Il cinema di Michael Haneke è ben noto per la sua capacità di mostrare la falsità e la corruzione della società borghese. “Amour” approdò nelle nostre sale nel 2012, con plauso della critica e nomination agli Oscar per “Miglior film straniero”; quattro anni dopo, Haneke parte proprio dal finale del film appena citato: George Laurent (Jean-Louis Trintignant) è l’anziano pater familias, costretto a vivere su una sedia a rotelle dopo un fallito suicidio. Completamente privo di emozioni, decide di raccontare alla nipotina di come fu costretto ad uccidere la propria moglie per non vederla più soffrire a causa di un male incurabile (il finale di Amour). La nipotina, a sua volta, cela un altro segreto forse intuito dal nonno: l’uccisione della propria madre, vittima della depressione. Ecco il cinema di Haneke che prende forma: la forma ed il contenuto che punta sempre più ad un’evocazione del male, di una società contemporanea sempre più ipocrita, sempre più basata su falsi miti e valori vuoti, inesistenti.

“Happy End” è ambientato nella città di Calais (nel nord della Francia), dove la famiglia Laurent pare essere una dinastia regale in decomposizione. Oltre al decano George, ci sono i due figli Anne (Isabelle Huppert), che si occupa dell’azienda di famiglia, e Thomas (Mathieu Kassovitz) il padre della baby killer. Un tempo le famiglie borghesi d’Europa erano dipinte come un faro di luce per operai ed impiegati, datori di un lavoro stabile. Nel 2017, anche questo mito è morto. I Laurent non riescono a gestire i cantieri di cui sono proprietari, non hanno voglia, non mostrano impegno o preoccupazione. Importa solo salvaguardare le apparenze: diseredare il figlio di Anne, ormai completamente depresso e alcolizzato, oppure rifugiarsi nelle perversioni extraconiugali come fa Thomas, preso da una pornografica relazione online. Meglio ignorare la tempesta (il fallimento dell’impresa, i vari tentativi di suicidio di George, l’alcolismo dell’erede) sperando che passi da sola.

Haneke torna all’uso di una struttura narrativa frammentata: la regia, a differenza dei suoi ultimi lavori, torna a nutrirsi di un certo sadismo cinematografico appartenente all’Haneke di metà anni ’90. Per più di un’ora lo spettatore non riesce a capire il senso del film. Per un’ora si assiste ad un puzzle non ancora completato, in cui le riprese fisse di Haneke si alternano a video Periscope filmati dal cellulare della nipotina ed ogni scena sembra non necessitare di un seguito. “Happy End” sfocia, alla fine, nel grottesco, nel genere “dark commedy” perché, pare dirci Haneke, oggi la realtà è fin troppo seria per essere presa seriamente… meglio riderci su.

 

Sabrina Monno

 

Nata a Bari nel febbraio del 1996, laureata presso la facoltà DAMS di Bologna e studentessa presso Accademia Nazionale del Cinema, corso regia-sceneggiatura. Lavora prevalentemente in teatro, curando reading di lettura e sceneggiature.