Il governo inserisce in un decreto legge, approvato il 4 aprile in Consiglio dei ministri, le misure repressive più importanti del ddl 1660. Un’accelerazione che fai il paio con la pianificazione di nuovi attacchi a istruzione, sanità e salari per preparare il riarmo. Serve una risposta di piazza e nei luoghi di lavoro. Con quale prospettiva?
E alla fine decreto fu. Da mesi il disegno di legge 1660 – spesso erroneamente indicato come “decreto legge”, strumento principe per le misure repressive degli ultimi decenni – rimaneva impastoiato in parlamento, a causa delle divisioni nella maggioranza, e in piccola parte grazie all’opposizione di piazza espressa negli scorsi mesi. Con un blitz, ieri 4 aprile il governo decretava d’urgenza una nuova norma sulla sicurezza. Vengono eliminati alcuni articoli platealmente incostituzionali del ddl 1660, emersi negli emendamenti in questi mesi, come l’obbligo di collaborazione tra servizi segreti ed enti pubblici, tra cui RAI e università, o il divieto per gli immigrati irregolari di acquistare SIM.
Si trattava evidentemente di provocazioni; rimangono invece i dispositivi repressivi più sostanziali, come le pene per chi protesta contro la realizzazione di opere pubbliche. Questa espressione viene solo precisata, indicando telecomunicazioni, trasporti ed energia; le opere pubbliche in cui si concentrano i profitti delle multinazionali ai danni di ambiente e territori e la sempre più cruciale logistica militare. Incluso nel decreto anche il reato di ‘terrorismo presunto’, che punisce da due a sei anni chi possiede materiale, anche solo informativo, relativo all’esecuzione di azioni “terroristiche”. Restano, inoltre, le pene da 2 a 7 anni contro chi occupa, chiaro attacco al movimento per l’abitare, e la criminalizzazione del blocco stradale, misura impugnabile contro qualsiasi lavoratore che partecipi a un picchetto.
Con questo colpo di mano, lo stesso governo che cerca retoricamente di frenare su contingenti NATO-UE in Ucraina e il riarmo europeo (in ogni caso approvato da Fratelli d’Italia e Forza Italia al parlamento europeo), ne asseconda perfettamente la logica: contenere il conflitto sociale, nella prospettiva di tagli crescenti a istruzione, sanità e salari per finanziare le spese belliche. La repressione è inoltre sempre più cruciale per impedire che i lavorator*, i giovan* e gli student* ostacolino quella conversione a un “modello economico di guerra”, del quale ormai dal marzo scorso parla in primis la Commissione Europea (e non solo gli esagitati di estrema sinistra).
Bisogna mobilitarsi contro il nuovo decreto sicurezza, in completa indipendenza da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle. Il primo è il partito del “no al riarmo”… ma “per la difesa comune europea”, leggasi per un ulteriore rafforzamento dell’UE capitalista e imperialista. Il secondo, non può nascondere dietro il pacifismo ipocrita (Conte approvò la richiesta di Biden di aumentare le spese militari al 2%) la responsabilità di aver varato il decreto sicurezza Salvini nel 2018. Tale provvedimento, insieme quello del piddino Minniti del 2017, ha infatti spianato la strada alla misura repressiva che minaccia di entrare in vigore nei prossimi due mesi e mezzo. Bisogna anche denunciare la completa subalternità a queste forze di Alleanza Verdi e Sinistra e Rifondazione Comunista, sempre più inaccettabile in un contesto in cui non vi è nessuno spazio per il pacifismo europeista ed è necessario costruire un campo indipendente della classe lavoratrice contro le tendenze belliciste e autoritarie. Un messaggio che non è ben chiaro nemmeno alla dirigenza del principale sindacato italiano, la CGIL.
La leva per lottare contro il nuovo decreto sicurezza è collegare la lotta al riarmo e alla repressione alle istanze contrattuali e contro i tagli portate avanti da vari settori di lavoratori, ricercatori e studenti che si sono mobilitati negli ultimi mesi. Questo, insieme a rivendicare la riduzione dell’orario di lavoro, forti aumenti salariali e la riconversione pubblica ed ecologica di settori come l’automotive, contro l’illusione che la riconversione dal civile al militare di industrie in crisi possa salvaguardare l’occupazione.
Serve inoltre una campagna di sostegno – anche materiale – ai lavoratori che subiscono la legislazione anti-sciopero (legge 146/1990). Essa va infatti nella stessa direzione del decreto sicurezza e colpisce settori strategici per ribaltare i rapporti di forza nell’ economia di guerra, come i ferrovieri, in lotta da oltre un anno contro condizioni di lavoro sempre più insostenibili e il costante tentativo del governo di reprimerli.
Il tempo per bloccare il decreto è poco, 70 giorni dalla proclamazione, prima della ratifica in parlamento; è necessaria una risposta di piazza e nei luoghi di lavoro all’altezza della situazione.
Lorenzo Lodi
Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.