All’Università Estiva Internazionalista Rivoluzionaria tenuta una settimana fa nel sud della Francia, di fronte a una platea colma di giovani lavoratrici precarie, immigrate, razzializzate, la nota intellettuale francese femminista “decoloniale” Françoise Vergès ha tenuto un panel a partire dal suo libro Un féminisme decolonial. Ce ne parla Andrea D’Atri di Pan y Rosas.


Françoise ha iniziato leggendo le prime righe del suo libro Un féminisme decolonial [“Un femminismo decoloniale”, pubblicato lo scorso febbraio], che racconta lo sciopero di 45 giorni delle lavoratrici delle pulizie delle stazioni subappaltate dalla società Onet. Leggeva queste righe proprio di fronte alle dirigenti dello sciopero, che partecipavano al panel, a sottolineare che “le donne puliscono il mondo” non solo con il lavoro domestico non retribuito fatto nelle singole famiglie, ma per sottolineare che sono quelle che in schiacciante maggioranza realizzano i lavori salariati ma precarizzati che fanno in modo che uffici, fabbriche, mense, scuole e ospedali, intere città siano puliti e ordinati in modo che tutto funzioni. “Un lavoro indispensabile, ma invisibile”, ha detto.

“Nel neoliberismo, la sovrapproduzione capitalistica e la crescita sproporzionata del consumismo producono un’enorme quantità di spazzatura, rifiuti. Questa spazzatura deve essere pulita e questa pulizia la fanno le donne, però allo stesso tempo il deposito di quella enorme quantità di rifiuti sono i paesi del sud del mondo, come il Ghana, per esempio, che è dove vanno a finire i detriti dal settore digitale che producono inquinamento.”
Con questo esempio, Vergès ha mostrato la contraddizione tra l’idea di “capitalismo verde” ,vita sana, rispetto per la natura, fruizione di aria libera e pura, mentre donne e uomini lavoratori, ma soprattutto le donne – che garantiscono queste condizioni nei grandi centri urbani per le classi medie e alte, vivono nelle periferie, in luoghi contaminati, dove viene gettata la spazzatura. Nel frattempo, il discorso stigmatizzante è che “i poveri non sono puliti, non si preoccupano dell’ambiente”.

 

Il compito “civilizzatore” del femminismo coloniale va di pari passo con l’imperialismo

E’ stata anche categorica nel denunciare come, negli ultimi decenni, il capitalismo neoliberale abbia provveduto ad un adeguamento strutturale, che include la massiccia incorporazione delle donne nel mercato del lavoro in condizioni precarie, mentre i diritti delle donne sono la sua lettera di presentazione.

Tornando agli anni ’70, ha messo in discussione il modo in cui filosofi francesi rinomati hanno imposto l’idea che ogni rivoluzione generi tendenze al totalitarismo, che il comunismo sia lo stesso del nazismo e che quindi tutte le prospettive radicali contro il capitalismo debbano essere abbandonate. 

Inoltre, ha ricordato come questo attacco alle idee rivoluzionarie sia stato seguito e combinato con un discorso colonialista stigmatizzante, traendo conclusioni reazionarie dalle lotte per la liberazione nazionale in Africa, vedendo nei regimi risultanti da questi processi la prova che questi popoli “sono incapaci di costruire democrazie”.

E come questo contro le idee rivoluzionarie in combinazione con un discorso colonialista stigmatizzante contro lotte di liberazione nazionali in Africa, cercando di dimostrare che i regimi che sono emersi da questi processi si devono al fatto che “questi popoli non sono in grado di costruire democrazie”.

Rispetto al femminismo che ha caratterizzato borghese o neoliberale, ha anche sottolineato che in Francia, alleato dello stato imperialista, ha proposto il “compito civilizzatore di portare l’uguaglianza” alle donne razzializzate, compresi i settori di sinistra che si sono posti a capo della svolta islamofoba contro l’uso del velo da parte delle donne musulmane, in nome del femminismo. Ha messo fortemente in discussione questo posizionamento di un certo femminismo bianco che, mentre stabilisce la vittimizzazione delle donne razzializzate, propone di “aiutarle a raggiungere l’uguaglianza e la libertà”, concependo questo compito dal suo punto di vista filo-imperialista. In questo modo, anche la violenza patriarcale contro le donne cessa di essere considerata un problema strutturale delle società capitalistiche, coloniali, ecc. e diventa una questione individuale, come la violenza esercitata da uomini neri, arabi, e da tale punto di partenza questo femminismo “civilizzatore” dovrebbe “salvare” donne nere, arabe, ecc. Ha fatto un parallelo con quanto accade a livello geopolitico: se ci sono paesi poveri, non è perché il capitalismo e l’imperialismo sono strutturati a livello mondiale, ma perché sono poveri “a causa di se stessi”; cioè, nulla può essere spiegato strutturalmente, ma individualmente.

Per un femminismo anti-imperialista e internazionalista

Il dibattito successivo è stato ampio e molto interessante. Le lavoratrici di ONET, la maggior parte delle quali sono immigrate, le compagne di Las Kellys de Barcelona – che sono lavoratrici delle pulizie delle grandi catene alberghiere – le compagne che sono lavoratrici domestiche in abitazioni private, hanno preso la parola . Così hanno fatto militanti di varie correnti della Frazione Trotskista e compagne della corrente femminista rivoluzionaria Pan y Rosas provenienti da diversi paesi, raccontando esempi di donne immigrate marocchine che lavorano nella raccolta di fragole nel sud dello Stato Spagnolo ,come lavoratrici domestiche in abitazioni private delle famiglie ricche e potenti dell’Argentina, che si sono organizzati per combattere la discriminazione, ecc.

Ma era ora di pranzare. La conversazione è proseguita, a tavola, superando le barriere linguistiche con la collaborazione di coloro che hanno tradotto al volo in diverse lingue.

Coincidenze e dissidenze continuarono a essere condivise e confrontate, in un dialogo animato. Prima di partire, Françoise ha dichiarato: “Contro la globalizzazione capitalista, abbiamo bisogno di un femminismo internazionalista”. Le ho risposto con il mio francese precario, mal pronunciato: “nous sommes d’accord!” [Siamo d’accordo!]. E lì mi ha salutato con un sorriso spavaldo: “Quindi abbiamo un sacco di lavoro davanti a noi!”

 

Andrea D’Atri
Traduzione di Ilaria Canale da Izquierdadiario.es

 

Nata nel 1967 a Buenos Aires, dove tuttora vive. Laureata in Piscologia alla UBA, specializzata in Studi sulla Donna, ha lavorato come ricercatrice, docente e nel campo della comunicazione. È dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS). Militante di lungo corso del movimento delle donne, nel 2003 ha fondato la corrente Pan y Rosas in Argentina, che ha una presenza anche in Cile, Brasile, Messico, Bolivia, Uruguay, Perù, Costa Rica, Venezuela, Germania, Spagna, Francia, Italia.
Ha tenuto conferenze e seminari in America Latina ed Europa.
Autrice di "Pan y Rosas", pubblicato e tradotto in più paesi e lingue. Ha curato il volume "Luchadoras. Historias de mujeres que hicieron historia" (2006), pubblicato in Argentina, Brasile, Venezuela e Spagna (2006).