La scalata politica fermata dalle manovre parlamentari
Pertanto, con la disfatta nei ministeri e De Gaulle in vacanza a Baden-Baden, la questione del potere fu oggettivamente posta. Ma praticamente non venne mai ragionata.

Per offrire una tanto necessaria soluzione di ricambio, Mitterand propose l’idea, per la prima volta dopo il 1947, di un governo Mendes-France con la partecipazione di ministri comunisti. Tuttavia presto capì che questo governo sarebbe stato “senza mescolamenti”, ovvero avrebbe attribuito pieni poteri alla sua composizione, al fine di fornire tutte le necessarie garanzie alla borghesia mentre il PCF avrebbe ricevuto il solito compito di organizzare il ritorno disciplinato al lavoro. [5]

Sentivo – confidò Mitterand cinicamente nelle sue memorie – che la presenza dei comunisti avrebbe rassicurato piuttosto che disturbato”. Oggi questa affermazione sembra temeraria. Egli sapeva, tuttavia, che né il suo ruolo né il suo numero all’interno del gruppo dirigente avrebbero dovuto spaventare le persone ragionevoli e che, nello stesso momento, la CGT e Seguy erano visti come l’ultimo baluardo di un ordine pubblico che il gollismo non poteva più garantire di fronte agli attacchi dei dilettanti della rivoluzione.

Fedeli alla loro vocazione, i leader riformisti proposero un governo di collaborazione di classe e di salvezza nazionale, anche se i negoziati trovarono un punto di stallo sui nomi.

Il 29 maggio, il PCF e la CGT sfilarono senza la CFDT (Confederazione francese democratica del lavoro) e l’UNEF (Unione Nazionale degli Studenti di Francia) al grido di “governo popolare!”.

Foto: Jean Claude Seine

Presenti al corteo abbiamo risposto: “sì al governo popolare! No a Mitterand Mendes-France!”. Il giorno dopo, le direzioni operaie si misero d’accordo…per piegarsi senza esitazioni al diktat di De Gaulle, sicuri di ritrovare un interlocutore con il linguaggio del potere costituito: da lì avrebbero potuto presentare agli operai il serpente degli Accordi di Grenelle ed abbandonare così i loro laboriosi negoziati con il governo.

La quasi inesistenza di un processo di autorganizzazione, che inglobasse i militanti dei partiti riformisti da un lato e le manovre strettamente parlamentari di questi partiti dall’altro, portò a conseguenze profonde e impreviste: la persistente difficoltà della maggioranza dei militanti del Maggio del ’68 a concepire l’articolazione concreta tra la mobilitazione sociale e la definizione di un risultato politico che prendesse la forma dell’unità dei partiti operai.

Ciò fu anche il risultato di una profonda distorsione economicista della maggioranza delle organizzazioni di estrema sinistra. I manifestanti divennero così felici nel differenziarsi dai riformisti nella protesta rivendicativa e di immaginare il processo rivoluzionario sul modello di un trabocco generale degli apparati riformisti in un “nuovo Maggio del ’68 portato a termine”.

Non sono state enucleate però tutte le conseguenze di un’altra grande lezione del Maggio: l’assenza di un partito rivoluzionario.

L’assenza di un partito rivoluzionario: combattività, coscienza, organizzazione. Come abbiamo detto, se nel Maggio 1968 vi fosse stato un partito rivoluzionario, sarebbe stato possibile di tutto.

Ma l’esistenza di tale partito non è un elemento supplementare, che viene solamente a sommarsi agli altri in una crisi rivoluzionaria. La sua presenza o la sua assenza condizionano i mezzi di coloro che non vogliono essere più governati come prima.

Pertanto, l’assenza di un partito rivoluzionario non costituì una semplice mancanza. Essa determinò l’intera velocità del processo: la massa non cammina.

C’è una mancanza in ogni fabbrica, in ogni stabilimento, in ogni quartiere da parte di quella manciata di militanti ritenuti autorevoli e capaci, in un momento di intensa ricettività delle masse, di suggerire e proporre la messa in moto della produzione e dei trasporti al servizio dello sciopero, o l’elezione di delegati revocabili e la loro centralizzazione a livello di località, regione, ramo.

Assenti quei militanti capaci di convincere una sezione sindacale, un’associazione locale, una federazione, in maniera che le prospettive diventassero il problema di un dibattito di massa nel seno del movimento operaio organizzato. Un’organizzazione così non esistette nel Maggio del 1968.

Questo fu il risultato non solo dei limiti immediati del movimento, ma anche della lentezza con cui si assimilarono e si meditarono le sue lezioni.

È solo l’inizio, continuiamo il combattimento!”: questa parola d’ordine, prima di fare il giro del mondo, risuonò spontaneamente nella manifestazione del 13 maggio del 1968. È solo un inizio…sì, ma non sapevamo fino a che punto.

I primi che ripresero lo slogan pensarono che si trattasse dell’inizio di una rivoluzione immediata che, strettamente connessa con la sua data, si sarebbe riunita nella storia con le sue gloriose sorelle di ’89, ’48 e ’71. Errore su ciò che era in gioco e sui ritmi: non fu che l’inizio, ma l’inizio di un periodo di lotta prolungato e di riorganizzazione in profondità delle forze politiche e sociali. E in questo senso siamo ancora nel Maggio del ’68.

Abbiamo anche parlato, facendo una lontana analogia con il 1905 in Russia, della “prova generale”. Prova generale, forse, nella misura in cui lo sciopero generale lasciò intravedere le possibilità di un sollevamento di massa della classe operaia e delle sue capacità per presentarsi come candidato al potere.

Però, a differenza del Maggio del ’68, la rivoluzione del 1905 in Russia consegnò al proletariato l’esperienza dei soviet, ovvero di organi di democrazia diretta tramite i quali gli sfruttati costruirono il loro proprio potere in contrasto alla macchina burocratica dello stato borghese. Il Maggio del ’68 inoltre non vide nemmeno l’emergere, a differenza dell’autunno del Portogallo del 1975, di embrioni di organi simili.

Questo ci permette di comprendere il potere di controllo degli apparati riformisti, le sue capacità di dirigere lo sciopero generale e il suo peso persistente in termini elettorali cristallizzatosi in cinque anni attorno al Programma comune e all’Unione della Sinistra.

La chiarezza e la brutalità della crisi del Maggio del ’68 mascherarono, pertanto, il lavoro necessario clandestino grazie al quale il movimento operaio deve ricostruirsi e ricomporsi fino a rappresentare una vera e propria alternativa rivoluzionaria contrapposta alla borghesia: non è affatto pericoloso che la sua memoria abbia nutrito, seppur marginalmente, la vecchia concezione anarchica dello sciopero generale che abbiamo preparato e decretato in alcuni settori sindacali (“e se fermiamo tutto…”) o semplicemente il mito cinematografico dell’“anno 1”.

Oggi comincia a rendersi possibile il bilancio del cammino percorso. Nella definizione delle rivendicazioni sindacali (aumenti lineari, scala mobile, diritto al lavoro), nelle richieste relative alla sicurezza e nelle forme di lotta (assemblee sovrane, comitati di sciopero in alcuni casi, avvio della produzione).

È inoltre necessario aggiungere le conquiste rappresentate dalle lotte degli immigrati, il movimento autonomo delle donne, la tradizione dei comitati dei soldati e le rivendicazioni regionali che rappresentano un primo mezzo naturale per accentrare le lotte. Bisogna prendere in considerazione poi i dibattiti che si sollevano nei sindacati, le idee che germogliano e inevitabilmente risorgeranno quando si testerà la fase pratica.

Il divario tra coscienza e combattività non si ripeterà più in futuro, arrivi come arrivi, allo stesso modo del Maggio del ’68.

Di conseguenza, i rapporti di forza in seno al movimento operaio sembrano evolversi con una lentezza infinita.

Gli apparati riformisti si sono costruiti su anni e anni di relativa pace sociale e di collaborazione assidua con la borghesia e per estrometterli sarebbero necessari forti scossoni. Cinque anni di situazione rivoluzionaria e prerivoluzionaria (dal 1918 al 1923) e una grave crisi economica non furono sufficienti per far sì che la burocrazia socialdemocratica perdesse il suo controllo sulla classe operaia.

Poiché ci fu un enorme ritardo della consapevolezza riguardo alla combattività, l’effetto del Maggio del ’68 sulla classe lavoratrice potrà essere avvertito solo in ritardo. Ma soprattutto, il Maggio del ’68 rimane un’esperienza fallita: dieci anni dopo, il tradimento elettorale del marzo 1978 lo ha completato.

Stiamo entrando in una nuova fase dove la ricomposizione del partito rivoluzionario può compiere un passo qualitativo.

 

Note

5. Mendes-France, primo ministro della repubblica tra il 1954 e il 1955, fu, come spiega l’autore, una delle ultime carte della sinistra riformista per evitare lo sfacelo del regime.

 

Daniel Bensaid

Traduzione di Lorenzo Montanari da La Izquierda Diario

Fonte originale danielbensaid.org

La Voce delle Lotte ospita i contributi politici, le cronache, le corrispondenze di centinaia compagni e compagne dall'Italia e dall'estero, così come una selezione di materiali della Rete Internazionale di giornali online La Izquierda Diario, di cui facciamo parte.