Quando si parla di “zingari” si fa volgarmente riferimento per lo più a Rom e Sinti, etnie accomunate dalla lingua Romaní. È proprio attraverso lo studio di questo idioma che è possibile tracciare una straordinaria storia di spostamenti secolari: i filologi hanno individuato nel Romaní radici di sanscrito, oltre che parole di origine persiana, curda, armena, greca.
A partire dalla caduta dell’impero bizantino, i gitani si spostarono verso i Balcani, per poi penetrare definitivamente in Europa.
Una costante nella storia di rom e Sinti è sicuramente la piaga della discriminazione. Già le cronache bizantine individuano nella vita nomade e nell’arte divinatoria praticata da alcuni di loro un’ispirazione satanica. Saranno accusati, nell’ordine, di essere spie turche ed espulsi in massa nel Regno d’Ungheria, di aver portato la peste in Italia, di aver provocato gli incendi che travolsero Praga sotto il regno di Ferdinando I di Germania, il quale promulgò la prima legge ad hoc contro il popolo nomade, bandendolo dall’impero. Nel 1545 la Dieta di Augusta stabilì che non fosse reato uccidere un gitano.
Col tempo alcuni sovrani illuminati tentarono di mitigare i rapporti coi gitani, ma furono tentativi drammaticamente irrispettosi, tesi a spogliarli di ogni loro tradizione.
Una storia millenaria di maltrattamenti, espulsioni ed asservimento che non poté che offrire al regime nazista, secoli dopo, un nuovo capro espiatorio da coinvolgere nella logica di sterminio che avrebbe visto morire ben 500.000 persone tra sinti, rom e camminanti.
Neanche nei campi di concentramento questi riuscirono a scrollarsi di dosso le insensate discriminazioni: ad Auschwitz erano segregati in una sorta di ghetto separato dagli altri, in cui era possibile la convivenza di uomini e donne. Ai primi venivano iniettati virus e batteri per esperimenti sulla sopravvivenza dell’organismo malato in condizioni estreme, alle loro donne veniva imposto, nude, di riscaldare i corpi dei loro aguzzini o quelli congelati in seguito ad altre folli sperimentazioni.
Il racconto di quanto subito nei campi di concentramento dai gitani fu opera degli ebrei, degli altri prigionieri del campo, ma mai dai diretti interessati che, dopo la strage che definiscono “Porrajmos”, si dispersero senza far rumore. I sopravvissuti non dimostrarono interesse a rendere la loro storia parte della memoria collettiva occidentale ed ogni spiegazione al riguardo sarebbe mera illazione.
Le ragioni assurgono al mistero che da sempre avvolge questo popolo, un mistero millenario che ha attraversato indenne l’avvicendarsi dei secoli caratterizzandosi per una componente enigmatica ed irrisolta che si è rivelata motivo di paura e condanna.
I nomadi facevano e fanno ancora paura perché rappresentano qualcosa che la civiltà occidentale stenta a ricomprendere nelle sue rigide categorie: anzitutto, l’incapacità di legare le proprie radici ad un luogo specifico, il perenne bisogno di spostarsi. Una necessità da maneggiare con cautela e che non va idealizzata troppo romanticamente se si considerano le vicissitudini storiche che spesso e volentieri hanno imposto importanti migrazioni. Questa è però senz’altro da considerarsi una ragione di diffidenza, che li ha spinti a vivere ai margini delle città e dei centri abitati.
Il principale pregiudizio che fino ai giorni nostri attanaglia questo popolo è quello della tendenza a rubare. Va ricordato allora che i rom sono sempre stati per lo più artigiani, giostrai, domatori di cavalli, abili lavoratori di metalli. La graduale scomparsa di questi lavori, insieme allo stato di discriminazione ed emarginazione sociale da sempre sofferto, ha portato inevitabilmente una parte della comunità a dedicarsi ad attività illecite.
Questo di certo non giustifica la mole di xenofobia che riesce a concentrarsi contro i rom ancora ai giorni nostri: qualche anno fa poliziotti greci sottrassero ai figli una bambina bionda dagli occhi azzurri arrestandoli anche per rapimento solo perché ritenevano assurdo attribuire loro la genitorialità di quel fenotipo. Fatti del genere non fanno che fomentare gruppi di facinorosi che, sempre nello stesso periodo, tentarono più volte di rapire bambini rom dai tratti occidentali. Superfluo risulterebbe poi enumerare tutte le ingiurie pubbliche che queste etnie sono costrette a subire ogniqualvolta un esponente di estrema destra prenda parola per guadagnarsi consenso a suon di odio e populismo.
Storicamente l’esperienza sovietica è stata l’unica ad offrire ai nomadi un’opportunità di reale emancipazione dal pregiudizio nel rispetto della loro cultura e delle loro tradizioni.
In seguito alla Rivoluzione d’Ottobre si affermò, con la Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, il diritto all’autodeterminazione anche del popolo rom, che non poteva in alcun modo essere escluso dal godimento della propria libertà nella società socialista, ma neanche poteva sottrarsi alla sua necessaria costruzione.
Furono avanguardisti dell’intelligencija rom pre- rivoluzionaria a pregiarsi di gran parte di uno straordinario lavoro: si recarono nei campi, nei mercati e nei luoghi di aggregazione delle comunità gitane per sradicare la mendicità e la chiromanzia attraverso la diffusione della cultura. Distribuirono libri, giornali, crearono un sindacato e fondarono l’Unione Panrussa Rom, che in poco tempo acquistò importanza in tutta l’Unione Sovietica. Fu fatto comprendere ai gitani quanto potessero guadagnare dalla costruzione del socialismo, quanto importante fosse avere voce in capitolo in quel rivolgimento storico e, soprattutto, che il tutto sarebbe stato portato avanti nel pieno rispetto della loro millenaria cultura. Furono inaugurate opere teatrali, corsi di studio in romaní, una lingua che non aveva un alfabeto, il quale fu prontamente creato.
Molti furono i rom che decisero di abbandonare il nomadismo ed andare ad abitare nelle grandi città, ma non era questa l’unica prospettiva disponibile. Per loro sorsero anche le prime fattorie collettive oltre ad alcune cooperative industriali ed ogni Repubblica Sovietica cominciò a mettere a disposizione delle terre perché fossero coltivate da queste comunità che intrapresero, in tal modo, un reale percorso di emancipazione ed integrazione.
La stalinizzazione gradualmente spazzò via parte di questi progressi che rivelarono però la loro resistenza nel tempo quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, la comunità rom sovietica pagò il suo tributo in soldati schierati nella resistenza al nazismo. Circa 35.000 furono i rom sovietici massacrati durante il Porrajmos (l’Olocausto rom di cui sopra), mentre in centinaia si unirono ad altre esperienze partigiane in Ucraina ed in Bielorussia.

Oggi, cento anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, un esempio tanto fulgido di inclusione sociale sembra ridicolmente distante dalla realtà. L’economia capitalista in crisi non potrebbe mai supportare progetti simili: altre sono le priorità. Anzitutto, tenere ben divisi gli ultimi dagli emarginati, fomentare l’odio verso quel che risulta difficile comprendere, fare in modo anzi che diventi sempre più difficile da comprendere.
Così un millenario museo ambulante, mosaico di culture di ogni epoca e provenienza, è relegato ai margini della società, tacciato d’ogni male, circondato da medievali suggestioni.
Fabrizio De André, che ai gitani per il loro vagare millenario senz’armi avrebbe voluto conferire il premio Nobel per la pace, scrisse sul loro drammatico sterminio ad opera dei nazisti una canzone struggente e meravigliosa: Khorakané (a forza di essere vento).

Il cuore rallenta la testa cammina,
in quel pozzo di piscio e cemento,
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento.

Porto il nome di tutti i battesimi,
ogni nome il sigillo di un lasciapassare.
Per un guado una terra una nuvola un canto,
un diamante nascosto nel pane,
per un solo dolcissimo umore del sangue,
per la stessa ragione del viaggio viaggiare.

Il cuore rallenta e la testa cammina,
in un buio di giostre in disuso,
qualche rom si è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro.
Saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura,
nei sentieri costretti in un palmo di mano,
i segreti che fanno paura.
Finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace.

I figli cadevano dal calendario,
Jugoslavia, Polonia, Ungheria,
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via.

E poi Mirka a San Giorgio di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere.

Ora alzatevi spose bambine
che è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi,
anche oggi si va a caritare.

E se questo vuol dire rubare,
questo filo di pane tra miseria e sfortuna,
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio,
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio.

Čvava sero po tute
i kerava
jek sano ot mori
i taha jek jak kon kašta
vašu ti baro nebo
avi ker.
kon ovla so mutavla
kon ovla
ovla kon aščovi
me ğava palan ladi
me ğava
palan bura ot croiuti. [*]

[*]
Poserò la testa sulla tua spalla
e farò
un sogno di mare
e domani un fuoco di legna
perché l’aria azzurra
diventi casa
chi sarà a raccontare
chi sarà
sarà chi rimane
io seguirò questo migrare
seguirò
questa corrente di ali.

 

Rosa Scamardella

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