Pubblichiamo la traduzione di un articolo scritto da Jimena Vergara per Left Voice, che – all’interno di un’ampia ricostruzione storica – esplora la relazione tra la lotta di liberazione palestinese e il concetto di rivoluzione permanente, rifacendosi alle idee del rivoluzionario ebreo palestinese Jabra Nicola. 

Si tratta di una problematica che riguarda la strategia rivoluzionaria, spesso non adeguatamente affrontata all’interno del movimento di solidarietà internazionale, ma che riveste un’importanza cruciale. Sebbene l’articolo intervenga nel dibattito a sinistra degli Stati Uniti, esso solleva argomenti validi anche nel contesto europeo e italiano. Al centro di queste riflessioni vi è la crescita di organizzazioni neo-maoiste come il PSL (Party for Socialist Liberation) nel movimento di solidarietà per la Palestina negli USA, e delle posizioni politiche riformiste (se non esplicitamente, nella sostanza) e ‘campiste’ che esse hanno assunto di recente. Il problema, infatti, è che queste formazioni hanno puntato tutto su una strategia di pressione di piazza sulla presidenza Biden, invece di mettere al centro il ruolo decisivo della mobilitazione della classe lavoratrice nel boicottaggio di Israele in quanto perno dell’imperialismo statunitense e occidentale. Inoltre, la loro postura positiva verso il diritto internazionale e le Nazioni Unite evidenzia l’idea che la risoluzione della questione palestinese possa passare attraverso le risoluzioni ONU piuttosto che attraverso l’organizzazione di un piano di lotta di classe a livello regionale in Medio Oriente. Se ciò è vero negli Stati Uniti, non è diverso in Europa. Infatti, come abbiamo ripetutamente sottolineato, il ruolo di Israele come cane da guardia degli interessi occidentali rappresenta il punto cruciale nella lotta di liberazione palestinese e dei popoli del cosiddetto Sud del Mondo. Non basta rivendicare un sostegno incondizionato alla resistenza, ma è necessario pensare a una mobilitazione regionale e internazionale capace di far emergere le contraddizioni di classe legate alla questione palestinese e di sfidare apertamente l’oppressione coloniale israeliana e lo sfruttamento imperialista. 

Riprendere la concezione della rivoluzione permanente non è un semplice esperimento volto a dimostrare scientificamente una legge o una teoria, ma implica piuttosto comprendere le connessioni tra fattori internazionali e locali nei meccanismi che regolano i rapporti di classe all’interno di un determinato contesto. Comprendere questo significa affrontare importanti questioni strategiche, che, soprattutto nel dibattito all’interno del movimento di solidarietà internazionale, sono, nel migliore dei casi, trattate con soluzioni astratte (come la “soluzione sudafricana”), o, nel peggiore, sono del tutto assenti, poiché ancora legate alla ormai superata proposta dei due Stati.


Determinare collettivamente l’orientamento della lotta per la liberazione palestinese è un compito fondamentale sia per i palestinesi a Gaza e le masse arabe nella regione, sia per il movimento globale contro il genocidio, che si è manifestato in diversi paesi imperialisti, in particolare negli Stati Uniti.

Una parte fondamentale di questo impegno consiste nel comprendere le enormi forze sociali in gioco in Palestina, che hanno trasformato questa regione del mondo arabo nell’epicentro di una crisi globale: la rinnovata crisi dell’imperialismo globale. La tragedia del brutale progetto coloniale di Israele in Palestina è, da un lato, l’espressione delle conseguenze più sanguinose del declino dell’imperialismo; e dall’altro, dal basso, è diventata un grido di battaglia per tutti gli sfruttati e gli oppressi nel mondo, che si sentono rappresentati dalla resistenza eroica delle masse palestinesi contro l’imperialismo, il razzismo e il colonialismo. Lo Stato di Israele rappresenta l’estremo mostruoso della destra internazionale, nemica della classe lavoratrice e degli oppressi ovunque, dall’Argentina agli Stati Uniti. In questo contesto, la liberazione palestinese è nell’interesse dei miliardi di persone sfruttate e oppresse in ogni angolo del mondo. 

Trovare un percorso vittorioso verso l’emancipazione palestinese richiede di comprendere come queste colossali forze sociali — internazionali, regionali e locali — si scontrino e quali dinamiche di classe si esprimano nel contesto del genocidio a Gaza. Con questo, possiamo costruire una strategia di liberazione che possa identificare amici e nemici, collegando l’urgente autodeterminazione del popolo palestinese con la rivoluzione socialista nella regione. Una tale strategia promuoverebbe l’unità delle masse in tutto il Medio Oriente nel liberarsi dal giogo dell’imperialismo e dalle catene delle proprie borghesie e governi autoritari, e spingerebbe settori del proletariato israeliano a rompere con il sionismo e l’agenda coloniale di Israele.

A nostro avviso, questa connessione — quella tra la lotta per l’autodeterminazione palestinese e la lotta per il socialismo nella regione — è inequivocabilmente inscritta nella teoria della Rivoluzione Permanente di Lev Trotsky. Fu forse il trotskista palestinese Jabra Nicola ad applicare più sistematicamente la teoria alla lotta per la liberazione della Palestina, caratterizzando lo Stato sionista di Israele da una prospettiva di classe e anti-imperialista e analizzando le dinamiche di classe regionali per mostrare il potenziale rivoluzionario del proletariato arabo della regione circostante.

Come scrive la storica Josefina L. Martínez (2024): 

«All’epoca, Trotsky osservò che la teoria della Rivoluzione Permanente riuniva tre insiemi di idee. Prima, la transizione dalla rivoluzione democratica alla rivoluzione socialista. Secondo, la rivoluzione in quanto tale, cioè il periodo di transizione tra capitalismo e socialismo, che comporta “rivoluzioni nell’economia, nella tecnica, nella scienza, nella famiglia, nella morale e nella vita quotidiana [che] si sviluppano in complessa azione reciproca e non permettono alla società di raggiungere l’equilibrio”. Infine, il terzo aspetto è il carattere internazionale della rivoluzione socialista. Ed è proprio l’interazione di queste tre dimensioni che conferisce a questa teoria un’enorme rilevanza oggi».

Nel presente articolo miriamo a dimostrare la validità e la rilevanza di questa serie di idee al fine di elaborare una prospettiva strategica per la liberazione palestinese, facendo affidamento sulle elaborazioni di Lev Trotsky, Jabra Nicola e storici come Ilan Pappé, Ussama Makdisi, Ran Greenstein, Zachary Lockman, Gabriel Godorezky e Pierre Broué. Non ripeteremo i fondamenti della teoria della Rivoluzione Permanente come dogma, ma tenteremo invece di metterli in movimento alla luce della recente storia e della situazione attuale in Palestina sullo sfondo di una crisi dell’imperialismo mondiale. Lo faremo utilizzando le tre idee che formano il nucleo della teoria della Rivoluzione Permanente di Trotsky, utilizzandole per navigare nei momenti fondamentali della storia palestinese e per recuperare la storia delle idee e del programma della sinistra rivoluzionaria; contrastiamo questo con le idee avanzate dalle direzioni del movimento per la liberazione palestinese, che hanno in gran parte rifiutato di immaginare un futuro socialista per la Palestina in particolare, e per il proletariato arabo in generale.

La Palestina non era una terra senza popolo 

Come spiega lo storico israeliano Ilan Pappé (2017), la Palestina era tutt’altro che vuota prima della Nakba del 1948:

«La Palestina era una parte fiorente del Bilad al-Sham (la terra del nord), o Levante arabo. Allo stesso tempo, un’industria agricola ricca, piccoli paesi e città storiche servivano una popolazione di mezzo milione di persone alla vigilia dell’arrivo sionista». 

Entro la fine del XIX secolo, la popolazione palestinese non era trascurabile e includeva una piccola percentuale di ebrei. La stragrande maggioranza dei palestinesi, come in molti altri paesi di quello che ora è spesso chiamato “Sud globale”, erano contadini organizzati in villaggi di circa 1.000 abitanti. Le città in via di sviluppo attiravano élite istruite che tendevano a stabilirsi lungo la costa e nelle zone montuose, mentre, a partire dal XX secolo, la penetrazione imperialista stava progressivamente dando forma a un proletariato palestinese nascente e in espansione nelle città.

Pappé cita archivi storici dell’Impero Ottomano per dare un’istantanea della composizione della società palestinese nel XIX secolo: 

«La percentuale esatta di ebrei prima dell’ascesa del sionismo è sconosciuta. Tuttavia, probabilmente variava dal 2 al 5%. Secondo i registri ottomani, una popolazione totale di 462.465 persone risiedeva nel 1878 in quello che oggi è Israele/Palestina. Di questo numero, 403.795 (8%) erano musulmani, 43.659 (10%) erano cristiani e 15.011 (3%) erano ebrei» [ibid.].

Prima che il Mandato britannico fosse imposto sulla Palestina nel primo dopoguerra, l’Impero Ottomano stava sviluppando una concezione della propria dominazione sempre più esplicitamente razzista. A metà e alla fine del XIX secolo, emerse l’idea che l’essere turchi potesse essere equiparato all'”ottomanismo”, spingendo le élite benestanti e istruite in Palestina a mettere in discussione la propria identità nazionale e le proprie affiliazioni politiche. 

Come dimostra lo storico Ussama Makdisi (2002) in “Ottoman Orientalism”, l’intellighenzia, al servizio dell’Impero Ottomano, sviluppò un sistema di gerarchia razziale per differenziare i membri turchi dell’impero da altri gruppi etnici, inclusi gli arabi in generale e i palestinesi in particolare.

In questo contesto, i sentimenti nazionalisti si stavano diffondendo in tutta la Palestina e nel resto del Medio Oriente, alimentati anche da un potente concetto che stava rimodellando la geopolitica sotto la spinta delle rivoluzioni borghesi e della riorganizzazione delle ex colonie: la nazione.

Durante la Prima Guerra Mondiale, i britannici incoraggiarono le lotte dei popoli del Medio Oriente contro l’oppressione dell’Impero Ottomano per indebolire l’influenza ottomana nella regione e garantire migliori posizioni per l’imperialismo britannico. Parte di questa politica era fare promesse ai popoli arabi che avrebbero ottenuto l’autodeterminazione dopo aver spezzato il controllo dell’Impero, alimentando di fatto sentimenti nazionalisti in tutta la regione. Nel frattempo, la Gran Bretagna negoziò un trattato segreto con la Francia e altre potenze mondiali su come spartirsi l’Impero Ottomano dopo la guerra, portando i popoli della regione sotto il controllo di nuovi oppressori imperialisti.

Queste idee incipienti di autodeterminazione nazionale, tuttavia, non poterono svilupparsi o materializzarsi perché, a seguito della caduta dell’Impero Ottomano, i britannici presero il controllo della Palestina in un momento in cui l’Inghilterra — la potenza imperiale più prominente dopo la Francia — dominava la politica della regione. Entrambe le potenze europee, oltre ad avere interessi strategici in Palestina, avevano già forti legami con le forze sioniste dei propri paesi.

L’intervento imperialista dei primi tre decenni del XX secolo fu strumentale nella formazione di una complessa struttura sociale in Palestina. Lo storico Enzo Dal Fitto (2023), attingendo al lavoro del trotskista palestinese Jabra Nicola, descrive così tali dinamiche: 

«Tra il 1917 e il 1939, le condizioni di sviluppo economico furono profondamente influenzate dallo sviluppo di un’economia sionista nel Mandato Britannico, distruggendo così il feudalesimo arabo e impedendo lo sviluppo di una borghesia capitalista, provocando una stagnazione dello sviluppo storico e di un esaurimento dei compiti storici delle forze anti-imperialiste».

Nel 1917, prima che l’Inghilterra prendesse il controllo del territorio palestinese, il Segretario di Stato britannico Arthur Balfour scrisse una lettera ufficiale al leader sionista inglese Lord Walter Rothschild dichiarando il sostegno del governo britannico per l’occupazione della Palestina da parte della Diaspora ebraica.

Nel 1918, il governo britannico rinegoziò i confini della regione con le potenze internazionali e la Società delle Nazioni, creando uno spazio geografico più chiaramente definito per i propri scopi; nel processo, l’imperialismo britannico fu costretto a interrogarsi su chi dovesse governare la Palestina: i palestinesi nativi o i nuovi coloni ebrei? In questo modo, secondo Pappé, furono i britannici che, rimodellando i confini della Palestina, aiutarono i sionisti a concettualizzare geograficamente Eretz Israel — “la Terra di Israele” — in cui solo gli ebrei avrebbero avuto diritto alla terra e alle sue risorse.

Ciò che emerge chiaramente da questa narrazione è che, alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, la Palestina non era una terra vuota, come sostiene la storia ufficiale israeliana. La Palestina, invece, era una terra contesa — una contesa storica i cui principali protagonisti erano le vecchie potenze coloniali, con rinnovate aspirazioni imperialiste, che cercavano di rimodellare il mondo a loro immagine, mentre lottavano contro la spada di Damocle rappresentata dall’emergere di nuove potenze mondiali. La Prima Guerra Mondiale fu una sanguinosa prova generale per la Seconda Guerra Mondiale, la fase successiva di questo processo di “riorganizzazione.”

La colonizzazione della Palestina proposta dai sionisti fu strumentalizzata intenzionalmente e materialmente sostenuta dall’imperialismo britannico. E mentre la Gran Bretagna stessa rappresentava l’impero in declino, l’importanza strategica della regione fu di fatto fondamentale per lo sviluppo dell’imperialismo occidentale in Medio Oriente.

Il controllo britannico della Palestina fu formalizzato dalla Società delle Nazioni nel 1923 come parte della spartizione dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale. Ciò fu accolto con una forte resistenza da parte dei palestinesi, che emerse e si rafforzò nella lotta contro l’oppressione britannica durante gli anni del Mandato, in particolare tra il 1929 e il 1939. Il culmine di questa ribellione si concretizzò nello sciopero generale del 1936, guidato dalla classe lavoratrice araba, che rivendicava condizioni di lavoro migliori e indipendenza nazionale.

Durante questo periodo di intensa lotta di classe noto come “la Grande Rivolta” dal 1936 al 1939, le masse contadine giocarono un ruolo fondamentale nelle aree rurali, organizzandosi contro l’invasione crescente dei coloni ebrei e dei britannici. Come racconta lo storico Zachary Lockman in ”Comrades and Enemies” (1996): 

«Il 15 aprile 1936, i membri del gruppo guerrigliero fondato dallo Shaykh ‘Izz al-Din al-Qassam fermarono auto e autobus vicino a Nablus, uccidendo due passeggeri ebrei. Due giorni dopo, un gruppo paramilitare ebraico di destra si vendicò uccidendo due arabi. Presto scoppiarono proteste arabe in tutto il paese, che gradualmente assunsero il carattere di una rivolta popolare anti-coloniale e anti-sionista a carattere di massa. Per contenere la violenza e incanalare l’ondata dal basso, i militanti nazionalisti arabi chiesero rapidamente uno sciopero generale a livello nazionale. Lo sciopero si diffuse rapidamente, così come nuovi “comitati nazionali” che sorsero per guidare la lotta nelle principali città. Presi alla sprovvista, i politici dell’élite [arabo-palestinese, ndt] cercarono di recuperare e cavalcare l’onda dell’energia popolare sostenendo la chiamata allo sciopero e formando un nuovo l’Alto Comitato Nazionale Arabo (AHC) nel quale erano rappresentati tutti i principali partiti, con Amin al-Husayni (Gran mufti di Gerusalemme, ndt) come presidente. Lo sciopero generale continuò per sei mesi, fino a ottobre 1936, rendendolo uno dei più lunghi scioperi generali della storia. Esso costituì la prima fase di una rivolta nazionalista araba a livello nazionale sia contro il dominio britannico che il sionismo e che si concluse solo nell’estate del 1939».

La partecipazione del proletariato palestinese alla Grande Rivolta è forse uno dei capitoli più combattivi nella storia del movimento operaio nella regione. Come scrive Lockman: 

«La maggior parte dei segmenti della popolazione araba urbana della Palestina partecipò allo sciopero generale, con i lavoratori urbani che giocarono un ruolo chiave. Il sindacato dei trasporti di Hasan Sidqi al-Dajani paralizzò il trasporto e i lavoratori del porto di Jaffa bloccarono le attività. Per sostenere lo sciopero, i comitati nazionali raccolsero donazioni da palestinesi benestanti e da simpatizzanti nei paesi vicini, e distribuirono le paghe a coloro che furono sospesi dal lavoro a causa dello sciopero, inclusi i portuali di Jaffa».

La rivolta fu sconfitta dalla repressione e dall’azione consapevole della direzione sindacale ebraica guidata dalla Histadrut (la più grande federazione sindacale ancora oggi in Israele, fondata nel 1920 con il Mandato britannico), che lavorava nell’interesse del sionismo e difendeva l’occupazione.

Nel frattempo, famiglie palestinesi benestanti e influenti (che in precedenza rappresentavano la grande proprietà terriera) presero il controllo della rivolta e si affermarono come direzione del movimento, svolgendo un ruolo conciliatorio con le forze occupanti; sebbene avessero perso le loro terre a favore dei coloni britannici e sionisti, ricevettero pagamenti considerevoli e enormi benefici dai settori sionisti, andando a costituire le classi agiate del sistema coloniale. Queste famiglie avevano governato il territorio palestinese nei decenni sotto il dominio ottomano e continuarono a lavorare per conto delle forze occupanti quando i britannici presero il controllo dopo la Prima Guerra Mondiale. Completamente distaccate dalla sofferenza delle masse palestinesi, queste famiglie erano principalmente allineate politicamente con il Partito arabo-palestinese guidato da Abd al-Zadir al-Husayni. Come scrive Enzo Dal Fitto riguardo alla direzione palestinese della Grande Rivolta: 

«Poiché la loro ricchezza dipendeva dall’occupazione sionista, la loro opposizione era superficiale, ritardando sia l’emergere di una coscienza araba anti-sionista, sia la denuncia della Dichiarazione Balfour. Sopraffatti dalla resistenza di al-Qassam e dagli echi del grande sciopero generale siriano, che ispirò e rafforzò la futura resistenza araba, la classe dominante palestinese fu costretta ad adottare le rivendicazioni della “Grande Rivolta” del 1936. Si sviluppò un ampio movimento di sciopero, accompagnato da atti di disobbedienza civile (come gli scioperi fiscali) e dalla formazione di milizie popolari insurrezionali. Tuttavia, il movimento fu decapitato dalle forze coloniali britanniche supportate dalle milizie sioniste. Nel frattempo, l’immigrazione ebraica aumentò a causa della crescente virulenza del fascismo europeo, dell’ascesa al potere di Hitler e dei numerosi pogrom nell’Europa orientale, insieme all’affermazione di un antisemitismo organico europeo. Di conseguenza, la chiusura dell’economia araba permise all’economia del settore sionista di rafforzarsi ed estendere la sua influenza mentre era supportata dall’afflusso sempre più massiccio di capitale ebraico dall’Europa».

In risposta alla rivolta, i britannici istituirono la Commissione Peel con un compito concreto: raccomandare la partizione del territorio in uno Stato arabo e uno Stato ebraico con l’obiettivo di prevenire a tutti i costi che la lotta di classe unisse i proletari arabi ed ebrei contro l’imperialismo britannico e il sionismo.

Con la Seconda Guerra Mondiale incombente, le politiche britanniche, oltre a evitare una rivolta araba alla vigilia della guerra mondiale poiché bisognose del supporto dei governi regionali, furono influenzate dal desiderio di ottenere un maggiore controllo della regione attraverso nuovi coloni ebrei e la possibile istituzione di uno Stato ebraico.

Il destino della Palestina era già segnato all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, una guerra che avrebbe infine definito — di fronte alla sconfitta della rivoluzione socialista internazionale — la forma e il carattere del suo nuovo oppressore.

Il movimento comunista palestinese

La Rivoluzione Russa del 1917 fece crescere in maniera esponenziale il movimento comunista internazionale, attirando centinaia di migliaia di lavoratori e giovani radicalizzati verso le idee della rivoluzione internazionale rinforzando le fila di centinaia di nuovi partiti comunisti. Nel 1919, sotto la guida del partito bolscevico, fu fondata la Terza Internazionale, nota come Internazionale Comunista.

Nel 1920, la Terza Internazionale — i cui leader includevano Vladimir Lenin e Lev Trotsky — si impegnò nelle lotte anti-coloniali e di liberazione nazionale in tutto il mondo con la massima serietà e diligenza. Nelle sue “Tesi sulle questione nazionale e coloniale” [approvate dal Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, ndt], Lenin (1920) dichiarò la necessità per i partiti comunisti di tutto il mondo di “sostenere sia materialmente che moralmente il movimento rivoluzionario [nelle colonie]”. Secondo Lenin, questo sostegno attivo ai movimenti di liberazione nazionale avrebbe dovuto combinare una lotta “contro l’influenza reazionaria e medievale del clero, delle missioni cristiane e di elementi simili” così come contro “il panislamismo e tendenze simili, che avrebbero tentato di combinare il movimento di liberazione contro l’imperialismo europeo e americano con l’obiettivo di rafforzare le forze reazionarie locali.”

Nel 1920, i bolscevichi organizzarono il Congresso dei Popoli dell’Oriente in Azerbaigian nell’ambito del secondo congresso dell’Internazionale Comunista; vi parteciparono 2.850 delegati provenienti da l’Iran, Egitto, Palestina, Turchia, India e altri paesi dell’Asia e del Medio Oriente. Sebbene i verbali di quel congresso non siano disponibili, la ricerca dello storico Pierre Broué (1997) rivela che una delle risoluzioni di quell’incontro era di chiamare “i popoli orientali a combattere per la loro liberazione insieme all’Esercito Rosso, che sarebbe entrato in una lotta anti-coloniale contro l’imperialismo francese, britannico e americano”. 

Il congresso dichiarò che l’imperialismo britannico agiva nell’interesse dei capitalisti sionisti, dividendo arabi ed ebrei: 

«[La Gran Bretagna] cacciò gli arabi dalla terra per darla ai coloni ebrei; poi, cercando di placare il malcontento degli arabi, li incitò contro questi stessi coloni ebrei, seminando discordia, inimicizia e odio tra tutte le comunità, indebolendo entrambe [sic] affinché potesse governare e comandare» (Congress of the Peoples of the East 1920).

Come spiega lo storico Ran Greenstein (2011),

«la posizione generale del Congresso era di opporsi incondizionatamente al dominio britannico sulla Palestina, condannare il sionismo e denunciare le forze arabe ed ebraiche che collaboravano con l’imperialismo. Il Congresso dei Popoli orientali servì come punto di partenza per la fondazione di nuovi partiti comunisti in Turchia, Iran, Egitto, India e Palestina». 

Il Partito Comunista Palestinese fu fondato nel 1924 principalmente da attivisti e intellettuali ebrei principalmente il cui orientamento strategico — basato sui primi tre congressi dell’Internazionale Comunista — era quello di lavorare contro l’imperialismo britannico e il sionismo, e di combattere per l’unità dei lavoratori arabi ed ebrei. Questa politica era sempre più in contrasto con la corrente dominante, in un contesto in cui le tensioni causate dall’occupazione sionista cominciavano a influire sull’umore delle masse arabe, mentre le direzioni nazionaliste palestinesi iniziavano a adottare un atteggiamento sempre più ostile nei confronti dei lavoratori ebrei e degli intellettuali. 

Sebbene il partito avesse a disposizione l’arsenale politico della Terza Internazionale rispetto alla questione coloniale e alla questione palestinese in particolare, la realtà era che i problemi della liberazione palestinese sotto il giogo dell’imperialismo britannico e della crescente colonizzazione sionista ponevano nuovi e significativi problemi teorici per il marxismo rivoluzionario. L’orientamento del nuovo partito era immaturo, da un lato, e dall’altro l’organizzazione risentiva indirettamente degli effetti della lotta politica interna durante gli anni ’20 tra l’Opposizione di Sinistra e la sempre più forte burocrazia sovietica guidata da Stalin.

Fin dall’inizio, il partito esercitò una notevole influenza su un settore della gioventù ebraica radicalizzata, ma aveva poca presenza tra le masse arabe palestinesi. Il partito iniziò un tortuoso processo di “arabizzazione” verso la fine degli anni ’20, una politica sostenuta dall’Internazionale Comunista, già coinvolta nel processo di stalinizzazione.

All’epoca, come spiega Greenstein, i militanti ebrei anti-sionisti del partito tendevano ad adattarsi ai pregiudizi pro-sionisti della periferia ebraica dell’organizzazione; mentre rifiutavano retoricamente il sionismo e si opponevano al mandato britannico, difendevano sempre più gli insediamenti ebraici noti come Yishuv come comunità legittime che “potevano continuare a crescere grazie all’immigrazione”. Ciò avveniva nel contesto di una delle ondate più significative di migrazione ebraica in Palestina prima della Nakba, composta da migliaia di ebrei in fuga dal crescente antisemitismo in Europa, sotto gli auspici dell’Inghilterra e della borghesia sionista, che continuava a sostenere la propria agenda coloniale. Molti di loro fuggirono in Israele a causa delle brutali politiche delle quote vigenti sui rifugiati ebrei in fuga dalla persecuzione in Europa, e a causa delle politiche delle grandi potenze mondiali; gli Stati Uniti, ad esempio, impedirono a centinaia di migliaia di rifugiati ebrei di entrare nel paese, costringendoli a rifugiarsi in Palestina.

Allo stesso tempo, in tutta la regione, emerse un crescente malcontento tra le masse contadine arabe e in particolare palestinesi, dando inizio a rivolte spontanee in varie comunità rurali contro la colonizzazione ebraica.

La cosiddetta “arabizzazione” del partito [comunista, ndt] avrebbe potuto avere una prospettiva rivoluzionaria, portando i rivoluzionari a guadagnare influenza nella avanguardia araba, specialmente negli strati rurali in rivolta; invece, alla fine servì come un’estensione della politica del “fronte unico anti-imperialista” sviluppata dallo stalinismo durante la Rivoluzione cinese del 1927. Questa politica ebbe conseguenze catastrofiche in tutto il mondo — inclusa la Palestina — creando alleanze politiche con le direzioni borghesi o piccolo-borghesi che pretendevano di affrontare le forze imperialiste nei loro paesi.

Il background teorico di questa politica si basava sulla concezione di Iosif Stalin delle lotte di liberazione nazionale; contraddicendo direttamente i princìpi su cui venne fondata la Terza Internazionale. Tale concezione diventò egemonica nell’Internazionale con l’Unione Sovietica che stava attraversando un processo di burocratizzazione.

Per Stalin, la lotta per la liberazione nazionale nelle colonie aveva un carattere borghese che poteva essere realizzato solo nel quadro dello Stato capitalista e della democrazia borghese come la conosciamo oggi; era completamente separata dalla questione della rivoluzione socialista, proprio come qualsiasi socialdemocratico penserebbe oggi in merito alla liberazione nazionale.

Utilizzando questa logica, la lotta per la liberazione nazionale poteva culminare solo nella creazione di un nuovo Stato-nazione capitalista. Di conseguenza, a guidare le lotte potevano essere soltanto settori della borghesia nazionale; in assenza di tale forza, una direzione piccolo-borghese con un programma che non si poneva l’obiettivo di rompere le relazioni capitaliste avrebbe potuto guidare questo processo. In questo contesto, la motivazione di Stalin per l’“arabizzazione” del partito non era quella di ottenere una maggiore influenza organica tra le masse arabe per guidare la regione verso la rivoluzione socialista, ma di fare accordi opportunisti con le direzioni nazionaliste arabe e gli Stati arabi “anti-imperialisti” per rafforzare la sua posizione nell’ordine mondiale.

In generale, nel periodo compreso tra il 1924 e il 1930, il giovane Partito Comunista Palestinese cedette alle pressioni nazionaliste delle direzioni arabe contro la dominazione britannica e il sionismo da un lato, e, dall’altro, ai sentimenti nazionalisti emergenti della gioventù e dell’intellighenzia ebraica radicalizzata, che non si distaccava completamente dal sionismo. 

Nel 1929, le tensioni create dalla dominazione coloniale e dalla crescente migrazione sionista esplosero in scontri in tutto il paese come prologo alle grandi azioni dei lavoratori e alla “Grande Rivolta” summenzionata.

Ran Greenstein descrive come queste differenze siano state ulteriormente consolidate sotto la pressione della lotta di classe e del crescente malcontento tra la popolazione araba: 

«Il Partito fu costretto a spostare il proprio orientamento verso la popolazione araba. Il crescente conflitto nazionale nel paese, in particolare la Rivolta araba del 1936-39, generò tensioni tra i membri, portando alla formazione di una “sezione ebraica” autonoma nel 1937. Con la fine della Rivolta, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nel 1941, l'[Unione Sovietica] si è mossa in una direzione opposta, verso il riconoscimento dei diritti ebraici nel paese. Ciò ha alienato intellettuali e attivisti arabi che si erano avvicinati al Partito durante gli anni ’30, quando si schierava con la lotta nazionale araba. Le tensioni nazionaliste si riflettessero all’interno del Partito, in condizioni “in cui il Partito parlava a ciascuna comunità nella propria lingua politica e si rivolgeva ad essa in termini dei suoi sentimenti nazionali”» (ibid.).

In definitiva, questo apparente “cambiamento” nella politica stalinista avrebbe portato a un pieno sostegno per la colonizzazione della Palestina da parte dei coloni sionisti. Nel 1947, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò per creare lo Stato di Israele con il sostegno entusiasta dell’Unione Sovietica e dell’imperialismo britannico e statunitense.

Come è riuscita la burocrazia stalinista a passare dal raccomandare l’“arabizzazione” del Partito Comunista Palestinese e a sostenere in modo acritico le direzioni nazionaliste arabe a fare un patto con le grandi potenze imperialiste per la colonizzazione su larga scala della Palestina? Come sottolinea lo storico Gabriel Gorodetsky (2001):

«La posizione sovietica fu particolarmente sorprendente considerando l’atteggiamento costantemente negativo del regime verso il sionismo, e la linea apertamente pro-araba adottata dal Cremlino durante i disordini arabi del 1929 e del 1936, denunciando l’Yishuv come alleato e strumento dell’imperialismo britannico. Il cambiamento nell’atteggiamento sovietico, da un antagonismo palese verso il sionismo a un vago supporto, è spesso associato all’attacco tedesco dell’Unione Sovietica del 21 giugno 1941. Si sostiene che i legami, stabiliti da Mosca sia con l’ebraismo mondiale che con il Yishuv in Palestina, riflettessero innanzitutto la necessità di arruolare il sostegno della comunità ebraica mondiale per lo sforzo bellico russo. La guerra, si suggerisce, fornì ai russi nuove opportunità per “trovare un modo per raggiungere ampi circoli nel mondo occidentale al fine di ottenere il massimo sostegno per la loro lotta contro la Germania nazista».

Di fronte alle dinamiche della Seconda Guerra Mondiale — in cui Hitler ruppe il patto firmato con Stalin — l’Internazionale Comunista burocratizzata fece una svolta di 180 gradi sulla questione della liberazione nazionale, sostenendo che fosse giustificata in nome della “difesa dell’Unione Sovietica”; in pratica ciò che questo comportava era un patto con l’imperialismo per la sicurezza della sua zona di influenza in cambio della limitazione dell’estensione della rivoluzione socialista internazionale. Stalin diede a questa politica una copertura teorica con la sua concezione di “socialismo in un solo paese,” che era la negazione diretta dell’internazionalismo proletario, poiché implica — e di fatto ha messo in atto — il tradimento delle lotte dei popoli oppressi in cambio del progresso degli interessi della burocrazia sovietica. In poche parole, l’Unione Sovietica stalinista applicò nella sua politica verso la Palestina una logica che rifiutava fondamentalmente e storicamente la rivoluzione socialista come via per la liberazione nazionale, sostituendola con la ricerca del “fronte unico anti-imperialista” che altro non era che una politica di conciliazione di classe; questo era chiaro nell’orientamento dello stalinismo verso accordi con la borghesia degli Stati arabi.

L’oppressione palestinese come prodotto dell’imperialismo mondiale

L’imperialismo è un’epoca del capitalismo che organizza e governa l’ordine mondiale contemporaneo e dove il potere (economico, politico, militare e ideologico) è acquisito e concentrato nelle mani delle corporations rappresentate e difese dai loro Stati-nazione imperialisti; il risultato è lo sfruttamento delle persone, della terra e della natura all’interno dei confini nazionali e si estende al resto del mondo, tutto a servizio del profitto e della riproduzione del capitale. Come scrive Esteban Mercatante (2023) nel suo articolo “El imperialismo en tiempos de desorden mundial”: 

«La competizione e il conflitto — potenziale o attuale — tra paesi imperialisti, e il saccheggio del pianeta da parte di imprese transnazionali e del capitale finanziario globale sono due dimensioni che, lungi dall’essere opposte o separate, devono essere affrontate insieme come parte di una comprensione dell’imperialismo contemporaneo. Crediamo che entrambe le dimensioni debbano essere pensate congiuntamente per elaborare una teoria dell’imperialismo che tenga conto di come l’economia mondiale oggi sia plasmata come una totalità gerarchica, a seguito dell’azione articolata del capitale globale e degli Stati più potenti».

L’imperialismo non è un insieme di politiche ma un’epoca. Questa è una distinzione importante perché significa che l’imperialismo è storicamente determinato ed è emerso come conseguenza di processi in sviluppo, o nel loro divenire. Prendiamo questa definizione da Lenin, il leader del partito bolscevico russo e della Rivoluzione russa. Questo periodo storico è cominciato all’inizio del XX secolo e rappresenta un’epoca reazionaria del capitalismo dal momento in cui, in questa fase, esso non ha altro da offrire se non crisi, guerre e rivoluzioni.

La Prima Guerra Mondiale fu la prima grande espressione delle tensioni prodotte dalle caratteristiche di base dell’imperialismo, vale a dire la fusione del capitale industriale e bancario nel capitale finanziario; il bisogno compulsivo di esportare costantemente capitale; e la divisione dei paesi in base a una forza politica ed economica disuguale: da un lato gli Stati imperialisti, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Germania e la Francia, e dall’altro le colonie e semi-colonie, saccheggiate dalle imprese imperialiste e oppresse da governi imperialisti in diversi modi, come Porto Rico, il Messico, l’Algeria o la Siria. In questo senso, la Seconda Guerra Mondiale non fu altro che una continuazione della Prima Guerra Mondiale. Mentre l’Inghilterra perse la sua egemonia e influenza globali, altri paesi imperialisti emersero come nuovi attori dominanti. Questo fu il caso degli Stati Uniti e della Germania nazista.

La storia ufficiale ha sempre cercato di presentare la Seconda Guerra Mondiale come un confronto tra democrazia e fascismo, diritti umani e nazismo, ma in realtà fu un massacro globale perpetrato dalle principali potenze del mondo per facilitare l’emergere di un nuovo ordine mondiale, per riorganizzare i mercati e per disciplinare la classe lavoratrice internazionale con il potere della distruzione di massa. Trotsky, rendendo omaggio a Lenin in “Lenin sull’imperialismo” (1939) definì l’imperialismo come segue: 

«L’imperialismo maschera i propri obiettivi specifici – la conquista di colonie, mercati, fonti di materie prime, sfere di influenza – con concetti come “salvaguardare la pace contro gli aggressori”, “difesa della patria”, “difesa della democrazia”, ecc. Queste idee sono del tutto false. È dovere di ogni socialista contrastarle e smascherarle davanti al popolo. “La questione di quale gruppo abbia inflitto il primo colpo militare o dichiarato per primo guerra”, scrisse Lenin nel marzo del 1915, “non ha alcuna importanza nel determinare le tattiche dei socialisti. Frasi sulla difesa della patria, sul respingere l’invasione del nemico, sul condurre una guerra difensiva, ecc., sono un totale inganno da entrambe le parti nei confronti del popolo. Per decenni”, spiegò Lenin, “tre banditi (la borghesia e i governi di Inghilterra, Russia e Francia) si sono armati per depredare la Germania. È sorprendente che i due banditi (Germania e Austria-Ungheria) abbiano lanciato un attacco prima che i tre banditi riuscissero a ottenere i nuovi coltelli che avevano ordinato?».

Come è ben noto, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nell’agosto del 1945 — lo stesso mese e anno in cui gli Stati Uniti distrussero Hiroshima e Nagasaki, uccidendo con la bomba atomica 226.000 persone — il presidente Truman chiese l’ammissione di 100.000 sopravvissuti all’Olocausto in Palestina. Ciò rappresentò un chiaro segnale che, nel dopoguerra, l’imperialismo statunitense avrebbe assunto il compito lasciato dall’impero britannico in declino, intensificando il progetto di creare uno Stato ebraico.

Nel 1947, le Nazioni Unite destinarono il 56% delle terre palestinesi per il proposto Stato sionista, nonostante il fatto che gli ebrei possedessero solo circa il 7% delle terre private in Palestina. La Nakba — l’espulsione violenta di 750.000 palestinesi dalle loro case e dalle loro terre da parte delle milizie sioniste e del neonato esercito israeliano — fu giustificata dall’idea che gli obiettivi dell’imperialismo statunitense nel promuovere il piano di partizione fossero quelli di riparare il popolo ebraico per l’Olocausto — una tragedia che fu consapevolmente permessa dagli Stati Uniti fino a quando non entrarono in guerra dopo Pearl Harbor. In altre parole, gli Stati Uniti giustificarono la loro inattività e indifferenza di fronte allo sterminio di milioni di ebrei finanziando e dirigendo l’espulsione violenta di circa tre quarti della popolazione palestinese per creare lo Stato di Israele.

Lo Stato sionista è una creazione imperiale artificiale nelle sue stesse origini. Come tale, sostiene, riproduce ed esegue congiuntamente una forma storicamente specifica: vale a dire, una forma di colonialismo di insediamento che impiega i metodi di genocidio e pulizia etnica, il prodotto aberrante di un secolo di dominio sotto la Pax Americana. Lo Stato sionista è una creazione imperialista la cui esistenza è legittimata soltanto nell’ordine mondiale che ha facilitato la sua espansione coloniale.

Lev Trotsky aveva formulato due previsioni distinte dopo la Seconda Guerra Mondiale: «O la rivoluzione proletaria avrebbe avuto la possibilità di trasformare il massacro imperialista in una rivoluzione socialista internazionale, o il regime borghese sarebbe uscito dalla guerra impunito». Se la rivoluzione proletaria fosse andata avanti, ciò avrebbe impedito la decomposizione della sua direzione guidata dallo stalinismo. Come spiegano Emilio Albamonte e Matías Maiello in “Ai Limiti della ‘restaurazione borghese’”: 

«Il risultato della Seconda Guerra Mondiale fu che nessuna di queste due varianti apparve nella loro forma pura; l’imperialismo non rimase impunito, poiché la borghesia fu espropriata in un terzo del pianeta dopo la guerra; ma neppure il proletariato conquistò il potere né mise fine alle condizioni che portano alla degenerazione. La sconfitta del nazismo per mano dell’Armata Rossa portò a un rinnovato prestigio per lo stalinismo, che a sua volta lo utilizzò per mettere un freno alla rivoluzione nel periodo postbellico (con gli accordi di Yalta e Potsdam). Riuscì a tradire le rivoluzioni in Francia, Italia e Grecia, ma fallì nel contenere la rivoluzione nelle colonie e semicoloniali».

Sebbene gli Stati Uniti emersero come la principale potenza alla guida del nuovo ordine mondiale nell’immediato secondo dopoguerra, questa dominazione fu stabilita con importanti contraddizioni. Congiuntamente, nonostante l’Unione Sovietica uscì rafforzata dopo la Seconda Guerra Mondiale, ciò non avvenne per merito della burocrazia stalinista, ma piuttosto per il potere dell’Armata Rossa, l’esercito proletario che spazzò via i nazisti.

È sotto questo nuovo ordine mondiale con tutte le sue particolarità che gli Stati Uniti, con la complicità delle Nazioni Unite e il sostegno dello stalinismo, imposero artificialmente lo Stato di Israele come enclave dei loro interessi politici e militari. La Nakba non fu solo l’evento storico che racchiude il carattere coloniale del sionismo, ma l’espressione profonda dell’espansione e della consolidazione degli interessi statunitensi in Medio Oriente.

Alla luce di questa storia, settori del movimento di solidarietà con la Palestina che, ieri come oggi, difendono la politica dei due Stati, omettono questo aspetto della genesi dello Stato sionista, rendendo la sua esistenza contraddittoria rispetto all’emancipazione di palestinesi e ebrei. Non esiste uno Stato di Israele senza espropriazione della terra, espulsione di intere comunità e pulizia etnica attuata da un esercito brutale e gruppi paramilitari di coloni. Non esiste uno Stato di Israele senza imperialismo.

Jabra Nicola e la rivoluzione permanente in Palestina

I comunisti palestinesi che parteciparono, sin dall’inizio, alla lotta per la liberazione palestinese articolarono la relazione tra imperialismo e sionismo nelle loro elaborazioni teoriche, identificando la necessità che la classe lavoratrice della regione guidasse la lotta per l’emancipazione. Jabra Nicola nacque a Haifa nel 1912. Entrò nel Partito Comunista Palestinese all’inizio degli anni ’30, all’età di 20 anni. Fin da subito, criticò le politiche dello stalinismo e si avvicinò ai piccoli circoli trotskisti dissidenti che continuarono a operare all’interno del partito sotto le bandiere dell’Opposizione di Sinistra. Successivamente, questi circoli si sarebbero uniti alla Lega Comunista Rivoluzionaria e alla Quarta Internazionale su richiesta del trotskista ebreo Tony Cliff nel 1940.

Dopo essere entrato nel movimento per la Quarta Internazionale, Nicola intraprese il compito teorico di comprendere il conflitto palestinese utilizzando la lente della “legge dello sviluppo ineguale e combinato” e la teoria della rivoluzione permanente con l’obiettivo di formulare una risposta strategica alle sfide della rivoluzione araba.

Nell’introduzione alla sua opera più importante, sebbene incompiuta, Nazione araba e modo di produzione asiatico” (1974), Nicola descrisse la struttura sociale del Medio Oriente come il risultato dello scontro tra tendenze storiche intrinseche in sviluppo e le enormi forze esogene della brutale penetrazione imperialista e, nel caso della Palestina, della colonizzazione sionista: 

«L’attuale società araba, in tutto il Medio Oriente, sta attraversando una crisi politica e sociale. A volte si attribuisce questa crisi alla sconfitta del 1967, ma è evidente che essa esisteva e si stava sviluppando molto prima di quella guerra, che in realtà ne è stata solo un sintomo. La sconfitta l’ha semplicemente approfondita, acuita e portata alla luce. Non si trattava solo di una crisi economica, di un problema dei paesi sottosviluppati che lottavano per trovare una via di sviluppo, né di una semplice crisi politica di paesi più o meno dominati dall’imperialismo, costantemente minacciati dai loro vicini colonialisti ed espansionisti, creati grazie all’imperialismo e ancora mantenuti e sostenuti finanziariamente e militarmente per agire da strumento contro i paesi che tentano di ribellarsi. Si trattava principalmente di una crisi sociale che affondava le sue radici nel processo di sviluppo di questi paesi. Non era una mera crisi economica di sottosviluppo, né una crisi politica: è una crisi sociale globale, un prodotto storico che non deriva solo dalle particolarità economiche, politiche, sociali e culturali ereditate dalla società araba tradizionale, ma anche, e in larga misura, dalle sue antiche e ancora esistenti relazioni con i paesi capitalisti avanzati. Questa crisi è l’espressione della contraddizione tra le basi economiche e sociali e le sovrastrutture straniere imposte ad esse».

È stata proprio dalla comprensione della relazione esistente tra la profonda dominazione imperialista sul mondo arabo — che nel caso della Palestina si combina con la dominazione coloniale dell’enclave imperialista di Israele — e la debolezza e dipendenza delle borghesie regionali che Nicola è giunto alla conclusione che la liberazione palestinese e araba dal giogo dell’imperialismo e del sionismo non poteva essere realizzata nell’ambito di una rivoluzione democratica borghese o di una “rivoluzione nazionale”. Questo perché le classi dominanti locali sono completamente dipendenti o sono estremamente deboli di fronte alle forze imperialiste. Per Nicola, il soggetto della liberazione nazionale palestinese è la classe operaia araba, in alleanza con i contadini. Nelle sue Tesi sulla Rivoluzione nell’Oriente arabo” (1972) afferma: 

«La rivoluzione nell’oriente arabo non può essere una rivoluzione nazionale o borghese “democratica” ma una rivoluzione socialista proletaria. Essa è possibile solo come rivoluzione permanente. Senza la conquista del potere da parte della classe operaia sostenuta dai contadini poveri, né compiti nazionali democratici né rapida industrializzazione possono essere realizzati per soddisfare le pressanti esigenze economiche delle masse».

In tutta l’opera di Nicola possiamo vedere un tentativo molto chiaro di articolare la liberazione palestinese con la rivoluzione socialista nel mondo arabo, dimostrando una profonda comprensione dell’unità potenzialmente imbattibile del proletariato arabo oltre i confini nazionali imposti dall’imperialismo. Possiamo anche notare il tentativo molto acuto di comprendere le particolarità della situazione palestinese. 

Proprio come la penetrazione imperialista in Medio Oriente ha creato strutture sociali variegate risultanti da uno sviluppo diseguale e combinato, la società palestinese — la sua struttura socio-economica — è stata plasmata dal colonialismo di insediamento dello Stato di Israele. Come afferma Nicola, citato da Dal Fitto: 

«La società sionista emergente si scontrò con le diverse classi della società araba palestinese. Importò capitale, tecnologie e conoscenze moderne dall’Europa. Il capitale ebraico (spesso sostenuto da fondi sionisti) sostituì gradualmente gli elementi feudali semplicemente acquistando le loro terre, mentre le normative sioniste proibivano la rivendita delle terre agli arabi. Godendo di vantaggi finanziari ed economici, l’economia capitalista sionista bloccò l’emergere di una classe capitalista araba. Dopo essersi scontrato con i contadini arabi espellendoli dalle loro terre, il sionismo impedì l’emergere di un proletariato [forte palestinese] nel settore ebraico dell’economia. Poiché lo sviluppo capitalistico del settore arabo era ritardato e ostacolato, i contadini (così come l’intelligentsia araba) trovarono estremamente difficile trovare occupazione, tranne che nell’amministrazione del Mandato britannico e nei servizi pubblici. La struttura sociale ed economica della Palestina araba (che aveva iniziato a svilupparsi in condizioni molto simili a quelle prevalenti in Siria) fu completamente distorta dalla colonizzazione sionista. Questa distorsione persiste ancora oggi».

Come dice Enzo Dal Fitto nella sua interpretazione del pensiero di Nicola: 

«La necessità di acquisire terre, comprandole a volte sopra del loro valore, e di dare lavoro agli ebrei provenienti da successive ondate di immigrazione, giustificò una politica razzista basata sull’esclusività dell’occupazione ebraica nel settore industriale e sul divieto di vendita di terre agli arabi. Questa politica indebolì così le strutture feudali dell’economia agraria mentre impediva la proletarizzazione degli arabi a causa del divieto di assunzione di lavoratori arabi da parte di diverse grandi aziende ebraiche. In queste condizioni, il feudalesimo cominciò a scomparire senza lo sviluppo di una struttura economica capitalistica. Tale struttura economica impedì, a sua volta, l’emergere di una potente direzione politica araba».

Questo blocco dello sviluppo di una società di classe chiaramente differenziata a causa della “distorsione” della colonizzazione sionista ha avuto, per Nicola, profonde conseguenze nella configurazione della sovrastruttura politica palestinese: 

«La distorsione socio-economica si riflette nella sfera politica. Poiché al borghese, al proletario e al contadino è stato negato un normale percorso di sviluppo, non sono riusciti a produrre partiti politici e leader di calibro sufficiente. La direzione politica della Palestina araba è rimasta nelle mani dei proprietari terrieri che, nonostante si siano liquidati come classe vendendo le loro terre ai sionisti, hanno realizzato enormi guadagni finanziari attraverso queste transazioni».

Per Nicola, utilizzando la logica della rivoluzione permanente, questa debolezza della struttura sociale palestinese sotto il giogo del colonialismo di insediamento ha reso imperativo per la classe lavoratrice palestinese e il contadino di intensificare la lotta per la loro liberazione nazionale a livello regionale, unendo la classe lavoratrice araba dietro la rivoluzione anti-imperialista e socialista. È la solidarietà “senza confini” della classe lavoratrice araba che può fornire supporto materiale, militare e politico alla causa palestinese se i lavoratori e gli oppressi si liberano dalle catene della propria classe capitalista e, in molti casi, dei governi dittatoriali.

Le elaborazioni di Nicola rappresentano una visione strategica e profondamente internazionalista dell’alleanza anti-imperialista del proletariato arabo, forgiata nell’energia della lotta per una rivendicazione democratica e radicale — in questo caso la questione della liberazione palestinese. In termini pratici, egli legò l’unità di classe alla lotta per il socialismo, mantenendo ben salda questa impostazione; la sua concezione della liberazione palestinese fu ancorata nella trascendenza del quadro nazionale per pensare in modo creativo alla questione della liberazione nazionale oltre i confini dello Stato-nazione borghese, che era pur sempre legato all’imperialismo e di conseguenza allo sfruttamento e all’oppressione. Nicola contrappose l’internazionalismo proletario a tali concezioni nazionalistiche. 

Questo internazionalismo proletario è stato rafforzato dalla comprensione di Nicola dell’importanza dell’alleanza tra il proletariato arabo e ebreo-israeliano. Questo distaccò la sua prospettiva (la prospettiva della rivoluzione permanente) dal Partito Comunista Palestinese che sin dalle sue origini cedette a enormi pressioni nazionaliste esercitate — allora come oggi — sulla sinistra israeliana e palestinese. Come abbiamo già visto, queste pressioni provenivano sia dal sionismo come forza controrivoluzionaria nella regione, sia, in misura diversa, da settori della resistenza contro il sionismo. Questi settori erano composti da direzioni nazionaliste arabe o fondamentaliste che non proponevano un progetto emancipatorio per la classe lavoratrice, né per le masse palestinesi e arabe. 

Per Nicola, fu fondamentale comprendere la struttura socio-economica dello Stato sionista, che si distingueva da altri colonialismi di insediamento per la sua gerarchia di classe interna altamente sviluppata con un proletariato ben definito, una classe media e una borghesia. A questo si aggiunge il sistema di apartheid mantenuto da Israele contro la popolazione araba che risiede all’interno dei suoi confini, un settore che ha fornito e continua a fornire manodopera a basso costo senza diritti. Questo regime di apartheid è imposto da un esercito armato con le armi dei paesi imperialisti e da una popolazione civile armata e organizzata, la cui finalità è quella di terrorizzare la popolazione palestinese e portare a termine la requisizione delle terre palestinesi.

Nicola compresea le caratteristiche fascistizzanti di una società israeliana militarizzata e dell’egemonia ideologica del sionismo. Tuttavia, come spiega Dal Fitto, il proletariato israeliano è una forza potenzialmente rivoluzionaria:

«[Esso] ha molto da guadagnare se sostituisce la tutela dell’imperialismo con la cooperazione e l’integrazione con il mondo arabo circostante. Di conseguenza, l’analisi di classe deve puntare alla solidarietà di interessi tra le diverse componenti del proletariato in Medio Oriente e non alla singola differenziazione interna della struttura di classe della Palestina araba. Per Nicola, si devono far emergere le contraddizioni interne nello Stato di Israele che potrebbero potenzialmente distruggerlo dall’interno».

Tuttavia, Nicola non considerava la lotta contro l’imperialismo e il sionismo come qualcosa di contingente, ma come una questione legata alla potenziale alleanza tra il proletariato israeliano e palestinese. Era consapevole che il proletariato israeliano costituiva la base sociale dello Stato coloniale e che, pertanto, qualsiasi politica rivoluzionaria che si sviluppasse al suo interno doveva necessariamente abbracciare la lotta per l’autodeterminazione palestinese e comportare una totale rottura della classe lavoratrice israeliana con il sionismo. Inoltre, per Nicola, la liberazione palestinese non poteva essere subordinata all’emergere della potenziale alleanza tra il proletariato ebraico e palestinese; doveva prima passare attraverso l’unità del proletariato arabo nella regione verso lo smantellamento dello Stato di Israele con una prospettiva socialista, che avrebbe potuto gettare le basi per quell’alleanza e per la liberazione dell’intera regione dal giogo dell’imperialismo e della dominazione capitalista nel suo complesso

«Gli ebrei israeliani sono attualmente una nazione di oppressori perché formano lo Stato sionista di Israele, un avamposto dell’imperialismo nella regione che svolge un ruolo oppressivo e contro-rivoluzionario contro la rivoluzione araba. Tuttavia, la vittoriosa rivoluzione socialista araba significa la sconfitta del sionismo e la distruzione dell’intera struttura dello Stato sionista, la liquidazione del dominio e dell’influenza imperialista in Medio Oriente, così come il ripristino dei diritti palestinesi».

Nel 1963, Nicola si unì al Matzpen, un’organizzazione che emerse da una rottura anti-sionista del Partito Comunista Israeliano nel 1962. Nicola fu fondamentale nel plasmare l’ideologia politica dell’organizzazione e nel dare al suo approccio programmatico alla liberazione palestinese un carattere permanente. Sotto l’influenza di Nicola, la giovane organizzazione fece una profonda valutazione della responsabilità dell’Unione Sovietica nel processo di colonizzazione sionista e nella creazione dello Stato di Israele.

Negli anni della sua fondazione, il Matzpen è stato in grado di elaborare teoricamente sulla specifica fisionomia della rivoluzione permanente in Palestina, evidenziando nel suo programma la necessità di separare le strutture dello Stato coloniale dal sionismo e per smantellarle, l’alleanza del proletariato arabo e ebraico sulla base della lotta contro l’indottrinamento sionista, e, soprattutto, la necessaria alleanza regionale tra i diversi settori del proletariato araboche è il soggetto rivoluzionario della liberazione palestinese e regionale dal giogo dell’imperialismo e verso la costruzione di una società socialista. Questa caratterizzazione, tuttavia, non intende essere come un bilancio completo delle prospettive politiche di Nicola o di Matzpen come organizzazione.

È passato più di mezzo secolo da quando l’ONU ha decretato la fondazione dello Stato di Israele; da allora si sono sviluppate, seppur in momenti diversi, istanze eroiche di lotta di classe nel mondo arabo, sempre con la causa palestinese sullo sfondo. Le idee di Nicola e la teoria della rivoluzione permanente sono state dimostrate, sebbene in negativo, dall’ascesa del nazionalismo arabo che ha tradito la lotta di liberazione palestinese, e dall’emersione di nuove direzioni fondamentaliste.

Dal nazionalismo arabo all’islam politico

La creazione dello Stato di Israele ha destabilizzato drammaticamente la geopolitica del Medio Oriente e, di pari passo con la penetrazione imperialista, ha esacerbato le tensioni sociali che sono sfociate in lotte di classe e crisi politiche a partire dagli anni ’50. È in questo periodo che emersero nuovi governi post-coloniali con diverse varianti del nazionalismo arabo, incarnati in leader politici come Re Faisal I dell’Iraq, il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e Muammar Gheddafi; questo inclusero organizzazioni come il Movimento Nazionalista Arabo, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e il Partito Socialista Arabo Ba’ath. Queste direzioni furono egemoniche fino alla Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Come dice Claudia Cinatti in ”Islam político, antiimperialismo y marxismo(2009): 

«Il contesto storico dell’ascesa dell’islamismo inizia con la vittoria di Israele durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, segnando l’inizio del declino irreversibile dei regimi borghesi nazionalisti post-coloniali che presero il potere attraverso colpi di Stato sostenuti dalla popolazione contro le potenze regionali del Medio Oriente negli anni ’50. Il 6 giugno 1967, lo Stato di Israele lanciò un attacco preventivo contro Egitto, Siria e Giordania. In soli sei giorni, le truppe sioniste sconfissero i tre paesi, occupando la penisola del Sinai in Egitto, le Alture del Golan in Siria, così come Gerusalemme e la Cisgiordania. Così intenso fu l’impatto di questi eventi che Nasser si dimise la stessa notte dell’attacco. Sebbene una mobilitazione di milioni di egiziani si espresse contro le dimissioni, di fatto fu decretata la morte del nazionalismo nasseriano. Nasser morì nel 1970 e il suo successore, Anwar Sadat, avviò un programma di apertura dell’economia e di privatizzazioni che ebbero conseguenze catastrofiche per la popolazione, specialmente per quei settori che si spostarono in massa dalle aree rurali nelle principali città durante il boom nasserista e costituirono una massa di poveri urbani alla periferia delle città».

La sconfitta degli Stati arabi nella Guerra dei Sei Giorni impose l’equilibrio di potere necessario affinché il presidente egiziano Anwar Sadat firmasse gli Accordi di Camp David nel 1978, rendendo l’Egitto il primo paese arabo a riconoscere lo Stato sionista di Israele. Dal 1967 al 1973, la maggior parte dei paesi arabi furono teatro di intense proteste contro i vecchi governi nazionalisti che rafforzarono fugacemente le organizzazioni nazionaliste di sinistra, comprese entrambe le varianti dello stalinismo e altri gruppi laici. Ma questo fenomeno fu di breve durata; di fronte alla crisi del nazionalismo tradizionale, furono le organizzazioni islamiste, sempre più politicizzate, a cominciare a guadagnare terreno tra i giovani arabi. Come spiega Cinatti: 

«nuove e vecchie organizzazioni islamiste […] si rafforzarono tra i giovani disoccupati. Essi costituivano, in paesi come l’Egitto e l’Algeria, masse di poveri urbani. Allo stesso tempo trovarono spazio tra gli studenti universitari e settori dell’intelligentsia formati negli anni in cui l’istruzione superiore era più accessibile ma che in seguito non riuscirono a trovare lavoro. Rispetto alle organizzazioni tradizionali, questi gruppi radicalizzarono il loro discorso religioso e i loro metodi di azione. […] L’aumento della popolarità di Hamas, che le permise di vincere le elezioni legislative di gennaio 2006 a spese di Al Fatah, fu il segno più evidente del disastro del nazionalismo borghese e della sua politica conciliatoria con l’imperialismo e lo Stato di Israele».

Jabra Nicola trasse lezioni coerenti dal ruolo dei nazionalismi arabi con la sua visione delle dinamiche della rivoluzione permanente nel suo complesso. Nelle sue Tesi (1972) scrisse: 

«Nel 1948 fu creato lo Stato sionista coloniale di Israele attraverso l’espulsione dei palestinesi dalle loro case. Furono dispersi negli Stati arabi vicini, dove le loro condizioni sociali erano riassunte nella loro assegnazione ai campi profughi. Sebbene i regimi degli Stati arabi proclamassero la loro opposizione allo Stato israeliano, in pratica nulla fu fatto da quei regimi per riottenere il diritto dei palestinesi alla loro patria… Quando Nasser salì al potere, il suo tentativo di sostituire gli apparati statali al posto delle masse contro Israele mantenne i palestinesi, così come gli egiziani e le altre masse arabe, immobilizzati […] La sconfitta degli eserciti arabi nel giugno del 1967 fu un colpo grave che scosse profondamente le masse arabe. La direzione nasseriana, sulla quale le masse arabe, compresi i palestinesi, riponevano le loro speranze nella lotta contro l’imperialismo e Israele, fu messa in crisi dal disastro e si rivelò incapace sia di guidare la lotta contro l’imperialismo, sia di riottenere i diritti dei palestinesi per la loro patria. Di conseguenza, quei regimi furono scossi e avvertirono il pericolo di essere rovesciati dalle masse, che cominciarono a risvegliarsi di fronte alla loro bancarotta».

Il rinvigorimento e la politicizzazione delle organizzazioni islamiste in tutto il Medio Oriente negli anni ’60 e ’70 si espressero in Palestina — e Libano — tardivamente e di conseguenza acquisirono caratteristiche particolari. Come scrive Dal Fitto, descrivendo l’emergere di Hamas come una direzione piccolo-borghese che fu in grado di incanalare le aspirazioni per la liberazione palestinese dopo i successivi tradimenti delle borghesie arabe: 

«[La] piccola borghesia religiosa (Hamas, jihadismo islamista) è guidata dalla strategia dell’“Islam rivoluzionario,” importata dall’Egitto sotto l’influenza dei Fratelli Musulmani; essa fu fortemente influenzata dalla teologia politica sciita iraniana che trionfò nel 1979 dopo la caduta del regime pro-imperialista di Reza Pahlavi e l’istituzione di una teocrazia sciita sotto l’egida di Khomeini che supervisionò la sanguinosa repressione dei gruppi comunisti e operai che parteciparono alla rivoluzione».

Sia Hamas in Palestina che Hezbollah in Libano sono organizzazioni che guidano settori dei movimenti di liberazione nazionale e hanno una base sociale, politica ed elettorale estesa. Come osserva Cinatti: 

«Dalla fine degli anni ’60, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina controllata dalla fazione nazionalista borghese di Fatah assunse la guida della lotta nazionale palestinese. Le ali radicali del movimento, lontane dall’essere incanalate attraverso l’islamismo, trovarono espressione in gruppi di affiliazione marxista come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP). Questo panorama, dominato da direzioni laiche, cominciò a cambiare nel corso della prima Intifada del 1987, quando lo Sheikh Ahmad Yassin, insieme ad altri membri dei Fratelli Musulmani, si stabilì nei territori palestinesi e fondò il Movimento di Resistenza Islamica — Hamas».

Hamas ha fatto la sua prima apparizione pubblica nel 1987 nell’ambito dell’Intifada che si diffuse nei territori palestinesi, guidata dai giovani poveri dei campi profughi e dei quartieri urbani. Cinatti scrive che «il marchio di Hamas era dare all’odio dei giovani palestinesi una logica religiosa, per ‘galvanizzare i poveri come l’incarnazione del vero popolo, della Umma pura e sincera in contrapposizione alle élite secolari ‘corrotte’, orientandole così verso l’alleanza con la borghesia pia». Negli anni successivi, la base sociale di Hamas si diffuse in tutta la Striscia di Gaza fino al 2001, quando Ariel Sharon vinse la presidenza dello Stato di Israele e lanciò una nuova offensiva contro la Palestina, intensificando l’assedio militare.

Le Forze di Difesa Israeliane, guidate da Sharon, avanzarono nel territorio palestinese e tennero Yasser Arafat agli arresti domiciliari fino alla sua morte. Il successore di Arafat alla guida dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, approfondì la collaborazione dell’OLP con le forze occupanti sioniste e gli Stati Uniti mentre la situazione diventava sempre più insostenibile per le masse palestinesi. È in questo contesto che Hamas vinse le elezioni del 2006 nella Striscia di Gaza. Come spiega Claudia Cinatti: 

«Hamas ha capitalizzato sul declino del nazionalismo borghese arabo, mantenendo un discorso anti-americano e anti-israeliano, senza nemmeno menzionare il suo obiettivo di stabilire uno Stato islamico basato sulla Shari‘a. Ma al di là dei suoi programmi elettorali congiunturali e del sostegno alla resistenza contro l’occupazione israeliana, la strategia di fondare uno Stato confessionale in tutto il territorio palestinese ha un carattere reazionario incapace di offrire una soluzione progressista alle giuste aspirazioni nazionali del popolo palestinese. La moralità religiosa come valore assoluto e legge dello Stato non solo attacca le libertà democratiche elementari mantenendo uno strumento di oppressione sociale, ma cerca, allo stesso tempo, di nascondere il fatto che nelle società musulmane, come in quella occidentale, ci sono sfruttatori e sfruttati, e che la religione è al servizio del mantenimento della dominazione dei primi». 

L’orizzonte di Hamas di sostituire lo Stato di Israele con uno Stato religioso non può portare all’emancipazione delle masse arabe, musulmane o ebraiche. Uno Stato religioso di tipo iraniano non è solo uno Stato autoritario ma anche capitalista, diviso da profonde contraddizioni di classe. Una politica indipendente dalla causa palestinese richiede innanzitutto una politica anti-imperialista e anti-sionista coerente, e allo stesso tempo una politica indipendente dalle borghesie arabe che usano la causa palestinese come base di manovra per i propri interessi mentre sfruttano il proletariato e i contadini dei loro paesi, in molti casi opprimendo la gioventù, le donne, le persone LGBT+ e la sinistra.

Ciò che i vari partiti e figure del nazionalismo arabo hanno in comune con le organizzazioni islamiste che fanno parte dei movimenti di resistenza sostenuti dal popolo contro il sionismo (come Hamas e Hezbollah) è la proposta di porre fine all’oppressione sionista senza toccare le relazioni di classe capitaliste o gli interessi strutturali dell’imperialismo nella regione.

La Primavera Araba

Il 17 dicembre 2010, Mohammed Bouazizi, un venditore ambulante, si immolò in segno di protesta dopo che la polizia gli sequestrò le merci, lo insultò e rovesciò il suo carretto. Decine di migliaia di tunisini si rivoltarono nelle strade in omaggio a Bouazizi e, soprattutto, contro la fame e la miseria generate da decenni di neoliberismo e aggravate dalla Grande Recessione del 2008. Mentre Bouazizi lottava tra la vita e la morte, le masse rivolsero la loro rabbia contro la presidenza autoritaria di Zine al-Abidine Ben Ali, che governava il paese dal 1987. Bouazizi morì il 4 gennaio 2011 e Ben Ali fu defenestrato dopo solo dieci giorni, il 14 gennaio.

La ribellione tunisina si diffuse rapidamente in tutta la regione. In Egitto, milioni di persone scesero in strada contro Hosni Mubarak; in Libia protestarono contro Muammar Gheddafi; in Siria contro Bashar al-Assad; e così via in Algeria e persino in Yemen. Sebbene ogni paese avesse le sue specificità, ciò che univa questi governi era il fatto che erano saliti al potere con un programma nazionalista borghese, al culmine del nazionalismo arabo post-coloniale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Dopo le crisi politiche ed economiche degli anni ’70, questi stessi governi si orientarono verso il neoliberismo, imponendo le direttive statunitensi con metodi sempre più oppressivi e autoritari.

Non vi è dubbio che i paesi che hanno vissuto la stagione della cosiddetta Primavera Araba sono realtà socialmente, politicamente, religiosamente ed etnicamente eterogenee e che le loro strutture economiche sono disuguali e differenti l’una dalle altre. Tuttavia, si possono individuare molte tendenze storiche; la Primavera Araba ha messo a nudo questa “unità dei problemi” in tutta la regione. La crisi del 2008, ad esempio, espressa attraverso l’aumento dei prezzi alimentari, ha innescato una crisi alimentare in tutto il Nord Africa. In Tunisia e in Egitto, i poveri urbani guidarono le rivolte per il pane già anni prima della Primavera Araba; prima dello scoppio delle mobilitazioni contro Mubarak, la classe lavoratrice egiziana aveva subìto un processo di ricomposizione e lotta contro i salari bassi in importanti centri della classe lavoratrice come Mahalla al-Kubra in Egitto.

I processi di lotta di classe della “Primavera Araba” hanno avuto diversi gradi di profondità e coinvolgimento delle masse — insomma, dinamiche diverse in ogni paese. Erano processi di rivolta contro dittature brutali sfruttate dall’imperialismo; le potenze imperialiste hanno usato queste rivolte come opportunità per sbarazzarsi di partner che non servivano più agli scopi imperialisti, intervenendo anche militarmente come in Libia e Siria, contro Gheddafi e al-Asad rispettivamente.

In Libia, ad esempio, la ribellione contro la dittatura di Gheddafi portò a una repressione brutale contro il popolo libico soprattutto dal momento in cui la rivolta mancava di una direzione indipendente basata sull’auto-organizzazione delle masse. Questa, a sua volta, è stata rapidamente sfruttata dalle potenze imperialiste per intervenire direttamente attraverso la NATO, scatenando una sanguinosa guerra civile e conseguentemente una maggiore subordinazione all’imperialismo dopo l’esecuzione di Gheddafi. Come abbiamo delineato nella Frazione Trotskista nel Manifesto per un Movimento per una Internazionale Socialista Rivoluzionaria (2013): 

«Nel caso di guerre civili aperte come quella in Libia, non si può separare la lotta militare contro i dittatori dalla lotta contro l’imperialismo, né relegare in secondo piano la questione di quale classe stia dominando il processo e qual è il suo contenuto sociale. La subordinazione del politico al militare porta a interpretare il successo dell’intervento della NATO nel rovesciare Gheddafi come un “trionfo” del movimento delle masse. Questo è avvenuto in un momento in cui gli Stati Uniti e altre potenze stavano saltando sul carro dell’anti-dittatura per guadagnare nuovi alleati a seguito dei cambiamenti di regime al fine di impedire che i movimenti per la democrazia assumessero una dinamica “permanente”. In altre parole, miravano a impedire che i movimenti si trasformassero in una lotta contro lo Stato borghese e imperialista. In Siria coloro che si schierano con i ‘ribelli’ senza riserve politiche, o rifiutano di avanzare una strategia indipendente dalle direzioni ribelli pro-imperialiste mantenute dagli alleati degli Stati Uniti, stanno commettendo gli stessi errori».

In Egitto si è sviluppato un processo più profondo e avanzato, guidato da settori radicalizzati della classe lavoratrice, che ha rovesciato Mubarak e ha affrontato le politiche neoliberali del governo islamista moderato dei Fratelli Musulmani che è seguito. L’attività della classe lavoratrice e delle masse, unita alla debolezza del governo dei Fratelli Musulmani, ha minacciato il regime nel suo complesso; di conseguenza, l’esercito ha messo in scena un colpo di Stato con il sostegno delle principali direzioni dell’opposizione borghese. Il risultato è stato un governo autoritario completamente sottomesso agli interessi statunitensi. Come afferma il Manifesto:

«Tutte le organizzazioni islamiste che hanno raggiunto il potere — come il partito al-Nahda in Tunisia e il partito Libertà e Giustizia in Egitto — sono forze borghesi che predicano un misto di fanatismo religioso, populismo clientelare ed economia neoliberista. Il compito dei rivoluzionari è quello di combattere queste politiche da un punto di vista della classe lavoratrice e anti-imperialista e non costruendo alleanze con la borghesia liberale e secolare o i loro rappresentanti. Le dinamiche del movimento in Egitto mostrano che non può esserci una rivoluzione democratica senza dare risposte permanenti alle richieste legate alle condizioni di vita delle masse, e che queste non possono essere raggiunte senza porre fine a tutte le oppressioni imperialiste. Questa è la prima questione democratica strutturale che deve essere risolta dalla rivoluzione e che può essere guidata fino alla fine solo dalla classe lavoratrice».

Il ciclo di lotta di classe noto come “Primavera Araba” ha dimostrato l’unità economica, culturale, storica e sociale che unisce il proletariato arabo in tutto il Medio Oriente; questa unità non si fonda solo su legami linguistici, religiosi o culturali, ma su una storia condivisa di sfruttamento, oppressione imperialista e lotta di classe.

Tuttavia, ha anche rivelato il grande ostacolo rappresentato dalle borghesie arabe e dalle organizzazioni che collaborano con esse in nome della lotta “anti-imperialista”, anche se questi Stati arabi sfruttano e opprimono le masse lavoratrici dei propri paesi, utilizzandole come base di manovra per ottenere concessioni dall’imperialismo straniero.

La Rivoluzione Permanente e la Palestina oggi: note per un dibattito con il PSL

I dibattiti sul carattere, le dinamiche e il soggetto della liberazione palestinese, che facevano parte delle discussioni strategiche tra rivoluzionari marxisti e movimenti di liberazione nazionale nel XX secolo — e che furono centrali nella polemica tra trotskismo e stalinismo — sono ancora rilevanti oggi, mentre una nuova generazione politica esamina la storia della Palestina e le lotte per l’emancipazione dei popoli sfruttati e oppressi in tutto il mondo. 

Negli Stati Uniti, i leader de facto del movimento in solidarietà con la Palestina hanno proposto politiche a livello nazionale che sono profondamente — sebbene in gradi variabili esplicite e implicite — influenzate dalla loro strategia internazionale e si basano su come caratterizzano la lotta per la liberazione palestinese. Il Party for Socialism and Liberation (PSL) è una delle principali organizzazioni del movimento pro-Palestina negli Stati Uniti. Si è mobilitato contro l’offensiva israeliana su Gaza immediatamente dopo il 7 ottobre e i suoi membri sono stati perseguitati e repressi soltanto per aver espresso solidarietà con la Palestina.

Le loro politiche nei confronti del movimento pro-Palestina si sono concentrate sull’organizzazione di grandi mobilitazioni di piazza in tutto il paese, sotto la richiesta di un cessate il fuoco, facendo pressione su Biden in vista delle elezioni presidenziali affinché promuovesse misure diplomatiche contro Israele. A livello internazionale, si affidano alle risoluzioni all’interno di organizzazioni come l’ONU per fare pressione su queste istituzioni affinché adottino una posizione più favorevole alla Palestina, in opposizione agli Stati Uniti, seguendo la logica secondo cui tali organizzazioni possono essere utilizzate per imporre politiche che favoriscono i paesi coloniali e semi-coloniali, nonché quelli che cercano di sfidare l’egemonia imperialista degli Stati Uniti. Questa politica corrisponde in ultima analisi alla concezione del PSL della lotta per la liberazione nazionale in generale. In “Why the Palestine movement is a struggle for national liberation”, Joe Tache (2024) del PSL sostiene che:

«In molti modi, la brutalità di Israele a Gaza è stata estremamente orribile. Tuttavia, la relazione coloniale tra Israele e Palestina non è unica. In tutto il mondo, i popoli hanno affrontato l’oppressione nazionale. In alcuni casi, questa oppressione si è manifestata all’interno dei confini di un singolo paese — come l’oppressione di lunga data dei popoli neri e nativi all’interno degli Stati Uniti. In altri casi, vi era una potenza coloniale che prendeva il completo controllo di una colonia, trattandola come un’entità separata rispetto al paese colonizzatore. Quest’ultima è la forma principale che l’oppressione nazionale ha assunto in tutto il Medio Oriente, Africa, Asia e America Latina durante l’era del colonialismo. La Palestina è un misto di entrambe le dinamiche, perché i 1,6 milioni di palestinesi che vivono all’interno dei confini di Israele — pur detentori della cittadinanza israeliana — sono sistematicamente oppressi dal regime sionista, così come i palestinesi che vivono nei Territori Occupati della Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. I primi affrontano discriminazione ed esclusione istituzionalizzate, mentre Israele nega loro una nazionalità e uno status uguali; i palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme Est, invece, sono soggetti a furti di terra, demolizioni di case, restrizioni alla libertà di movimento, arresti di massa e repressione severa del dissenso politico, tra le altre cose».

I paragrafi sopra descritti sono molto più esplicativi per ciò che non dicono che per ciò che dicono. Certo, Israele è uno Stato coloniale di insediamento con un regime di apartheid interno come descrive Tache e che altri storici, incluso Ilan Pappé, hanno descritto in maniera addirittura più approfondita. Ma l’eccezionalità del colonialismo di insediamento israeliano non è solo “interna”; in questo senso, Tache omette una questione fondamentale: il carattere duale di Israele come Stato coloniale di insediamento e un’enclave imperialista.

A differenza delle potenze coloniali dei secoli precedenti, in particolare del XIX secolo, il colonialismo di Israele è emerso come parte del tentativo guidato dagli Stati Uniti di riorganizzare il mondo al fine di mantenere la sua egemonia nel dopoguerra; come abbiamo delineato sopra, gli Stati Uniti hanno contribuito a stabilire un alleato militare regionale nella corsa per la sottomissione del mondo arabo al fine di rivendicare le risorse della regione e contenere la lotta di classe a qualsiasi costo. L’imperialismo statunitense ha forgiato una relazione quasi simbiotica con lo Stato sionista di Israele che non si basa solo sulla condivisione di risorse militari, di intelligence e tecnologiche, ma che ha anche plasmato i contorni del regime bipartisan statunitense e delle sue istituzioni imperialiste pubbliche e private.

L’articolo di Tache e altri articoli del PSL riguardanti la liberazione nazionale in Palestina denunciano correttamente il ruolo di Biden e dell’imperialismo statunitense in alleanza con Israele. Chiedono una “Palestina libera” e di “tagliare tutti gli aiuti statunitensi per il regime di apartheid e liberare tutti i prigionieri politici palestinesi,” come il loro comunicato del 7 ottobre 2023 afferma. Tuttavia, non definendo la natura eccezionale dell’oppressione di Israele sulla Palestina dal punto di vista del suo carattere di enclave imperialista, cancellano la dimensione internazionale della lotta per la liberazione palestinese. Questo ha conseguenze per quale prospettiva il PSL prevede per il futuro palestinese.

In un articolo intitolato “From South Africa to Palestine, Apartheid Will Fall” (2023), Tache stesso fa un’analogia tra Sudafrica e Palestina come lotte anti-apartheid. Sebbene Tache identifichi importanti somiglianze tra questi due esempi, questi due regimi hanno differenze cruciali che influenzano il corso delle loro rispettive lotte. Tuttavia questo confronto fa emergere ciò che rivela sulla concezione del PSL della liberazione nazionale e sul carattere stesso dell’imperialismo.

Nel caso della Palestina, Tache ignora il fatto che, a differenza del Sud Africa (che era dominato da potenze imperialiste in declino), una parte critica del progetto imperialista di creare lo Stato artificiale di Israele era difendere un imperialismo statunitense in ascesa nella regione. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ciò aveva l’obiettivo strategico internazionale di contenere le lotte del proletariato arabo contro l’oppressione imperialista e stabilire un esercito letale nella regione per agire nei suoi interessi. Trascurare questo aspetto crea illusioni nella possibilità di indebolire i legami degli Stati Uniti con Israele senza sfidare il sistema stesso che ha creato Israele in primo luogo. Come Tache scrive: 

«Il governo degli Stati Uniti è una forza centrale nel mantenere l’oppressione dei palestinesi a causa del suo supporto militare, politico e diplomatico incondizionato per Israele. Ciò conferisce al movimento di solidarietà con la Palestina negli Stati Uniti una responsabilità particolare. Il ruolo del movimento negli Stati Uniti non è criticare l’ideologia o la strategia del movimento di liberazione palestinese, ma piuttosto fare la nostra parte per supportare i palestinesi nel rovesciare il giogo del colonialismo affinché possano decidere da soli come desiderano organizzare la loro società. Ma le crepe stanno emergendo come hanno dimostrato gli ultimi cinque mesi di mobilitazioni di massa e, più recentemente, il suicidio del membro dell’Air Force degli Stati Uniti Aaron Bushnell, a dimostrazione che la propaganda sionista e il costante supporto del governo degli Stati Uniti a Israele stanno perdendo forza». 

La prospettiva del PSL per il movimento è quella di minare il supporto dell’amministrazione Biden a Netanyahu. Schematicamente possiamo dire che si tratta di una strategia basata sull’organizzazione di grandi manifestazioni di piazza in solidarietà con la Palestina, mentre si esercita pressione su Biden per decretare un cessate il fuoco minacciando la sua rielezione nel 2024 con iniziative come la “campagna non impegnata”.

In definitiva, fraintendendo strategicamente e quindi sottovalutando sia la natura delle relazioni tra Stati Uniti e Israele, sia il carattere imperialista del progetto coloniale sionista, il PSL crede che si possa esercitare pressione sul regime bipartisan affinché adotti politiche più generose per aiutare il popolo palestinese a “liberarsi dal giogo del colonialismo.”

Ma il colonialismo sionista dipende dall’imperialismo statunitense e viceversa. Questo non significa che i due Stati non possano avere interessi in conflitto o che Biden non possa affrontare Netanyahu, ma che la loro relazione strutturale è così profonda che il regime statunitense sa che Israele può trascinarlo in questa guerra contro il popolo palestinese e far saltare in aria l’ormai malandata egemonia regionale di Israele.

In un certo senso, la relazione tra Stati Uniti e Israele è esistenziale. Sconfiggere questa alleanza reazionaria tra Stati Uniti e Israele richiede una strategia internazionalista. Tuttavia, ciò non può significare una strategia internazionalista dal punto di vista della borghesia, in cui “i nemici dei miei nemici sono i miei amici.” Invece, dobbiamo avanzare la prospettiva di un internazionalismo proletario. È la classe lavoratrice araba e gli oppressi in tutto il Medio Oriente — contadini e poveri urbani — ad avere un interesse comune nella liberazione della Palestina e nel liberarsi dal tallone imperialista.

La causa palestinese è sentita profondamente dalle masse della regione perché racchiude tutte le ingiustizie, tutta la violenza e tutta la disperazione che l’offensiva imperialista — economica e militare — ha portato su di loro, comprese le azioni dei loro stessi governi. In cerca di una “liberazione nazionale” capitalista, gli Stati arabi — non importa quanto si oppongano all’imperialismo in aspetti parziali — hanno mantenuto le masse sottomesse per evitare di rompere l’egemonia degli Stati Uniti. Soprattutto, mantengono e cercano di rafforzare le relazioni sociali e produttive capitaliste, compresa l’applicazione di piani neoliberali negli ultimi decenni.

Sminuire il ruolo dell’imperialismo come fase del capitalismo è concomitante con il restringere o ridurre la lotta per la liberazione palestinese alla lotta per una nazione palestinese. Per il PSL, il carattere di classe di questa “nazione” è indeterminato, né è chiaro se tale formazione coesisterebbe con lo Stato israeliano poiché non si posizionano chiaramente come coloro che chiedono lo smantellamento dello Stato sionista. Citando lo storico guyanese Walter Rodney, Tache scrive:

«[…]l’oppressione nazionale rimuove un popolo dal proprio processo di sviluppo storico: “La rimozione dalla storia segue logicamente la perdita di potere che il colonialismo rappresentava. Il potere di agire in modo indipendente è la garanzia di partecipare attivamente e consapevolmente alla storia. Essere colonizzati significa essere rimossi dalla storia, nel senso più passivo”. Possiamo vedere questo chiaramente nel caso della Palestina. È impossibile per i palestinesi affrontare pienamente le questioni dello sviluppo sociale ed economico mentre sono sotto il tallone dell’oppressione israeliana. Come possono i palestinesi fare un piano infrastrutturale quando le loro scuole, case e ospedali sono costantemente minacciati di essere bombardati o distrutti? Come possono investire nello sviluppo sociale e culturale quando ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza? Come possono impegnarsi pienamente in politica quando i loro movimenti quotidiani e i diritti fondamentali sono così profondamente limitati dall’apartheid israeliano? Come possono anche solo iniziare il processo di sviluppo, quando Israele controlla, sia direttamente che indirettamente, quasi ogni aspetto dell’economia palestinese?» (2024). 

Sebbene i membri del PSL sconsiglino di mettere in discussione le organizzazioni che fanno parte della resistenza palestinese perché “sono i palestinesi a dover decidere autonomamente” — identificando meccanicamente tutti i palestinesi con la loro direzione — loro stessi sembrano avere un’idea piuttosto chiara di come dovrebbe avvenire la liberazione palestinese. Vale a dire che per loro, segue quasi come una legge storica che la Palestina deve prima costituirsi come Stato-nazione e da lì promuovere il suo sviluppo economico e culturale come il Sudafrica nel periodo post-apartheid. I limiti di questo approccio sono chiari nel caso del Sudafrica, che continua a soffrire sotto il giogo dell’imperialismo e che mantiene l’iper-sfruttamento del proletariato nero.

Questa proposta non si realizza in un vuoto, ma piuttosto nel contesto dei programmi, delle piattaforme e della strategia attuale delle direzioni arabe che, nel caso di Hamas e Hezbollah, combattono esplicitamente — mentre rispettano tacitamente i confini del 1967 e quindi l’esistenza di Israele — per Stati fondamentalisti come l’Iran che non sono altro che regimi autoritari religiosi con strutture di classe capitaliste.

Questo significa che la liberazione palestinese è, sia per il PSL che per le direzioni del movimento di liberazione nazionale, un processo che avviene accettando l’esistenza dello Stato di Israele — che è ontologicamente incoerente con la liberazione palestinese — e accettando che l’unica soluzione possibile è costruire una sorta di Stato palestinese — capitalista e fondamentalista — nel quadro di due Stati che porteranno le masse palestinesi fuori dall’arretratezza. Anche se il PSL non promuove esplicitamente la soluzione dei due Stati, la sua prospettiva è che la Palestina dovrebbe seguire l’esempio sudafricano di imporre uno Stato capitalista post-coloniale per sviluppare il capitalismo regionale.

Questa orientazione politica presenta importanti somiglianze con la politica dello stalinismo che abbiamo descritto in precedenza, la quale portò i partiti comunisti a promuovere alla fine degli anni ’20 la tattica del “fronte unico anti-imperialista”, un accordo politico e, in alcuni casi, militare in collaborazione con le direzioni borghesi o piccolo-borghesi dei movimenti di liberazione nazionale. In questo senso, l’anti-imperialismo del PSL si basa sul sostenere qualsiasi direzione o Stato nazionale che si opponga criticamente all’imperialismo statunitense senza porre al centro l’elemento di classe; ignorano il fatto che questi Stati opprimono il proprio proletariato e separano la lotta per la liberazione nazionale dalla lotta contro l’imperialismo, se per imperialismo intendiamo un’epoca specifica del capitalismo che può essere spazzata via solo dal socialismo. Come Frazione Trotskista, difendiamo il diritto del popolo palestinese e del suo movimento di resistenza — che include Hamas — a difendersi militarmente contro l’occupazione coloniale, ma ciò non implica dare supporto politico a questa organizzazione con cui abbiamo differenze nei metodi, nella politica e nella strategia.

Il supporto politico esplicito o implicito e acritico del PSL per le direzioni nazionaliste è coerente con la sua interpretazione della liberazione palestinese come una lotta esclusivamente nazionale. La logica è che i palestinesi possono costruire una nazione indipendente — lasciando la questione dell’esistenza dello Stato sionista indeterminata — che segua i propri ritmi di sviluppo capitalistico graduale senza sconfiggere l’imperialismo regionale, e sono le direzioni borghesi e piccolo-borghesi del mondo arabo (fondamentaliste o secolari) che devono guidare quel processo. Qualsiasi tentativo di criticare questa idea è soccombere alla logica dell’oppressore: 

«Ancora una volta, non è compito del movimento statunitense cercare di dirigere l’esito di quelle lotte, ma solo sostenere il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione — o in altre parole, il loro diritto di riappropriarsi del loro processo di sviluppo storico indipendente e di plasmare collettivamente il loro futuro […] un genuino internazionalismo può essere forgiato solo sulla base del rispetto reciproco tra i lavoratori di diverse nazioni. Se i lavoratori che vivono all’interno dei paesi imperialisti cercano di dettare cosa dovrebbero fare o credere i lavoratori delle nazioni oppresse, ciò mina quel rispetto. Questo è un concetto cruciale che i lavoratori statunitensi in particolare devono afferrare. Il governo degli Stati Uniti si pone come “poliziotto” del mondo, e i lavoratori statunitensi sono inondati di propaganda progettata per farci credere che sia nostro diritto e dovere intervenire negli affari delle nazioni oppresse — un modo di pensare che serve solo gli interessi dell’imperialismo statunitense e danneggia il nostro movimento» (ibid.).

In gran parte assente da queste riflessioni, nonostante l’uso di categorie come “anti-imperialismo” e “la classe lavoratrice,” è il ruolo svolto dalle masse di lavoratori e contadini palestinesi e regionali che richiedono sia una politica anti-imperialista contro il sionismo e una politica che sia indipendente dagli Stati arabi o da qualsiasi Stato borghese, sviluppando invece l’alleanza del proletariato in tutto il Medio Oriente contro i propri governi. Sia Hamas che Hezbollah non sono politicamente indipendenti, ma sono organizzazioni che dipendono politicamente, militarmente ed economicamente da Stati capitalisti come il Libano, il Qatar o l’Iran.

Questo tipo di “anti-imperialismo” — una sorta di anti-imperialismo visto dal punto di vista degli “Stati” e non delle classi — fa parte della visione internazionale che il PSL ha dell’attuale ordine mondiale, in cui per loro la Cina gioca un ruolo positivo di fronte all’imperialismo statunitense. Per il PSL, la Cina è un’alternativa progressista. Questo si esprime nella sua valutazione del Partito Comunista Cinese (PCC). In ”China is not our enemy!” (2022) scrivono riguardo all’ultimo congresso del PCC: 

«In realtà, ciò che i delegati hanno affrontato al Congresso rifletteva un partito di governo profondamente preoccupato per il benessere del popolo cinese e impegnato a fare miglioramenti in una vasta gamma di settori. Questo lavoro è stato affrontato con un livello di serietà e sincerità che sarebbe difficile trovare nei corridoi del Senato degli Stati Uniti o nelle riunioni dei comitati nazionali Democratico o Repubblicano».

Il PSL omette completamente che 1) la società cinese è diventata una società di classe altamente gerarchica, con una borghesia ostentata e un enorme proletariato senza diritti politici che soffre di oppressione razziale e altre forme di oppressione, e 2) nel concerto internazionale, la Cina ha acquisito sempre più tratti imperialisti, investendo massicciamente capitale nel mondo semicoloniale, cioè opprimendo e saccheggiando altri paesi. 

Tale prospettiva omette anche gli ultimi anni di lotta di classe in Cina, in cui la classe lavoratrice e i giovani hanno lottato per migliori condizioni di vita nelle fabbriche e in generale, contro le politiche del Partito Comunista Cinese.

Considerare la Cina una sorta di “male minore” o alternativa alla dominazione degli Stati Uniti è stato espresso nel supporto per la politica draconiana Zero COVID del PCC — che in seguito ha dato origine a una lotta di classe sotto forma di malcontento dei lavoratori e del popolo contro il governo. Allo stesso modo, ripetono la sua politica di negoziati di pace” in Ucraina, che sebbene denunci correttamente la NATO, sostiene la Russia come parte di un blocco anti-statunitense rifiutando di chiedere la partenza delle truppe russe dall’Ucraina. La classe lavoratrice internazionale non può schierarsi nel crescente confronto tra l’imperialismo statunitense in declino e lo Stato cinese con i suoi tratti e aspirazioni imperialisti. Abbiamo bisogno di una politica di indipendenza della classe lavoratrice, che affronti le tendenze militariste e belliciste degli Stati capitalisti e combatta anche per l’autodeterminazione di tutti i popoli oppressi, inclusa la lotta per la liberazione palestinese.

Nell’importanza di questo dibattito, il modo in cui Jabra Nicola ha riassunto le dinamiche di classe della liberazione palestinese utilizzando la prospettiva del internazionalismo proletario e della rivoluzione permanente rimane rilevante oggi:

«Pertanto, la lotta contro l’imperialismo — inseparabile da tutte le lotte democratiche — può essere solo una lotta contro tutte le classi e i regimi dominanti esistenti nella regione. Queste classi sono partner minori dell’imperialismo; attraverso di esse l’imperialismo domina la regione e i loro regimi sono la forma politica di questa dominazione imperialista. La lotta anti-imperialista e democratica è possibile solo come lotta di classe dei lavoratori sostenuta dai contadini poveri contro i proprietari terrieri, le classi compradore clericali e la nuova borghesia nel mondo arabo, così come contro il sionismo. La rivoluzione permanente nel Medio Oriente arabo può essere portata a vittoria solo su base regionale. A causa dello sviluppo diseguale in tutta la regione, situazioni rivoluzionarie o pre-rivoluzionarie sono destinate a sorgere in momenti diversi e in luoghi differenti; ma ogni volta e ovunque si presenti una simile situazione, la lotta in quel determinato luogo dovrebbe essere parte integrante della rivoluzione araba nel suo complesso, guidata da una strategia rivoluzionaria per l’intero Medio Oriente arabo, sostenuta direttamente dalla lotta di massa in tutta la regione. Tale strategia dovrebbe essere condotta in modo da combinare queste lotte in un’unica battaglia per le esigenze delle masse nell’intera regione, sollevando la questione del potere nell’intero Medio Oriente arabo. Solo in questo modo le lotte più avanzate in un dato momento troveranno la massima protezione possibile contro l’intervento degli eserciti degli Stati arabi, dello Stato sionista e possibilmente di un intervento imperialista. Solo in questo modo la presa del potere in un paese dell’area potrà diffondersi e prevenire il suo schiacciamento da parte delle forze reazionarie» (1972).

La strategia che il PSL presenta per il futuro della lotta contro l’imperialismo dipinge un quadro piuttosto diverso. Ben Becker (uno dei fondatori del PSL, ndt)  scrive che il PSL lotta per un movimento che “costruirà politiche anti-imperialiste tra la classe lavoratrice e sarà orientato verso l’unità con il Sud Globale”. Ma qual è la base di queste politiche anti-imperialiste e dell’unità con il Sud Globale?

Qui abbiamo una grande differenza con il PSL. Per noi, la lotta per la liberazione palestinese, sia nella sua manifestazione nazionale/regionale che nell’arena internazionale — in particolare il movimento di solidarietà con la Palestina nei paesi imperialisti come gli Stati Uniti — richiede l’azione indipendente della classe lavoratrice, dei poveri, degli studenti e degli oppressi.

Sul terreno nazionale-regionale questo deve essere espresso in una lotta anti-imperialista contro lo Stato sionista e per tutte le giuste rivendicazioni del popolo palestinese, a partire dalla loro autodeterminazione — che mette direttamente in discussione l’esistenza stessa dello Stato di apartheid di Israele. Questa lotta, che passa attraverso lo smantellamento dello Stato sionista, può essere portata avanti solo dalle masse palestinesi con la classe lavoratrice regionale che guida la lotta, fornendo supporto materiale e politico affinché la lotta palestinese trionfi. Questo implica che il proletariato arabo deve ribellarsi contro i propri governi, come in Egitto, con la richiesta di aprire immediatamente le frontiere.

Negli Stati Uniti, i giovani e la classe lavoratrice hanno un enorme potere in questo momento, poiché il regime bipartisan sostiene direttamente l’offensiva genocida dello Stato di Israele con spedizioni di armi, tecnologia e risorse. Seguendo l’esempio dei lavoratori in India e Belgio che hanno bloccato le spedizioni di armi — e assumendo lo spirito delle centinaia di migliaia di persone negli Stati Uniti che si sono già mobilitate per la liberazione palestinese, così come degli studenti che stanno lottando nelle loro università per disinvestire dallo Stato di Israele — il movimento sindacale statunitense può svolgere un ruolo chiave. Può limitare materialmente l’offensiva militare su Gaza — bloccando le spedizioni di armi, rifiutando di produrre forniture per la guerra e ponendo grandi ostacoli alla macchina da guerra imperialista che attua il genocidio.

A nostro avviso, oggi più che mai, la classe lavoratrice internazionale è la forza sociale che può fermare il genocidio e dare una lotta efficace contro l’imperialismo e il sionismo, a livello regionale e nei paesi imperialisti che sostengono il genocidio, specialmente gli Stati Uniti. Ed è la classe lavoratrice internazionale in alleanza con gli oppressi, i contadini, i poveri urbani della regione e i giovani che possono opporsi allo Stato sionista. L’unità di questi settori è in grado di imporre uno Stato unico, laico e multi-etnico, basato sull’auto-organizzazione delle masse: una Palestina libera e socialista, dal fiume al mare, dove arabi, ebrei e tutti i gruppi etnici e religiosi che compongono la diversità culturale del Medio Oriente possono vivere in pace, liberi dal giogo del sionismo e dell’imperialismo.

Questa Palestina per cui lottiamo è possibile solo con il supporto internazionalista: concretamente intendiamo una federazione di repubbliche socialiste nel Medio Oriente che sviluppi solidarietà economica e culturale tra le regioni nell’ambito di un’organizzazione sociale che minaccia anche le basi dell’oppressione di genere, razziale, religiosa e tutto ciò che ci rende schiavi.

Nota 

Abbiamo differenze con aspetti sia della prospettiva teorica di Nicola che della traiettoria di Matzpen come organizzazione rivoluzionaria. Nel caso di quest’ultima, l’organizzazione è stata ambigua nel suo programma per una Palestina libera, rifiutando di prendere una posizione chiara contro la soluzione dei due Stati. Ma ciò che vogliamo evidenziare da questo momento della loro prospettiva politica e programma — in particolare la prospettiva di Nicola — è la rivendicazione della teoria della Rivoluzione Permanente come bussola strategica per la liberazione palestinese.

Jimena Vergara

Traduzione da Left Voice

Questo articolo fa parte del numero 8febbraio 2025, della rivista Egemonia.

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Redattrice di Left Voice, autrice di "Mexico en llamas", vive e lavora a New York.