Riceviamo e pubblichiamo, come corrispondenza esterna, un contributo da parte di un compagno attualmente in Francia, come parte del dibattito in corso sul presente crocevia che si trova ad affrontare il paese mitteleuropeo dopo la dissoluzione dell’assemblea nazionale dello scorso nove di Giugno.

Emergono riflessioni sulle tendenze storiche del neoriformismo e sui punti programmatici della coalizione del Nuovo Fronte Popolare, di cui abbiamo già parlato in questo articolo: sono stimoli che aggiungono ad una discussione che, per noi, passa anche attraverso la possibilità che il Fronte ponga, attraverso la sua visione del ruolo che un programma dovrebbe assumere entro una campagna politica, scenari di smobilitazione degli importanti processi di lotta che hanno attraversato la Francia, così come sulla natura di classe delle candidature che compongono il Fronte e quelle che per noi (e per le nostre compagne di Revolution Permanente) dovrebbero essere candidature della classe lavoratrice, per trasformare i parlamenti borghesi in luoghi in cui “tribuni del popolo” possano farsi esponenti delle lotte reali che partono dalla classe lavoratrice e dalle oppresse. Accogliamo con favore questi contributi e invitiamo tutt* coloro fossero interessat* a mandare contributi attraverso i nostri contatti, per arricchire i dibattiti su cui centriamo il lavoro politico che speriamo possa aprire la strada a processi realmente rivoluzionari.

 

La forma semipresidenziale che si è data la Repubblica francese talvolta accende nel presidente in carica l’esigenza di lanciarsi in machiavellici numeri da equilibrista. Spesso il motivo riguarda il rischio di cohabitation, una situazione di governo instabile in cui il presidente della Repubblica e il parlamento francese, costituito dall’Assemblée Nationale e dal Sénat, non hanno gli stessi colori politici. Ciò significa che il governo non ha la maggioranza in parlamento e il presidente è dunque costretto a “coabitare” con un primo ministro all’opposizione.

Nel caso attuale, lo scarto da colmare è causato dalla perdita di popolarità di Emmanuel Macron e dalla crescita costante dell’estrema destra, soprattutto a seguito di un’elezione europea in cui Rassemblement National ha staccato di gran lunga tutti gli altri partiti, prendendo il 31% dei voti. Il presidente è stato finalmente posto di fronte all’evidenza, ovvero il fatto di risultare insopportabile alla maggioranza schiacciante del popolo francese, a seguito di una serie di riforme devastanti per le classi popolari, il clima e lo stato di diritto dei cittadini. Oltre alla recente loi immigration, ritenuta una “vittoria ideologica” dalle frange razziste e neofasciste della destra, ricordiamo il colpo autoinflittosi dal macronismo con la riforma delle pensioni, per cui milioni di persone hanno bloccato il Paese durante le proteste del 2023.

Oggi, in Francia come un po’ ovunque, le masse esasperate rifiutano la favola liberale che vede opporsi un centro saggio, moderato e competente agli estremi radicali, assennati e violenti che vorrebbero gettare il mondo nel caos. Come Matteo Renzi nei suoi anni d’oro, Macron è uno degli ultimi esponenti di questa tendenza tecnocratica e prova una difficoltà immensa nel riconoscere la propria sconfitta di fronte all’entropia centrifuga con cui i popoli, chi a destra, chi a sinistra e chi verso l’astensione, si allontanano da un sistema fallimentare. La sua scelta di sciogliere l’Assemblée Nationale e indire delle elezioni legislative immediate è l’eloquente panico di chi ha finito le cartucce e non può fare altro che cercare nuovi alleati intorno a sé. Nello specifico, la volontà inespressa di governare con una coalizione di estrema destra è solo l’appendice di una coesistenza in parlamento già piuttosto amichevole negli anni passati, dal momento che il partito del presidente in carica ha votato l’approvazione di leggi sempre più spesso in linea con il Rassemblement National di Marine Le Pen, Reconquête – il partito ancora più estremista e xenofobo guidato da Éric Zemmour – e i Repubblicani. Non c’è da stupirsi: il patto sancito tra un neoliberismo borghese portato avanti a suon di privatizzazioni sul piano economico e un populismo fascista portato avanti a suon di discriminazioni sul piano culturale è figlio della nostra epoca, e l’Italia da questo punto di vista dà l’esempio a tutta l’Europa.

Tuttavia, a differenza del nostro Paese, la Francia può ancora vantare il privilegio di alcune forze di sinistra con una rappresentanza democratica sostanziosa: nel giro di quattro giorni dall’annuncio della dissoluzione delle camere, avvenuto domenica 9 giugno, contro tutte le aspettative queste forze sono riuscite a mettersi d’accordo per formare il Nouveau Front Populaire, una coalizione tra neoriformisti, socialdemocratici e socioliberali (da LFI ai Verdi) in grado di tenere testa, a giudicare dai sondaggi, alle forze oscure provenienti dall’ala nera. All’interno del fronte, il cui nome richiama la storica coalizione tra socialisti, comunisti e radicali che permise a Léon Blum di vincere le elezioni nel 1936, oggi sono ospitate le stesse forze che caratterizzavano la NUPES – Nouvelle Union Populaire Écologique et Sociale – nel 2022: socialisti, comunisti, ecologisti e la meteora elettorale de La France Insoumise, partito di sinistra relativamente recente fondato da Jean-Luc Mélenchon.

La NUPES in quell’anno ha sfiorato la presa del potere, ottenendo al primo turno appena 20000 voti in meno di quelli necessari a battere la coalizione presidenziale. Malgrado ciò, alle elezioni per il senato del 2023 le altre tre forze hanno escluso La France Insoumise a causa della sua mancanza di rappresentanza sul territorio. Infine, dopo l’operazione del 7 ottobre e la mancata condanna di Hamas da parte di LFI, sono aumentate le tensioni tra Mélenchon e i suoi alleati. Non a caso, la questione palestinese è un motivo di rottura tra la sinistra socialdemocratica e quella rivoluzionaria anche in vista di queste elezioni, in cui forze come Lutte Ouvriere, l’NPA-R e Revolution Permanente rifiutano l’adesione al fronte popolare.

Il programma di quest’ultimo risulta progressista e necessario sotto molti punti di vista: i primi 15

giorni di governo avverrebbe la rupture, ovvero aumento dei salari, tassazione dei più ricchi e abbassamento del prezzo dei beni di prima necessità, oltre che remunerazione degli agricoltori e abolizione della riforma delle pensioni voluta da Macron. Infine, alcune moratorie contro i progetti ecocidi in corso e un rilancio sulla questione abitativa, con un aumento dei fondi per le case popolari e gli alloggi d’urgenza. I primi 100 giorni, invece, prevedono riforme sul potere d’acquisto e contro i miliardari, finanziamenti a educazione e sanità, una svolta climatica e una lotta alle discriminazioni, oltre che misure a favore dei lavoratori e delle classi popolari. Indubbiamente un modello da cui prendere spunto. Tuttavia, per quanto riguarda due questioni in questo momento storico a dir poco essenziali, la coalizione perde qualsiasi credibilità: da un lato sostiene l’invio d’armi in Ucraina, stimolando gli affari portati avanti dalle industrie francesi sulla pelle del popolo ucraino e di quello russo; dall’altro condanna la resistenza palestinese e definisce Hamas un gruppo terrorista, limitandosi a parlare di “rischio di genocidio” e della dubbia soluzione dei due Stati nella Palestina occupata. Da questo punto di vista l’influenza del Parti Socialiste francese, dichiaratamente filo-israeliano, ha pesato sulle posizioni più radicali de La France Insoumise, che ha candidato la militante palestinese Rima Hassan, ora eurodeputata, al Parlamento europeo. A capo del PS, partito che negli ultimi anni ha ripetutamente tradito i lavoratori e le classi popolari – ricordiamo la loi Travail, la repressione poliziesca e le misure razziste e islamofobe – c’è Raphaël Glucksmann, beniamino dei media, filo-atlantista e dichiarato ammiratore di Sarkozy. Insomma un Macron 2.0, come lo definisce Contre Attaque, creato a tavolino per disgregare la sinistra e fare fronte a LFI di Mélenchon.

Con queste premesse viene da chiedersi se un’eventuale cohabitation tra Macron e il Front Populaire, per di più con una folta estrema destra all’opposizione, potrebbe risultare davvero al servizio del popolo francese. Senza un’opposizione a sinistra, La France Insoumise si troverebbe inevitabilmente trainata verso il centro dai compromessi con le forze politiche in gioco, finendo per deludere gran parte del proprio elettorato e aprendo nuovamente la strada all’estrema destra. Anche le misure più coraggiose proposte dal NFP rimangono pur sempre attuabili all’interno del panorama vigente, senza mettere davvero in discussione lo strapotere dei pochi e la mancanza di rappresentanza dei molti: servirebbero soprattutto a smorzare le tensioni sociali e a evitare il grave indebitamento pubblico a cui la Francia andrebbe incontro seguendo il dispendioso programma di LePen e Bardella. Ma senza intaccare realmente la posizione strategica della borghesia francese, senza rafforzare l’intervento statale e limitandosi a una ridistribuzione della ricchezza pubblica parziale e insufficiente, il Nouveau Front Populaire si troverebbe condannato a insoddisfare i suoi elettori. In quanto programma ibrido, desideroso di far rientrare a forza le ambizioni socialiste in un quadro capitalista più accettabile e meno rivoluzionario, sarebbe schiacciato tra le aspettative di un popolo affamato e galvanizzato dall’eventuale vittoria e i compromessi necessari di una democrazia rappresentativa in cui, per “mantenere l’ordine”, nessuno è libero di cambiare le regole del gioco. Già adesso l’accanimento degli elettori del Front Populaire sembra indirizzato più contro i partiti della sinistra rivoluzionaria, che hanno scelto di rifiutare quella che riconoscono come una vuota soluzione elettorale di fronte ai problemi del Paese, invece di criticare la presenza all’interno della coalizione di una figura discutibile come François Hollande, ex Presidente della Repubblica appartenente al PS, responsabile dell’ascesa di Macron e d’importanti offensive storiche ai diritti dei lavoratori, come la suddetta loi Travail. In generale, risulta difficile immaginare come i volti presenti tra le fila del Front Populaire possano risultare un antidoto efficace all’estrema destra, quella stessa estrema destra di cui hanno permesso e favorito l’avanzata nel circo democratico dei decenni passati.

La scelta di fare concessioni reazionarie sulla guerra in Ucraina e sull’occupazione in Palestina lascia intendere ancora una volta la contraddizione di fondo che anima la sinistra europea: l’internazionalismo e il decolonialismo vengono sacrificati sull’altare di esigenze nazionali, senza che il crollo dell’egemonia occidentale riesca ad aprire breccie e canali di comunicazione verso l’esterno. Chi lotta per un riformismo inoffensivo dentro il quadro vigente cerca di tamponare i bisogni delle classi più svantaggiate d’Europa, rese individualiste dalla crisi, senza scalfire il substrato profondo su cui si basano le disuguaglianze e le ingiustizie del nostro sistema. Così i salari, gli alloggi e le pensioni del popolo francese vengono finanziati con le bombe vendute a Israele e all’Ucraina, senza che venga presa una posizione netta riguardo ai crimini e alle disfunzionalità dell’Unione Europea e della NATO.

Mentre le forze progressiste nascondono la testa sotto il cuscino per non guardare in faccia la situazione geopolitica mondiale, chi non si tira indietro è l’estrema destra, che malgrado le varie istanze nazionalpopuliste confluisce lentamente in un quadro condiviso. Recente è la copertina dell’influente rivista The Economist, in cui vengono mostrati i primi piani delle tre donne che potrebbero cambiare il futuro di questa fetta di pianeta: Giorgia Meloni, Marine Le Pen e Ursula von der Leyen, quest’ultima in attesa di essere riconfermata alla presidenza della Commissione Europea, nelle prossime settimane. Il promettente trio potrebbe essere affiancato dal presidente Viktor Orban in Ungheria e da numerose forze altrettanto xenofobe, ultranazionaliste e neofasciste in ascesa in tutti i Paesi europei.

Le elezioni legislative in Francia sono dunque l’incarnazione del panorama politico attuale: quando le magiche formule degli economisti neoliberali smettono di funzionare e l’intera impalcatura scricchiola sotto i colpi della policrisi, è chiaro che un Emmanuel Macron – come un Joe Biden altrove – perde ogni attrattiva agli occhi del popolo esausto. Ciò che interessa non sono soluzioni furbe o aggiustamenti di bilancio, ma un cambiamento concreto, palpabile. La Storia diventa sempre più malleabile: nell’immaginario collettivo entrano forze immense quali eserciti e armi nucleari, cataclismi climatici e pandemie sanitarie. Per fare fronte a tutto ciò la classe dirigente, ovvero la borghesia da duecento anni a questa parte, cala due carte in tavola: da un lato il pericolo comunista è sempre stato l’unico degno avversario in grado di mettere in discussione questo sistema produttivo, dunque è necessario anestetizzare ogni proposta radicale proveniente dalla sinistra con una forza elettorale socialdemocratica, mansueta e accettabile. Dall’altro, si ripropongono concetti del dizionario fascista quali “ordine” e “sicurezza”, traducibili rispettivamente come “repressione” e “discriminazione”, applicabili dentro e fuori i confini nazionali. La presa di potere del governo Meloni rappresenta bene il momento di passaggio in cui l’estrema destra smette di essere una frastornante moda dell’odio e dell’ignoranza per diventare uno spianante e calcolato progetto politico, micidiale stivale di ferro con cui un’élite spaventata e pronta a tutto continua a calpestare gli strati sottostanti. Non a caso la premier italiana ha virato verso un educato filo-atlantismo e una gestione diplomatica delle relazioni con gli altri membri dell’UE, parabola politica di allineamento al sistema vigente che verrebbe senza dubbio imitata da un eventuale governo di Rassemblement National in Francia.

Nonostante tutto, è evidente che per qualsiasi arabo, nero, donna, omosessuale, militante, studente, lavoratore o sans-papiers francese la differenza tra un governo del Front Populaire e un governo del Front National è totale, clamorosa, travolgente fin dentro i dettagli della propria vita quotidiana. È questo fattore ad alimentare il clima di tensione percepibile nella campagna elettorale in corso. Tuttavia una volta valicati i confini francesi questa differenza sfuma, sfuma sempre di più fino a disfarsi nel fuoco e nelle macerie della striscia di Gaza, nei droni e nei carri armati inviati a Est, cavalli di Troia per poter sfruttare in futuro le risorse di un’Ucraina ultra-indebitata e alla mercé dei mercati occidentali. Sfuma infine nella condanna che i posteri faranno del genocidio in corso e dei complici che l’hanno finanziato, che essi siano socialdemocratici o fascisti.

Alla luce di questa condanna, la domanda da porsi è se ci sarà scritto Front Populaire o Front National, sulla lista di coloro che hanno scelto di salvare se stessi sacrificando tutto il resto.

Costantino Bovina

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