La dimostrata debolezza dell’impianto istituzionale (e della fiducia pubblica in esso) del sistema statunitense non hanno neanche tempo di far sperare i comunisti: quello che ci aspetta, dopo l’irruzione al Congresso di oggi, è il tetro presagio della repressione, che pagheranno sempre i più esposti della società. Tuttavia, arrendersi non è nei piani di nessun*.
Sembra quasi il culmine del percorso partito quattro anni fa, con il trionfo del presidente simbolo del mito ultracapitalistico americano: dopo una folta manifestazione davanti alla Capitol Hill, i sostenitori di Donald Trump si sono riversati nelle stanze marmoree del Congresso americano, senza un reale intento oltre a quello di fermare il voto in corso, dove si stava decidendo se il tentativo legale-politico del Partito Repubblicano di mettere in discussione l’esito del voto di Novembre, in particolare per quanto riguarda quanto avvenuto nello stato dell’Arizona, avrebbe potuto anche solo pensare di avere seguito. Già ampie fasce del GOP si erano espresse contrariamente all’ipotesi di contestare la legittimità delle urne, e molto probabilmente avremmo assistito ad un voto simile a quello che poi si è effettivamente materializzato. Tuttavia, nei giorni passati, diversi legislatori (capeggiati dal Senatore Ted Cruz, dello Stato del Texas, il quale aveva personalmente “pennato” il più recente tentativo di inversione del risultato elettorale), avevano cercato di rinforzare nel dibattito pubblico, sui social media e nei vari mezzi mediatici “mainstream”, quelle narrazioni che hanno contraddistinto tutta la carriera politica del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti: “Non ce ne andremo in silenzio, difenderemo la libertà,” aveva detto Cruz a una manifestazione per Kelly Loeffler e David Perdue (i candidati senatoriali per la Georgia dei repubblicani), e gli aveva fatto eco il collega Louie Gohmert, il quale affermava che “dovremo essere violenti come gli Antifa”. Fomentando i fuochi della “cospirazione”, hanno legittimato migliaia di sostenitori di Trump da ogni angolo del paese, dall’utenza “di massa” del Partito Repubblicano, i conservatori vecchio stampo di matrice “libertaria di destra”, fino ai neofascisti più incalliti, che hanno usato questi quattro anni per consolidare i propri sforzi di reclutamento in ogni angolo del paese. Questa massa distinta/indistinta si è infine riversata di fronte alle stanze Congressuali, nella giornata di ieri, e durante il dibattito parlamentare si è introdotta nell’edificio, danneggiando quanto trovava sul suo percorso e scatenando una rocambolesca “caccia all’uomo” per trovare i parlamentari, datisi alla fuga per evitare potenziali danni. All’apice di questa scena surreale, uno sparo partito non si sa bene da dove ha tolto la vita a una delle manifestanti, aprendole il collo proprio all’ingresso della Camera dei Deputati, dove di li a poco diversi di questi personaggi avrebbero fatto a turno a farsi delle foto.
In questo quadro delirante, oggi ci troviamo ad osservare lo stato del paese più influente della storia contemporanea dell’umanità. Nell’humus sociale ed economico creato dalle politiche neoliberiste sia dei Democratici, i quali hanno improvvisamente riscoperto le parole d’ordine del “pugno duro” dopo un anno passato a dipingersi come paladini della protesta di popolo (nonostante la repressione di Black Lives Matter sia stata particolarmente accentuata in stati come il Minnesota o la California, roccaforti Dem), sia dei Repubblicani, che hanno accelerato l’impoverimento di ampie fasce della popolazione lavoratrice statunitense, fin dagli anni del reaganismo, andando anche a toccare componenti “tradizionali” della propria “voter base”, e addossando tutta la colpa della situazione ad un “big government” che esisteva solo nei sogni dei più predatori dei broker di Wall Street, ma creato anche dalle fondamenta culturali stesse degli Stati Uniti, fondamenta caratterizzate da un portato coloniale, razzista, sfruttatore, patriarcale ma soprattutto contraddistinto dal mito della “rigenerazione sociale attraverso la violenza” (l’idea per la quale il conflitto sia quanto permette alla società di autocostituirsi in una nuova forma di se stessa), generato durante i primi decenni dell’espansione occidentale dei primi “settlers”, col massacro delle comunità indigene; in questo, incredibile, cocktail di caratteristiche e dinamiche, vediamo anche il germe di quello che è successo nelle scorse ore. Un popolo tradito, bombato di droghe sociali come il maccartismo, l’odio razziale, il mito della nazione più grande del mondo che necessita di soldati per difendersi da “minacce” montate in aria, che siano esse interne o esterne: tutto questo, per un’occupazione durata poche ore e finita sì, con una persona disgraziatamente uccisa per un proiettile vagante, ma fondamentalmente innocua, che non ha ottenuto altro che la posticipazione dell’inevitabile. E allora basta, no? Tutto finito. Ci si può scherzare su e andare avanti, una ciliegina sulla torta per la “presidenza dei meme”: chiudere in bellezza quattro anni da ottovolante.
Peccato che la realtà, come al solito, ci imponga di porci degli interrogativi, neanche in quanto marxisti, ma come persone oneste intellettualmente: la nazione più militarizzata del pianeta ha appena visto una folla entrare, armata, all’interno delle stanze del potere legislativo, di fatto bloccando un procedimento che, nel quadro legale della questione, risulta ad oggi perfettamente legittimo. Ripeto: la nazione più militarizzata del mondo. Ad un certo punto, se consideriamo che questo sia lo Stato che ha bombardato un intero quartiere per la presenza di militanti neri e socialisti nel 1985, a Philadelphia, che ha dispiegato centinaia di militari e poliziotti in assetto antisommossa per le fasi iniziali del movimento Black Lives Matter lo scorso anno, il quale, con l’eccezione dell’assalto alla caserma di polizia di Minneapolis, era partito in maniera estremamente pacifica, che ha sparato ad un uomo mentre dormiva per il solo fatto di essere un Comunista, un Rivoluzionario, e un Uomo Nero, che ha spiato e represso interi movimenti sociali per decenni, facendo scomparire attivisti e attiviste nel nulla come se niente fosse, viene quasi spontaneo credere che un avvenimento del genere, ove non espressamente “voluto” (anche se non ci sarebbe motivo di stupirsi, realmente, se fosse così), quantomeno sia stato permesso, su più livelli. La polizia dell’area metropolitana di Washington D.C. ha praticamente aperto le porte ai manifestanti, dopo pochi minuti di “resistenza” da parte della divisione in bicicletta (!!!), con poliziotti a destra e a manca intenti a farsi dei selfie con chi, teoricamente, poteva essere legalmente considerato un terrorista. Solo dopo che è morta una persona si è pensato fosse il caso di passare il testimone del controllo della situazione alla Guardia Nazionale (non si intenda questa osservazione come un’invocazione ad essa; è semplicemente per fare appello alle supposte linee guida che lo stato americano userebbe per “contenere le rivolte”, linee guida che, come vediamo, vengono puntualmente tradite): nel paese dove la violenza statale è un rito consacrato della dialettica politica, fa sorridere vedere la sessione che, poi, ha ripreso, in una fanfara melodrammatica dove i primi pensieri, da parte di tutti i presenti, erano per “i rappresentanti delle forze dell’ordine che sono stati feriti nel tentativo di salvaguardare le istituzioni democratiche”. Come non ci chiediamo che fine abbia fatto Clark Kent quando Superman si adopera a salvare dei civili, non possiamo, oggi, dirci stupiti dell’ennesima prova della complicità tra quella stessa polizia che reprime lavoratori, comunità indigene e di colore e studenti nelle strade e coloro che, queste comunità, vorrebbe vederle legalmente distrutte e sfruttate dallo Status Quo (il quale, prontamente, si adopera per renderle tali).
Al netto di tutto, spicca un dato politico oltremodo importante: la serata di ieri ha solo confermato le osservazioni di quanti avevano, da tempo, indicato il decadimento dell’intero assetto istituzionale statunitense: la crisi economica, la pandemia, il consequenziale arricchimento di settori ampissimi di borghesia (direttamente proporzionale all’impoverimento strutturale dell’intera classe operaia degli U.S.A.), l’esacerbazione delle tensioni razziali in tutto il paese, si sono aggiunte al tradimento percepito dal 99% degli americani da parte dei loro “rappresentanti”, siano essi Democratici o Repubblicani: ma questo decadimento origina da una campagna mediatica eterodiretta ai fini della conservazione del potere di un avventurista, o ha invece delle radici profonde, originarie dell’intero dogma politico statunitense? Definiamo democratico, uno stato in cui i diritti democratici dei lavoratori e delle comunità di colore vengono ostacolate nei secoli da processi razzisti come la segregazione, l’incarcerazione di massa o il “gerrymandering”? Definiamo “democratico” un paese in cui l’esercizio di tali diritti democratici viene contrapposto e contrappesato da un’oppressione dettata da un divario economico che non fa altro che crescere dal secondo dopoguerra? Come pensiamo di poter guardare, oggi, insieme a tanti “progressisti” di casa nostra, le scene che ci si spiegano davanti, dopo un anno di sommosse sociali, e rabbrividire per “il decadimento/il rischio che vive la democrazia”, quando la legge dell’esclusione è la norma della potenza imperialista più grande del mondo? Non abbiamo tempo per sentirci male per la corte di Nancy Pelosi e dei suoi Democratici, inclusa la famosa “squad”, il gruppo di progressist* guidato da Alexandria Ocasio Cortez, che, nel mezzo di una pandemia, non è nemmeno in grado di fare quello per cui è stata eletta, e tentare di forzare un voto al Senato per l’introduzione del Medicare4All, il quale permetterebbe l’accesso pubblico e gratuito a trattamenti sanitari al 99% della popolazione. Non abbiamo tempo per guardare le fondamenta dell’edificio istituzionale americano finalmente venire a patti con la bestia che esso stesso ha creato. In questo, forse, la principale speranza per i militanti d’oltreoceano: il re è sempre più nudo, le istituzioni sono deboli, e non solo il “voto democratico” non può “fermare il fascismo”, ma ne abuserà quanto più può tornargli comodo per mantenersi stabile al potere.
Perché, in fondo, se uscirà qualcosa da questa situazione, con ogni probabilità, ci è stato indicato proprio da quei calorosi momenti di elogio bipartisan delle squadracce di Stato: pur non avendo materialmente guadagnato nulla, nel merito di quanto stava venendo discusso durante la sessione, la sceneggiata dell’uomo-bisonte ha quantomeno aperto la possibilità di una tetra e rinnovata conversazione: quella della repressione statale. Tra scroscianti applausi, tra le righe possiamo leggere la volontà statale di rafforzare i sistemi securitari dello stato capitalistico, magari attraverso un simil-Patriot Act, vittima del quale, ovviamente, non sarebbero realmente i trumpisti incalliti, principalmente del ceto medio bianco; a subire, sarebbero sempre gli stessi: i militanti e le militanti socialiste, la classe operaia, i sindacalisti combattivi, le comunità di colore, gli immigrati e gli attivisti lgbtqia+. Così è sempre stato, così sarà sempre. Con l’aggiunta di un’ultradestra che, oggi, trova nella marea nera di ieri potenziale legittimazione ad avanzare dove conta realmente: non nella stanza di un potere già da tempo esautorato dalla popolazione, in quanto a fiducia, ma nelle strade sanguinose degli Stati Uniti, dall’Alabama al West Virginia fino alla California, dove tantissim* compagn*, da domani, avranno paura a mettere la testa fuori da casa per paura di ripercussioni. Su questo, rimandiamo all’utile discorso dei compagni statunitensi di Left Voice sull’abolizionismo e l’autodifesa delle comunità oppresse, una conversazione che, quantomeno, è già avviata, e nelle problematiche giornate che verranno l’imperativo strutturale della difesa delle comunità potrebbe diventare ancora più impellente di quanto non lo sia stato in passato.
Il lavoro dei compagni e delle compagne non staremo certo noi, a determinare quale sarà. Ciononostante, sembra che sia arrivata una conferma ulteriore del fatto che, anche a livello politico-istituzionale, il capitalismo e lo stato liberal-democratico suo vassallo non possono fare altro che tutelare gli interessi delle classi dirigenti di tutto il mondo: di certo, il modo per ribaltare la situazione non può essere la collaborazione con le istituzioni democratiche e rappresentanti “progressisti” capaci di parlare un secondo col linguaggio della protesta e quello subito dopo con quella del manganello o della pistola: l’asse democratico-reazionaria è più forte che mai, consapevolmente o inconsapevolmente, e si foraggia e si mantiene ad ogni giorno che passa. In questi momenti, la rivendicazione dell’indipendenza politica della classe operaia sembra assumere una dimensione ancora più totalizzante di quanto già non occupi: potrebbe essere una questione di vita o di morte, materializzabile in ogni casa, in ogni strada e in ogni quartiere, dalle fabbriche, fino alle scuole e oltre i confini. Per ora, andiamo a dormire con l’immagine macabro-satirica dell’uomo bufalo, che nella sua cavalcata porta presagi di un mondo difficile, ma affrontabile, con gli strumenti della solidarietà che tanto rivendichiamo, ma che proprio in queste ore diventano ancora più importanti del solito.
Luca Gieri
Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.