Il movimento universitario che si ritrova in assemblea nazionale in questo fine settimana a Bologna muove dalla critica alla riforma Bernini e al taglio ai finanziamenti. Limitandosi a questo rischia però di riprodurre più che scardinare il modello di università esistente. Questo articolo discute perché le critiche al sottofinanziamento e alla precarizzazione non siano sufficienti e perché l’assemblea precaria deve guardare al movimento studentesco piuttosto che agli strutturati per costruire la propria mobilitazione.
In vista dell’assemblea nazionale che si terrà a Bologna in questo fine settimana sono usciti numerosi articoli che provano a fare il punto sulla mobilitazione nelle università e a immaginare ulteriori sviluppi per il movimento. Data la composizione della propria redazione e la rete di collaboratori di cui dispone, la rivista Jacobin è quella che forse più si è spesa in tal senso. Questo è certamente un merito. Al tempo stesso però, ci sembra di poter dire che Jacobin sia anche l’espressione più nitida di una certa incapacità di proporre una critica più generale al modello di università liberista, proponendo soluzioni e parole d’ordine che tendono più a migliorare l’esistente che a metterlo in discussione. Di questa tendenza è emblematico l’articolo di Giacomo Gabbuti. La polemica che qui proponiamo non deve essere intesa, in alcun modo, come rivolta in maniera specifica all’autore, ma investe una serie di prese di posizione che il pezzo di Gabbuti condensa. Mentre infatti l’articolo risulta particolarmente utile per mappare lo stato di avanzamento del movimento di protesta e per avere contezza delle mobilitazioni messe in campo dalle varie assemblee precarie a livello locale nei mesi passati, soffre anche di due gravi criticità. La prima è la prospettiva generale attorno alla quale è costruito. La seconda è invece il rapporto tra la componente precaria e gli strutturati. Le due questioni possono essere poste singolarmente. Il nodo delle alleanze deriva però dalla prospettiva generale. Conviene quindi partire dalla prima per giungere alla seconda e non viceversa.
Il pezzo di Gabbuti indica come prospettiva generale di lotta l’opposizione alla riforma Bernini e ai tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO). Come ci dice l’autore stesso, occorrerebbe “organizzare una resistenza all’altezza della sfida e prepararsi a un contrattacco che imponga nel paese il tema del ri-finanziamento dell’università”. La parte conclusiva dell’articolo specifica questa prospettiva ancora meglio, auspicando una risposta “che pretenda il rifinanziamento, la stabilizzazione dei precari e un vero diritto allo studio”. Immaginando che qualsiasi tipo di istituzione possa funzionare meglio se ben finanziata e con un numero ridotto di dipendenti in permanente lotta per vedere il proprio contratto rinnovato, Gabbuti ha ragione perché non può avere torto. Ponendo l’asticella degli obiettivi della mobilitazione a un livello così basso che le richieste avanzate non hanno neanche un carattere blandamente riformista, Gabbuti non ci fornisce però delle parole d’ordine dalle quali partire e sulle quali costruire una mobilitazione. Propone piuttosto un semplice truismo.
Quanto ci preme non è però suggerire quello che tutti sanno (e cioè che avere più risorse sia auspicabile), ma aprire un dibattito serio su cosa sia l’università attuale e quella alla quale aspiriamo. Il punto del contendere è quindi ben diverso da quello tracciato (o per meglio dire, non tracciato) da Gabbuti. E lo si inizia a chiarire quando ci domandiamo se un’università con un accresciuto corpo docente, una significativa riduzione numerica della componente precaria e un finanziamento più cospicuo sarebbe strutturalmente diversa da quella che noi abbiamo di fronte oggi? La risposta, a mio parere, è palesemente negativa. Poco o niente cambierebbe infatti in termini di sapere prodotto e trasmesso, meccanismi di selezione, dinamiche dipartimentali, rapporto tra componente docente e studentesca, e via scorrendo. Per discutere di come incidere su questi aspetti è necessario partire dalla funzione dell’università nella società odierna. Il modo migliore per farlo è attraverso il concetto di stato integrale di Antonio Gramsci.
Lo Stato integrale di Gramsci
Nei Quaderni, Gramsci parla di Stato integrale come momento di sintesi tra società politica e società civile, ovvero egemonia corazzata di coercizione. La società politica è per Gramsci lo stato in senso stretto, ovvero gli apparati repressivi (polizia, esercito, magistratura…) che svolgono primariamente una funzione di coercizione. La società civile è invece l’insieme degli apparati ideologici (scuola, università, partiti, sindacati, confraternite religiose, media…) attraverso i quali la classe dominante legittima il proprio dominio, portando settori più o meno ampi di classe lavoratrice ad accettare la propria subordinazione. A differenza di quanto sostenuto da Perry Anderson, la relazione tra società politica e società civile non è antinomica, ma dialettica. Egemonia e coercizione non sono quindi due forme qualitativamente distinte, quanto piuttosto momenti differenziati di un progetto politico unitario. Tale progetto si sviluppa sotto l’egemonia dello Stato – inteso non come un insieme neutro di istituzioni, ma organo di dominio di una classe sull’altra.
Da questa analisi deriva una conclusione chiara su cosa sia l’università nella società attuale. Mentre la retorica dominante la presenta come ambito di studio libero e appassionato, questa è un apparato ideologico dello Stato che è funzionale a garantire la preservazione dello stato di cose presenti. Da questa caratterizzazione, varie correnti della sinistra comunista fanno derivare una feroce ritrosia per tutto ciò che viene, proviene o riguarda l’ambito universitario. Nella loro prospettiva, tutto sarebbe ‘borghese’ e quindi non utilizzabile ai fini di un progetto di emancipazione. Tale conclusione è falsa su un duplice piano.
Da un lato, l’università attuale, al netto di tutta una serie di storture – iper-settorializzazione, sfrenato ricorso ai metodi quantitativi, parametrizzazione della ricerca, produzione infinita di articoli in serie – continua a produrre sapere. È un sapere che avviene all’interno di ontologie ed epistemologie che hanno quasi sempre alla base premesse che sono apertamente diverse dalla nostra. E in un certo senso, non potrebbe essere diversamente. Eppure, nella sua necessità di creare gigantesche banche dati, di misurare ogni ambito della nostra esistenza, di creare centri studi che non hanno alcun precedente nella storia dell’umanità, il sistema vigente fornisce anche strumenti per progetti anti-capitalisti. Tali strumenti non sono immediatamente servibili. Non si può fare un semplice copia-incolla. Gli studi elettorali, ad esempio, indagano, tra le altre cose, il rapporto tra voto e classi sociali concettualizzando queste seconde come fasce di reddito e non come una relazione. Quanto si ottiene è quindi molto spurio da un punto di vista marxista. Eppure non è “falso” di per sé. Contiene molto che può essere “tradotto” e utilizzato per fini completamente diversi.
Dall’altro lato, come ogni ambito della società civile, l’università non è semplicemente un apparato che produce egemonia per la classe dominante. Per quanto in maniera profondamente diseguale data la sperequazione di risorse a disposizione, è anche un ambito nel quale le varie classi sociali competono per ottenere la direzione sociale e politica sugli altri settori. Proprio perché in questa battaglia, seguendo ancora Gramsci, gli intellettuali giocano un ruolo cruciale, l’università (che ovviamente non è strettamente sovrapponibile a questi, ma che certamente ne comprende una fetta rilevante) è centrale. In altri termini, è un terreno privilegiato di confronto e scontro ideologico. Tutto ciò che si produce nelle università ha quindi un riflesso, per quanto piccolo e impercettibile, nei rapporti tra le classi. E il problema principale di avere una mobilitazione che si batta meramente per un maggior finanziamento, come vorrebbe Gabbuti, è proprio quello di accettare implicitamente la vulgata dominante dell’università come luogo neutro di apprendimento e ricerca. Nella parte finale dell’articolo riprendiamo il filo qui tracciato. Facciamo però una piccola pausa e affrontiamo la seconda criticità dell’articolo di Gabbuti, ovvero quella delle alleanze necessarie che la componente precaria deve tentare di costruire per dar vita a un possente movimento di contestazione.
Perché si guarda in alto, quando il vapore proviene dal basso?
In termini di alleanze da costruire, Gabbuti sembra partire da un’implicita considerazione che condivido: i precari della ricerca non sono in grado di farcela da soli. Le ragioni sono molteplici: la dispersione ambientale delle lavoratrici e dei lavoratori (molte città, molti dipartimenti, spesso a lavoro in solitaria da casa), l’assenza di una minima tradizione di lotta nel settore e la perdurante retorica, in parte rigettata in parte accettata e riprodotta, di gruppo di fortunati pseudo-freelance intellettuali in attesa della futura stabilizzazione. Quest’ultima è una rara evenienza dopo la fine del dottorato: solamente 1 su 10 riesce. Come in ogni gioco ad eliminazione, la percentuale di chi ce la fa cresce al passaggio di ogni scalino nella tormentata trafila del precariato accademico. Chi vince riceve come premio la “meritata” trasformazione da vittima in carnefice del sistema. Se le precarie e i precari di oggi non vogliamo diventare i boia di domani devono quindi costruire un’università diversa. Con chi farlo?
Gabbuti accenna brevissimamente nel suo articolo al movimento studentesco, ma poi si concentra sugli strutturati. Il rapporto con questi è stato spesso oggetto di discussione nelle varie assemblee locali del movimento precario. Preme quindi un chiarimento. L’errore di Gabbuti è duplice. Da un lato, sovrappone la discussione sulla sindacalizzazione con quella sulla mobilitazione. L’idea di una sindacalizzazione del comparto universitario è certamente una novità positiva che è emersa con una certa forza in questa ondata di proteste. Non è completamente nuova, ma l’insistenza con la quale è stata posta mi sembra inusuale. È in gran parte il riflesso di come è cambiata la composizione interna del corpo docente. Questo non solamente deriva sempre più spesso da famiglie piccolo-borghesi piuttosto che dalla media borghesia e dalla nobiltà (come tipico nel periodo pre-università di massa), ma soffre di crescenti carichi di lavoro e condizioni salariali che, almeno fino al livello di professori ordinari, avvicina i docenti universitari più a settori privilegiati di classe lavoratrice che a funzioni dirigenziali. Si tratta di una battaglia importante e con numerosi risvolti utili. Personalmente la sostengo in pieno. Ma il rapporto tra sindacalizzazione e mobilitazione, come sanno bene tutti gli studiosi di movimenti sociali che animano la rivista Jacobin, non è lineare. Non lo è perché non necessariamente a livelli più alti di sindacalizzazione corrispondono livelli più alti di mobilitazione. Ma soprattutto non c’è sovrapposizione tra sindacalizzazione e mobilitazione perché il principio quantitativo sfuma nelle proteste, lasciando spazio a quello qualitativo. Non si tratta quindi di indicare una formula algebrica, ma di comprendere il rapporto tra le parti. E nel caso specifico, gli strutturati – piaccia o non piaccia – sono il ceto attraverso il quale il liberismo dell’università è riprodotto, mentre gli studenti e le studentesse sono i soggetti penalizzati. Esiste inoltre una considerazione sul potenziale mobilitativo a disposizione. E qui il pendolo va ancora, e decisamente, a favore della componente studentesca. Solamente questa è in grado di dar vita ad un movimento di protesta con carattere di massa, capace di durare nel tempo e che possa realmente mettere in discussione l’istruzione universitaria attuale. Quanto successo in Argentina e in Serbia negli ultimi mesi è una pesante conferma al riguardo. Gli strutturati possono certamente contestare una riforma e alcuni aspetti specifici del sistema. Nel complesso però sono i beneficiari relativi del liberismo accademico. Relativi perché il liberismo ha comunque creato numerosi effetti negativi sulle loro condizioni di lavoro e di vita. Beneficiari però perché un maggior precariato in entrata è funzionale al mantenimento della loro posizione di potere – dato che spesso giocano un ruolo fondamentale nel favorire alcune carriere e nel bloccarne altre – e spesso per la propria produzione accademica – sempre più spesso oggi legata, anche nelle scienze umane, a progetti, fondi e pubblicazioni congiunte, che richiedono ovviamente un gruppo di subordinati. Non è un caso che il taglio del FFO andasse a braccetto, nelle intenzioni della ministra Bernini, con una riforma del pre-ruolo che lo precarizza ulteriormente. Cosa è questo se non un chiaro tentativo di strizzare l’occhio agli strutturati? Togliamo con una mano, ma non temete, con l’altra vi rendiamo una manodopera ancora più precaria e sfruttabile. Questo non significa, lo diciamo a scanso di equivoci, che tutti gli strutturati siano organicamente legati al progetto liberista di università che l’intero arco parlamentare, con piccole sfumature di colore, condivide. Una minoranza lo avversa, almeno a parole. E quando il movimento studentesco crea una mobilitazione di massa, una parte di questa minoranza di strutturati scivola anche al suo fianco nel turbine della contestazione. Ma come una mela che precipita per la forza di gravità non riesce a imporre una parabola specifica alla propria caduta, così gli strutturati non hanno capacità di azione indipendente.
L’appello di Gabbuti è quindi scorretto e condanna il movimento precario alla sterilità. Quanto si deve fare è esattamente l’opposto. Si deve cioè partire dalla collaborazione con il movimento studentesco. Su che basi ci può essere collaborazione?
Per un’alleanza tra movimento precario e componente studentesca
In un precedente articolo, avevo provato a tracciare delle linee di ragionamento in tal senso. Per una serie di motivi abbastanza evidenti, due aspetti in particolare legano la componente precaria a quella studentesca: il diritto all’abitare e alla mobilità. In maniera interessante, altri temi sono stati introdotti dalla piattaforma dell’assemblea nazionale di Bologna. Uno di questi è oggi centrale: una ferma battaglia contro la militarizzazione delle università in uno scenario che vede tornare prepotentemente protagonista l’economia di guerra in Europa, e non solo. Questa battaglia incontra nuovamente gli studenti in generale – rispetto a chi finanzia le università e a cosa i corsi di studio propongono – e il movimento che si batte a favore della Palestina in particolare. Oltre a questo, servono poi alcune parole d’ordine che abbiano una capacità di legare la battaglia “spiccia” contro la riforma Bernini e i tagli a una visione diversa di università. Non si tratta qui di immaginare a freddo l’università che vorremmo, ma di avanzare delle rivendicazioni che possono favorire una mobilitazione su basi anti-liberiste. Per avviarla ne propongo quattro: (a) possibilità di pubblicare non più di un elaborato, libro o articolo che sia, all’anno per finalità di valutazione scientifica – colpendo così la logica del “pubblica-o-muori” che impoverisce la ricerca e impone carichi di lavoro e di stress mostruosi a chi non gode di una posizione fissa in università; (b) cancellazione di tutte le figure attuali e creazione di una sola figura pre-ruolo della durata massima di 3 anni selezionata in concorsi nazionali e non locali, e di una sola figura di professore o professoressa di ruolo – colpendo così il sistema gerarchico accademico; (c) impossibilità assoluta per le imprese private o statali di finanziare o co-partecipare alla ricerca accademica; ed infine (d) completo smantellamento della cosiddetta autonomia universitaria, che mette gli atenei in competizione tra di loro, e del meccanismo dei grant, che copre, come correttamente suggerisce Lorenzo Zamponi sempre su Jacobin, una parte crescente del finanziamento e del reclutamento.
Quanto proposto qui non è un pacchetto chiuso di proposte. Al contrario, è un tentativo di aprire un dibattito che vada oltre una mera critica alla riforma Bernini e ai tagli. Le due giornate di assemblea nazionale a Bologna saranno decisive in tal senso.
Gianni Del Panta
Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).