Negli ultimi tempi, a seguito dell’assassinio di George Floyd, l’attenzione pubblica mondiale si è concentrata sul tema del razzismo. I social network sono pieni di foto, video, discorsi pubblici e assemblee; tutti sembrano essere giustamente d’accordo nel dare la colpa alla polizia ed ai governi nazionali (a Trump ed al suo esecutivo, nel caso statunitense), ma in contesti come quello attuale torna sempre la necessità di sottolineare il ruolo di altri soggetti economici che agiscono indirettamente sulla marginalizzazione e la ghettizzazione degli oppressi, lungo linee di etnia, genere, sessualità. La politica governante liberale ha sempre provato a far sembrare che le istituzioni fossero nettamente separate dagli interessi e dalle azioni delle grandi aziende, ma ad occhio attento è ben visibile la complicità di questi colossi economici, talvolta velata, talvolta dichiarata, nell’organizzazione dello stato e della cultura di massa, finanziando ed appoggiando anche direttamente coloro che fomentano, indirizzano e perpetrano l’odio razziale. Economicamente e politicamente il razzismo serve in primo luogo a tutelare le borghesie nazionali, in combutta non solo con l’estrema destra reazionaria, che si presta come braccio violento e più esposto, ma proprio con quei partiti e rappresentanti che spingono la linea liberale e centrista, e che permettono alle aziende di perpetrare, nella stesura delle loro strutture interne, ma anche finanziando direttamente “terzi” atti ad operare al posto loro, le dinamiche del razzismo istituzionale. La maggior parte delle grandi forze economiche del capitalismo internazionale, in ogni paese del globo, necessita della separazione etnica e del dissidio interno che può venire a crearsi nella classe operaia per non perdere il controllo sulle masse; l’evergreen dividi et impera non passerà mai di moda finché la società resterà di struttura piramidale, e i suoi effetti sono visibili in una quotidianità che, molto spesso, è facile perdere di vista in tempi di discussioni di tale portata, come quelli che stiamo vivendo.
Un esempio pratico di ciò risale all’estate 2019: un gruppo di ragazzi anonimi dell’Istituto Tecnico Industriale Aldini Valeriani, conseguita la maturità, ha notato che una fabbrica di Material Handling del gruppo Toyota, attiva a Bologna dal 2014, mandava proposte di assunzione solo ad ex studenti di origine italiana; mentre studenti usciti col minimo dei voti venivano richiesti, coloro non d’origine italiana, pur possedendo cittadinanza italiana e voto d’uscita maggiore, venivano ignorati. A questo primo approccio, seguiva un colloquio con un referente anonimo che confermava l’osservazione: sembra che molte aziende preferiscano lavoratori di origine italiana a discapito di potenziali lavoratori di altra etnia, a prescindere da altre variabili della selezione di fabbrica, come il livello di scolarizzazione o il voto d’uscita dall’Istituto Secondario. Un approfondimento della questione, fatta per capire se si tratta di un metodo che la Toyota applica da tempo ed in massa, ha dato un esito interessante: Gianpietro Montanari, lavoratore Toyota (MHMI) e delegato FIOM, riporta che su 280 lavoratori all’attivo in officina, di stranieri, se ne trovano circa 25, di cui quasi 20 di questi filippini; un dato particolare se si confrontano le percentuali di stranieri in Italia di varie nazionalità. Tralasciando il perché, in Toyota, si scelgano proprio filippini, resta il fatto che, nell’azienda, venga attuata una vera e propria selezione etnica (91% di lavoratori italiani, 7% di filippini e solo un 2% di altri sfondi etnici). Non è detto, però, che questi meccanismi si applichino sempre nello stesso modo; un altro vantaggio di una classe operaia divisa etnicamente è il sovrasfruttamento di minoranze esposte e socialmente isolate, la stessa situazione si trova in altre realtà, però “ribaltata”: aziende con soli lavoratori stranieri sottopagati.
Queste scelte possono avere motivazioni pratiche tra le più varie: avendo una netta distinzione tra lavoratori italiani e di diversa etnia si otterrà una più facile gestione della classe lavoratrice. Si può ricondurre ad una prospettiva politica chiaramente reazionaria, di cui ovviamente i principali collaboratori politici indiretti sarebbero appartenenti a organizzazioni di destra che in Italia corrispondono ad esempio a Lega e Fratelli d’Italia, comunque anche la liberal-democrazia certo non si oppone a queste dinamiche.
Si tratta di tentativi di smistamento dei lavoratori ed isolamento ed esclusione di chi tra loro potrebbe essere o è già sindacalizzato; rallentamenti e sabotaggi a danno di sindacati a forte componente straniera, composti da basi più militanti e conflittuali, forti di rivendicazioni più radicali rispetto ai sindacati confederali, da decenni succubi delle politiche lavorative spinte dai governi della borghesia. Una ghettizzazione professionale sistematica e scientifica atta a separare stranieri ed italiani evitando legami emotivi e di interessi sindacali. Ovviamente, seguendo la linea liberale. non esiste alcuna legge che prevenga o condanni queste pratiche fascistoidi; sarebbe, dunque, giunto il momento di affrontare seriamente il discorso, in un’ottica di distruzione delle barriere che tengono divisa la classe operaia in questo paese. È ormai chiaro agli occhi di quasi tutti che non sia nell’interesse dello Stato borghese tutelare le minoranze che oggi sono attive e presenti nella società italiana: solo la lotta può riparare ai danni che, in tutta Italia e in tutto il mondo, grandi imprenditori, banchieri, padroni, politici manipolatori, fascisti e regnanti prima di loro hanno causato.
Andrea Selmi
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