto diversa lo scorso marzo. Nel pieno dilagare dell’epidemia, l’ostinazione del governo nel tenere aperte le attività produttive, come effetto delle pressioni dei vertici industriali, aveva dato vita ad un’ondata di scioperi dal basso nel settore metalmeccanico e della logistica. In maniera parziale e tardiva, il governo era stato costretto a una retromarcia. Cosa più significativa, la mobilitazione dei lavoratori aveva fornito una parola d’ordine chiara e semplice alla sinistra radicale: “la nostra salute vale più dei vostri profitti”. Da questo derivava la conseguente e diretta richiesta della chiusura di ogni attività commerciale e produttiva non essenziale. Proprio in conseguenza del “risveglio” operaio, il lockdown aveva così assunto i contorni di una chiara linea di faglia della lotta di classe: salariati favorevoli e industriali contrari. Schierarsi, al netto di poco e isolate eccezioni, non era stato difficile.

Quando la diffusione del virus è tornata ad accelerare, a cavallo tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, è apparso subito chiaro come lo scenario primaverile non si sarebbe riproposto. Per una serie di ragioni, non ultima una diffusa stanchezza nel rimanere confinati all’interno delle proprie abitazioni, il movimento dei lavoratori non avrebbe issato una seconda volta la stessa bandiera e scatenato analoghe mobilitazioni. Questo scenario conteneva il rischio di una finta polarizzazione tra un governo che limita le libertà individuali e un’opposizione che grida al colpo di stato dei virologi. In formato particolaristico, una narrativa che rispecchia uno schema al quale ci siamo abituati in questi anni. Vale a dire, la rappresentazione del principale strumento politico del grande capitale – il Partito Democratico – come una forza di sinistra e la raffigurazione delle destre liberiste e reazionarie come popolari. Si tratta di una cartolina palesemente falsa e che forse farà sorridere qualcuno, ma che rimane purtroppo un dato dal quale partire fino a quando non venga riconosciuta come ridicola da una maggioranza (anche solo qualitativa) di lavoratori.

Rinnovo CCNL: il nuovo possibile fronte per l’ingresso in scena dei lavoratori?

La nostra sensazione era che una tale finta dialettica delle parti potesse essere rotta esclusivamente da un ingresso massiccio sulla scena da parte del movimento operaio. Se questo non poteva darsi sul fronte della salute, doveva avvenire altrove. Il rinnovo del contratto dei metalmeccanici poteva rappresentare questa via d’uscita, soprattutto nel caso in cui qualcosa fosse sfuggito alla dialettica asfittica tra Federmeccanica e sindacati confederali. Una serie di indizi suggerivano possibile, per quanto difficile, il dipanarsi di questa situazione. Tra questi, ricordiamo brevemente: la nuova presidenza di Carlo Bonomi in Confindustria con la sua linea politica di forte intransigenza verso i sindacati; la crisi economica che concedeva limitati margini di manovra agli industriali; la richiesta di un discreto aumento salariale da parte dei confederali, dopo il pesante cedimento sul welfare aziendale del 2016; ed infine la speranza che quanto successo in marzo con gli scioperi, per quanto non si fossero formati coordinamenti tra le fabbriche in agitazione, avesse sedimentato qualcosa nelle coscienze dei lavoratori.

Vi erano ovviamente anche elementi che lasciavano protendere in tutt’altra direzione. Due erano particolarmente rilevanti. Per prima cosa, il fatto che i confederali, con il prezioso aiuto della pandemia, abbiano potuto chiamare una mobilitazione senza l’elemento cruciale della piazza. Con l’esclusione di alcune sporadiche iniziative di fronte alle varie sedi locali di Confindustria, lo sciopero dei metalmeccanici del 5 novembre è stato perciò un’agitazione a distanza, riducendone enormemente il potenziale di radicalizzazione che avrebbe potuto avere in alcuni settori operai. In secondo luogo, il fronte industriale non ha sposato in pieno la linea Bonomi. Alcuni settori – alimentare e agro-industriale in primis – hanno macinato utili nei mesi della pandemia e hanno proceduto per conto proprio, considerando prioritario non interrompere la produzione e incrinare il clima di pace sociale che si respira nelle loro aziende. Con una variazione più contenuta delle posizioni, la stessa dinamica si è riproposta anche all’interno di Federmeccanica. Sconfessando parzialmente la linea di totale chiusura di Bonomi, gli industriali hanno trovato un’intesa di massima al loro interno che si articola su tre assi cardine: puntare nuovamente su welfare aziendale e perequativo per chiudere il rinnovo del contratto nazionale di categoria; concedere un risibile aumento salariale che possa permettere ai confederali di salvare la faccia nelle fabbriche; e premere per ottenere dal governo lo sblocco totale dei licenziamenti. La nuova proposta che Federmeccanica ha fatto pervenire ai confederali a fine novembre va proprio in questa direzione. Nello specifico, sul fronte salariale – l’elemento cardine, a detta degli stessi sindacati, del rinnovo – rimane, all’apparenza, una distanza notevole tra le parti. A fronte di una richiesta di 144 euro di aumento (l’8% circa), Federmeccanica ha prima offerto la miseria di 40 euro (ovvero il semplice recupero dell’inflazione), per poi correggere parzialmente il tiro ed alzare (per così dire) l’asticella a 65. Proprio mentre scriviamo, un serrato calendario di incontri tra le parti prova a limare le distanze tra le burocrazie sindacali e gli industriali. I primi parrebbero più che disposti a chiudere attorno agli 80 euro. Se Federmeccanica si convince, il rinnovo potrebbe essere cosa fatta a breve.

CCNL metalmeccanici,un bivio importante per la prossima stagione: conflitto o pace sociale?

Un simile scenario avrebbe ripercussioni disastrose sul movimento operaio in Italia. Una parte importante scomparirebbe non appena il blocco dei licenziamenti finirà (a brevissimo, quindi), l’altra si troverà invece a fronteggiare una certa delusione per un rinnovo contrattuale molto meno sostanzioso di quanto sperato e a convivere con lo spettro pesante della disoccupazione di massa. Rimane una piccola speranza per invertire questo trend. Il passaggio è strettissimo, ma la parte più avanzata del movimento operaio è chiamata ad uno sforzo in tale direzione: rompere la rigida separazione imposta da confederali e padroni tra dinamica salariale e blocco dei licenziamenti. Questi non sono due aspetti separati, ma facce della stessa medaglia: che senso ha, dopo tutto, lottare per un aumento in busta paga se domani si rischia seriamente di essere senza posto di lavoro? Spendere pochi spiccioli per chiudere rapidamente il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici e mandare al macero le aziende decotte è nel pieno interesse della borghesia italiana. Lottare per difendere e rialzare il salario e per salvare l’occupazione di ogni lavoratore deve essere invece la parola d’ordine immediata del movimento operaio.

Gianni Del Panta

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).