L’8 e 9 giugno si voterà per i cinque referendum abrogativi su lavoro, precarietà e sicurezza promossi dalla Cgil, ai quali si è aggiunto il quesito sul diritto alla cittadinanza, per i quali sono state raccolte oltre quattro milioni di firme. Sebbene lo strumento referendario non sia il terreno migliore per condurre il conflitto di classe, dato che passivizza e subordina i settori combattivi di classe operaia alla volontà della maggioranza interclassista, esprimiamo il nostro pieno sostegno ai cinque quesiti. Questo non in quanto la loro approvazione cambierebbe sensibilmente i rapporti di forza, ma al contrario un eventuale mancato raggiungimento del quorum rafforzerebbe governo e padroni. Il peso politico della sconfitta ricadrebbe sulla burocrazia Cgil, ma sarebbero i lavoratori e le lavoratrici a subirne gli effetti peggiori.


 

5 si al referendum: le nostre motivazioni

I quesiti referendari in materia di lavoro riguardano: l’abrogazione del decreto 23/2015 che aboliva l’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori; la cancellazione del tetto massimo di risarcimento ai lavoratori delle piccole imprese; la liberalizzazione dei contratti a termine e del precariato e l’abolizione delle norme che impediscono di estendere la responsabilità degli infortuni sul lavoro alle imprese appaltanti. L’ultimo quesito propone di portare a 5 il numero di anni di residenza necessari per poter richiedere la cittadinanza (contro gli attuali 10). Da notare che le controriforme del mondo del lavoro di cui si propone l’abrogazione sono state varate durante governi di “centrosinistra”, ovvero i governi Prodi e Renzi. Contro tali misure i sindacati confederali chiamarono solo poche date isolate di mobilitazione – come lo sciopero generale di 4 ore a Jobs Act già approvato alla camera del 2014 – pur di evitare scontri frontali con governi che davano maggiori sicurezze alle burocrazie di mantenere un proprio limitato ruolo di contrattazione. Pertanto è ora necessario, e indispensabile, anche interrogarsi con quale credibilità gli stessi sindacati possano chiedere alle masse di votare contro queste stesse misure contro cui non si erano sufficientemente battuti quando era necessario.

Il considerevole supporto popolare ai cinque quesiti referendari, segnalato dal successo della raccolta firme, tuttavia, è certamente un dato da accogliere positivamente e che mette in luce una forte voglia di cambiare rotta di settori non residuali della classe lavoratrice in Italia. Inoltre i quesiti referendari sono in controtendenza rispetto alle azioni del governo attuale, pertanto saranno un banco di prova sul quale misurare una polarizzazione a sinistra di una fetta di popolazione di fronte alle crescenti spinte reazionarie di criminalizzazione del sindacalismo, sia conflittuale che concertativo. In questo contesto, privo di grandi mobilitazioni unificanti, il successo dei referendum rappresenterebbe una parziale buona notizia per la classe lavoratrice. Questo non per una presunta capacità dei quesiti proposti di alterare significativamente i rapporti di forza esistenti nel paese, dato che nessun referendum può di per sé raggiungere tale scopo poiché norme, leggi e istituzioni rispecchiano molto più di quanto non determinino, i rapporti tra le classi. L’esperienza dei referendum degli anni ‘70 mostra che sono i grandi processi di lotta di classe a portare alla vittoria importanti quesiti referendari, non viceversa. Al netto di tutto, il successo dei referendum dell’8-9 giugno rappresenterebbe comunque un segnale di tenuta della classe lavoratrice, creando un ‘precedente’ che potrebbe migliorare il terreno del dibattito relativo a come costruire una reale lotta alla precarizzazione e alla marginalizzazione dei lavorator* immigrat*. Per questo, il punto centrale non è quanto la strategia della burocrazia Cgil e il suo operato siano condivisibili, bensì gli effetti che un mancato raggiungimento del quorum produrrebbe nei rapporti di classe. Senza alcun allarmismo, sembra difficile da contestare che la sconfitta dei quesiti offrirebbe una grossa sponda a governo e padroni, regalando loro elementi propagandistici e materiali per portare avanti politiche antioperaie. Detto questo, rimane comunque necessario interrogarsi sul metodo del referendum e sulla politica della burocrazia Cgil, unendo il sacrosanto incoraggiamento al voto ad un’analisi dei motivi che hanno portato in prima istanza a questa situazione.

 

I limiti del referendum: dalla rivolta sociale alla “rivolta” con il voto? La nostra rivolta è la lotta!

Così come è stato proposto, il referendum risulta nel concreto uno strumento per dare uno sbocco più controllabile a scioperi e manifestazioni anche di considerevole entità, smorzando quindi il conflitto di classe defluendo in un molto più controllabile e a-conflittuale “voto”. A cavallo tra il 2024 e l’inizio del 2025 ci sono stati importanti scossoni di lotta dei lavoratori, in particolare nei trasporti e tra i metalmeccanici, oltre ad altri settori che si mobilitano più facilmente su scala numerica minore come la logistica. Dopo aver chiamato con la Uil uno sciopero generale a fine novembre, la Cgil non ha investito nulla per dare continuità alla mobilitazione. Come avevamo notato a suo tempo, la giornata era stata decisamente meno rituale rispetto ad altri scioperi chiamati con modalità simili nel passato, sebbene nelle strategie della burocrazia l’indizione dello sciopero generale non abbia mai rappresentato una tappa in un processo più generale di mobilitazione contro il governo, risultando piuttosto una valvola di sfogo alle frustrazioni operaie. Difatti, invece di dare slancio al movimento operaio unendo le varie vertenze per il rinnovo dei contratti nazionali in settori strategici a partire dal metalmeccanico, la Cgil ha fatto tutto il possibile per spezzare il fronte, rifiutandosi di indire grandi manifestazioni nazionali a Roma e dividendo le mobilitazioni in scioperi spesso isolati e separati tra di loro per settore, territorio, grandezza delle aziende. È abbastanza emblematico come tramite la campagna referendaria si sia passati dallo slogan di Landini della “rivolta sociale” – invocata proprio a novembre dello scorso anno dal segretario generale – ad un più rassicurante “la nostra rivolta è il voto”.

Si riproduce così la perenne posizione riformista per cui il voto – che sia per un partito istituzionale o, come in questo caso, per un referendum – sia fondamentalmente l’unico modo di lottare rimasto in mano ai lavoratori e alle lavoratrici, relegando gli scioperi, le manifestazioni e l’organizzazione vera e propria come strumenti gregari, secondari e in definitiva più simbolici che altro. Questa drammatica sottovalutazione della forza dei lavoratori e delle lavoratrici organizzati è la responsabile del deterioramento delle condizioni di vita di milioni di salariati in Italia, i quali hanno perso l’8,7% del valore reale dei propri stipendi negli ultimi quindici anni (dati Organizzazione Mondiale per il Lavoro, marzo 2025) e hanno visto tutti i servizi primari pubblici diventare di più difficile accesso, dai trasporti alla sanità. Per quel che riguarda il quesito 5, favorire la riduzione dei tempi per ottenere la cittadinanza è un passaggio positivo per unire la classe. Però, al contempo sostenere che il voto sia il mezzo principale per ottenere conquiste produce come risultato la passivizzazione della sempre più importante porzione immigrata della classe lavoratrice la quale nella gran parte dei casi è esclusa dalle urne. Se peraltro questi settori fossero stati resi protagonisti di una mobilitazione avrebbero probabilmente avanzato rivendicazioni ben più radicali di quella espressa tramite il quesito referendario, il quale mira ad accorciare i tempi ma non va ad incidere su tutti gli altri ostacoli che i lavorator* immigrat* subiscono per ottenere la cittadinanza, come gli elevati requisiti di reddito. Va inoltre sottolineato come la subordinazione dei lavoratori stranieri sia causata principalmente dalle leggi che criminalizzano l’immigrazione, le quali rendono difficile l’ottenimento di una condizione regolare nel nostro paese.

 

Rafforzare l’organizzazione dal basso dei lavorator* e dare battaglia a governo e Confindustria.

Decenni di passivizzazione della classe lavoratrice non potranno essere spazzati via con un semplice referendum, se questo non è accompagnato da una rivitalizzazione e una radicalizzazione del corpo del sindacato vero e proprio. Sarebbe necessario, innanzitutto, che sulla questione del voto – come sulla preparazione dei giorni di sciopero che sono ancora in vista – si stimoli il più possibile il protagonismo e la radicalità dei lavoratori e delle lavoratrici per ottenere i rinnovi dei contratti nazionali, difendere le condizioni di lavoro e contrastare la repressione. Governo e Confindustria sono all’attacco praticamente su tutti i fronti e i lavoratori e lavoratrici non sono sempre pronti a respingerli.


In definitiva è chiaro che anche una ipotetica vittoria per tutti i quesiti referendari non rivoluzionerebbe i rapporti di forza all’interno della società. È anche dubbia l’ipotesi avanzata da alcuni che i quesiti referendari siano un’opportunità per dare nuovo slancio alla mobilitazione generale dei/delle lavoratori/lavoratrici sindacalizzat*. Come abbiamo visto in questi mesi, e ormai a poche settimane dal voto, non si sono sviluppati comitati di sostegno al referendum caratterizzati da ampio coinvolgimento di settori di lavorator* e giovan* , mentre la partecipazione popolare alla campagna è stata al massimo tiepida. Questo conferma ancora una volta come il momento elettorale non crei movimenti non esistenti, ma al massimo rifletta le tendenze presenti nella società. Al netto di tutto ciò, tatticamente parlando, sarebbe controproducente e sbagliato ignorare del tutto il referendum. Va incoraggiata quella parte di lavoratori e lavoratrici che, oltre a guardare con disgusto le politiche padronali degli ultimi decenni, si attivano più frequentemente.
Bisogna già ora andare oltre la data del voto, organizzare assemblee per discutere come affrontare le burocrazie sindacali ultra concertative, collegare lavoratori e lavoratrici di diversi settori e iscritti a diverse organizzazioni sfidando il settarismo dei sindacati di base, sostenere quei piccoli gruppi che già ora si mobilitano contro le politiche passate e presenti dei governi. Chiaramente questo non è un lavoro semplice e immediato come richiedere un voto, ma è ciò che potenzialmente sul lungo periodo può realmente modificare i rapporti di forza e costruire il terreno per vittorie future.

Massimo Civitani

Gianni Del Panta

 

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).