Il presidente tunisino Kaïs Saïed ha esautorato il governo nazionale in carica, con un colpo di Stato “morbido”: proponiamo una lettura di questo fenomeno, divisa in due parti, che mostra le aspettative tradite dal regime post-Primavera araba e fa luce sulle radici del cesarismo di Saïed. 


Seconda parte

Il colpo di Stato, seppur morbido, del Presidente Kaïs Saïed con il conseguente congelamento del parlamento e la cacciata del Premier Michichi hanno fatto piombare il paese, già provato da una lunga crisi economica e pandemica, in uno sconquasso politico senza precedenti.

Seppur diversa dal colpo di Stato a cui abbiamo assistito a suo tempo nell’Egitto di al-Sisi, la mossa del presidente in una direzione, in termini gramsciani, cesarista, ha di fatto acquisito un ampio consenso da parte delle masse, che considerano il parlamento e le istituzioni democratiche, nate in seno alla rivoluzione del 2010, come i responsabili della grave crisi economica che attanaglia il paese.

La figura di Kaïs Saïed, nonostante sia al potere dal 2019, sembra non essere stata intaccata dalla rabbia popolare, anzi, la sua mossa, sembra essere considerata dalle masse tunisine, un modo per dare una scossa allo status quo.

Infatti, salito al potere grazie alla sua retorica populista, impregnata dall’anti-partitismo e di continua denuncia della corruzione imperante nel paese, il presidente Saïed rappresenta oggi per i tunisini il personaggio a cui fare affidamento e il colpo di Stato, seppur morbido, è stato sostenuto da un’ampia fetta di popolazione.

Il sostegno popolare, come lo fu per al-Sisi grazie alla considerazione che gli egiziani avevano dell’esercito, deriva dal fatto che Saïed ha sempre rifiutato qualsiasi etichetta partitica e ha sempre condannato formalmente le malefatte dei vari partiti politici al governo negli anni post-rivoluzionari.

La domanda che sorge spontanea è: come si è arrivati a tutto questo?

Una rivoluzione a metà

Diceva il celebre giacobino Louis de Saint-Just che ‘coloro che fanno una rivoluzione a metà non hanno fatto altro che scavarsi una tomba’.

Se c’è una rivoluzione a cui tutt* abbiamo rivolto uno sguardo in questo lungo decennio di mobilitazioni globali, questa è senza ombra di dubbio la Tunisia.

Descritta dalle borghesie internazionali come la ‘Primavera araba di successo’, la straordinaria mobilitazione tunisina, che ha portato alla caduta del pluridecennale sistema di Ben Ali, si è rilevata una rivoluzione monca nella quale il ‘successo’ politico immediato non è corrisposto al successo sociale – confermando i limiti letali delle strategie politiche contemporanee centrate sulle “rivoluzioni democratiche” che lasciano intatti i rapporti di produzione e proprietà.

Come per la rivoluzione egiziana, fatte le dovute differenze, la mobilitazione del 2010-11 in Tunisia si è caratterizzata per la presenza di due differenti anime rivoluzionarie: l’anima sociale, caratterizzata dalle mobilitazioni dei lavoratori e l’anima politica, a cui facevano parte i movimenti sociali, organizzazioni della società civile e alcuni partiti di opposizione.

In un articolo tradotto dal nostro giornale nel 2020, lo studioso Joel Beinin enfatizzava il fatto che la Tunisia in particolare, ma non solo, al momento della ricorrenza dell’anniversario della rivoluzione, era un paese diviso in due: da un lato chi considera quella data come giorno di festeggiamento e, dall’altro, chi continua a mobilitarsi per un paese migliore e socialmente inclusivo.

Tale divisione è rimasta pressoché invariata a causa dell’acuirsi della crisi economica e dell’incapacità dei vari governi di dare soluzioni immediate al deterioramento delle condizioni materiali di milioni di tunisini.

Il periodo post-rivoluzionario è stato caratterizzato da un perenne stato di mobilitazione che ha investito le zone più povere del paese. Si tratta delle zone interne che erano già state protagoniste per gli scioperi nel periodo pre-rivoluzionario.

Qui lo Stato ha cercato di mantenere la pace sociale attraverso aiuti alle classi subalterne e ai giovani disoccupati, dopo che gli stessi avevano dato vita ad una serie di proteste soprattutto nelle zone più periferiche e più povere del paese.

Molti dei giovani laureati avevano goduto delle assunzioni governative all’interno delle amministrazioni pubbliche e delle pochissime industrie statali rimaste. Tuttavia, se da un lato tali misure avevano stemperato le accese mobilitazioni, dall’altro tali impieghi risultavano essere malpagati (circa 300 euro al mese) e molto precari.

Lo Stato tra tentativi di assistenzialismo e repressione delle lotte

Se la transizione post-Ben Ali è stata caratterizzata da un progresso in termini di diritti politici e di sviluppo di una democrazia liberale, al contempo i governi che si sono succeduti non sono stati in grado di risolvere le questioni sociali che la rivoluzione aveva fatto emergere.

La Tunisia di Ben Ali e post-rivoluzionaria è segnata da forti disparità territoriali. Infatti, osservando la geografia delle proteste che hanno animato la rivoluzione del 2010, ci accorgiamo che a insorgere per prime, non sono state le grandi città, ma le zone più periferiche del paese.

L’immolazione da parte di Mohammed Bou Azizi avvenne nella città di Sidi Bouzid, un piccolo centro situato nell’entroterra tunisino.

Anni di politiche neo-liberiste, di cui Ben Ali e la sua famiglia erano i principali beneficiari, hanno portato da uno sviluppo diseguale all’interno del paese stesso.

A farne le spese sono state le zone più povere del paese che, nonostante la presenza di alcuni settori industriali, offrivano posti di lavoro sotto pagati e precari.

Nei primi anni di transizione, lo Stato aveva cercato di mantenere la pace sociale per mezzo di assunzioni all’interno del settore pubblico. Tuttavia, dal momento in cui le casse dello Stato raschiavano il barile, la Tunisia si è ritrovata, soprattutto dal 2016 (fine della bonaccia degli aiuti soprattutto europei), a fare i conti con forti mobilitazioni delle classi subalterne nelle regioni più povere e marginalizzate del paese e ricorrere ai ricatti dopo le richieste di prestiti alle istituzioni finanziare internazionali (FMI).

Una di queste è la zona di Gafsa, protagonista di una vera e propria rivolta nel 2008 che diede inizio alla formazione dell’anima sociale della rivoluzione del 2011.

Questa zona, famosa per la presenza del bacino dei fosfati (in Nord Africa, la Tunisia è il secondo produttore preceduta dal vicino Marocco), è caratterizzato da una forte precarietà del lavoro e da una povertà generalizzata.

Le proteste, che si sono protratte negli anni del post-Ben Ali, hanno visto la partecipazione di giovani precari che chiedevano maggiori opportunità di impiego e un miglioramento delle proprie condizioni sociali. Le proteste degli ultimi anni, sono state contraddistinte da un forte sentimento anti-partitico e un’avversione generalizzata verso le sovrastrutture nazionali rigenerate nel post Ben Ali.

Molti dei giovani che hanno animato le mobilitazioni non avevano affiliazioni a partiti politici o sindacati, poiché oltre alla precarietà, che non gli permetteva di stringere rapporti con le organizzazioni, hanno provato sulla loro pelle gli effetti gli effetti dell’alleanze tra Stato, forze politiche e sindacati.

Questo fu evidente nelle lotte nell’arcipelago di Kerkennah dove nel 2016 un gruppo di giovani laureati (Unione dei Laureati Disoccupati, UDC, acronimo francese) aveva dato vita ad un presidio contro la precarizzazione del lavoro e contro la decisione dello Stato di non elargire aiuti economici, tramite assunzioni fittizie, all’interno dell’amministrazione pubblica.

Questa misura avrebbe dovuto avere luogo dopo la decisione dei due colossi energetici presenti nell’arcipelago, Thyna Petroleum Services (TPS) e Petrofac, di interrompere gli aiuti ai disoccupati accordati nel 2011 con il ministero delle finanze.

Quell’accordo nasceva dal presupposto che, secondo i cittadini, la presenza delle compagnie straniere doveva in qualche modo giovare al territorio.

Aiuti che consistevano alla creazione di posti di lavoro fittizi (senza contratto) e molto precari elargendo sussidi che non superavano mai i 200 euro mensili.

Tali situazioni si sono ripetute all’interno di altre zone marginalizzate del paese come la zona di Kasserine, ai confini con l’Algeria. In questa zona la disoccupazione giovanile nel periodo post-rivoluzionario aveva raggiunto cifre vicino al 30%.

Anche in questo caso, nonostante la presenza di una piccola industria di cellulosa (che impiega principalmente donne sottopagate) e una fabbrica di proprietà di Benetton, l’economia informale la fa da padrone e con essa la precarietà.

La zona si è contraddistinta, soprattutto a partire dal 2016, per ampie mobilitazioni che hanno portato a blocchi stradali seguiti da una forte azione repressiva da parte delle forze di sicurezza tunisine.

Inoltre, se dall’inizio della fase di transizione il potere tunisino aveva tentato di creare attorno a sé un blocco di sostegno di cui faceva parte la burocrazia sindacale, l’accendersi delle mobilitazioni ha di fatto rotto gli argini della pace sociale.

La Tunisia si è così ritrovata a far fronte ad una grave crisi economico-sociale che ha obbligato il paese a stringere ulteriori accordi con le istituzioni finanziarie internazionali (Fondo Monetario Internazionale) che hanno portato a tagli netti dei servizi pubblici essenziali e al graduale assottigliamento di quello che era il blocco attorno alla ‘nuova’ borghesia nazionale.

 

Mat Faruq

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