Nelle ultime settimane, numerose assemblee sono state indette negli atenei italiani per discutere e capire come combattere la controriforma Bernini-Resta. In alcuni casi, come a Pisa, la partecipazione è stata massiccia. In altri, decisamente meno. Per evitare uno sterile corporativismo, il nascente movimento deve trovare una convergenza larga con la classe lavoratrice e il mondo studentesco. Questa può avvenire a partire da tre parole d’ordine: salario, riduzione dell’orario di lavoro, e diritto all’abitare e alla mobilità.
In attesa di vedere come il governo vorrà incassare la delega ad ampio raggio ricevuta ad inizio estate per modificare la governance delle università italiane, la controriforma voluta da Anna Maria Bernini e scritta da un gruppo di lavoro ministeriale presieduto da Ferruccio Resta, ex rettore del Politecnico di Milano, fissa due paletti molto precisi.
Da un lato, vi è una sottrazione netta ed evidente di risorse alle università statali. Nonostante il balletto sulle cifre che la ministra ha sapientemente e costantemente alimentato in ogni suo intervento pubblico in questi mesi, i numeri hanno la testa dura. Rispetto al 2023, vi è infatti un taglio netto di 173,3 milioni del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), che equivale a circa il 2 percento del totale, ed un mancato rifinanziamento del Piano Straordinario B, dal valore di 340 milioni. La somma porta a quei ‘famosi’ 513 milioni che sono stati spesso citati da chi contesta le misure della ministra Bernini: un fronte in realtà molto ampio che va dalla componente studentesca fino alla non proprio bolscevica Conferenza dei Rettori delle Università Italiana (CRUI).
Dall’altro lato, la controriforma Bernini-Resta precarizza ulteriormente il cosiddetto pre-ruolo, ovvero quel periodo lavorativo, in quasi tutti i casi ben superiore al decennio di durata, che corre dal conseguimento del dottorato all’entrata in organico come professore/essa associato/a. Non ci interessa qui entrare nel dettaglio delle 6 nuove figure precarie che la controriforma introduce, ma calarle nel contesto delle università italiane. A partire dal contestatissimo intervento di Maria Stella Gelmini, la quota dei precari sul totale del corpo accademico italiano è salita esponenzialmente, balzando dal 18,5 percento del 2010 al 45,3 percento del 2024. Si tratta, inoltre, di una stima prudente, visto che non contempla borsisti e docenti a contratto.
Un miglioramento molto parziale di questa situazione era stata tentata da una riforma del governo Draghi nell’estate del 2022. Questa prevedeva un superamento delle due principali figure precarie dell’accademia: l’assegno di ricerca, un vero unicum in Europa, con un salario minimo (e in molti casi reale) di appena 1.417 euro mensili, senza orari, ferie, malattia, tredicesima, e contributi (eccetto per la gestione separata Inps); e del ricercatore a tempo determinato di tipo A (Rtd-a), una figura di ricerca e docenza senza alcuna garanzia di stabilizzazione al termine di un contratto della durata di 3 anni, potenzialmente rinnovabile per altri 2. A scanso di equivoci, questa riforma non abrogava il precariato: lo riduceva parzialmente nella durata e ne migliorava in qualche modo le condizioni salariali e di inquadramento. Era poca cosa, non toccando in alcun modo i nodi di fondo sostanziali, ma è comunque finita sotto attacco, venendo poi sepolto dalla controriforma Bernini-Resta. Questa non riporta le lancette indietro al pre-2022, ma crea volontariamente una situazione decisamente peggiore rispetto a quella seguita al varo della controriforma Gelmini.
Comincia la mobilitazione contro l’aggravamento del precariato nell’accademia
Con una certa lentezza il movimento che si batte contro il precariato quasi-infinito nell’accademia italiana sta passando in queste settimane dalla valutazione della supposta riforma alle modalità con le quali contrastarla. Questo breve articolo vuole contribuire a questo dibattito, proponendo una serie di rivendicazioni che prese insieme vanno a costituire una piattaforma per la mobilitazione. Sia chiaro, questo non costituisce un pacchetto chiuso. Al contrario, vuole rappresentare uno stimolo che può essere poi modificato, adattato e aggiustato nei vari contesti assembleari e di discussione che si daranno nelle prossime settimane. Il passaggio da una fase di ‘comprensione’ ad una di ‘reazione’ deve però avvenire adesso e non può essere rimandato oltre. Passato l’autunno infatti è facile che una buona parte del potenziale della mobilitazione vada disperso. È quindi una discussione che non può essere rimandata oltre, ma che deve darsi qui e ora.
Oltre ovviamente al completo rifiuto della controriforma del pre-ruolo Bernini-Resta e dei tagli imposti dal governo all’università, vi sono una serie di domande che le varie organizzazioni che rappresentano i settori precari dell’università italiana hanno avanzato da tempo: a) incremento sostanziale del FFO; b) piano strutturale per l’immissione in posti di ruolo di non meno di 50.000 precari nei prossimi 3–4 anni; c) cancellazione di tutte le figure precarie attuali e sostituzione con una sola figura pre-ruolo della durata massima di 3 anni, recependo così la legge Madia del 2015 che prevede dopo 3 anni di lavoro precario nella pubblica amministrazione, ma non nell’università, l’obbligo della stabilizzazione; ed infine d) concorsi nazionali e non locali per la figura pre-ruolo, sottraendo così la selezione alla discrezionalità della singola commissione.
Tutte e ognuna di queste domande migliorerebbero le condizioni di chi insegna e fa ricerca nelle università. Hanno però due pesanti limiti. Da un lato, non scalfiscono in alcun modo il carattere liberista dell’accademia contemporanea. Non toccano cioè i problemi fondamentali che attanagliano il settore: iper-produttivismo sterile che porta alla scrittura di una massa sterminata di articoli tutti molto simili; crescente burocratizzazione delle mansioni di ricerca e insegnamento con un immenso carico di adempimenti amministrativi; ed esasperato settorialismo che scardina alla base la possibilità di un sapere critico al servizio della popolazione. Dall’altro lato, le domande avanzate da chi prova a dare rappresentanza al precariato accademico sono evidentemente corporative. In un certo senso, non vi è nulla di strano in questo: qualsiasi battaglia muove inizialmente da una serie di richieste concrete, modeste e spesso iper-settoriali. Il problema però è che per riuscire a convincere il governo della ragionevolezza delle richieste avanzate è necessario non solamente un movimento di mobilitazione forte nelle università, ma anche e soprattutto un cambio dei rapporti di forza nel paese. Può la componente precaria dell’università riuscire in questo? Evidentemente no. Per una lunga serie di fattori che vanno dalla parcellizzazione dei precari all’assenza di qualsiasi forma di sindacalizzazione e di tradizione di lotta nel settore, sino a giungere alla finta auto-rappresentazione dei ricercatori e delle ricercatrici come figure indipendenti e autonome, non vi sono molte possibilità che vi sia una mobilitazione estesa nelle università senza l’intervento di qualche fattore esterno.
Se questo ragionamento è vero, il movimento che si batte contro il precariato accademico ha bisogno di alleati. Due si presentano come i soggetti più ‘credibili’ al riguardo: la componente studentesca dentro le università e il movimento operaio fuori da queste. Una collaborazione con questi due settori richiede però necessariamente una piattaforma rivendicativa che, pur tendendo dentro le richieste ‘storiche’ delle precarie e dei precari della ricerca, muova anche e soprattutto da parole d’ordine che segnino una potenziale convergenza. Tre suonano quindi come prioritarie: salario; riduzione dell’orario di lavoro; e diritto all’abitare e alla mobilità. Vediamole nel dettaglio.
Alcune proposte per costruire alleanze con gli studenti e altri settori di lavoratori in lotta
È verità tanto nota quanto negata e mistificata dalle classi padronali: le politiche neoliberiste hanno prodotto un massiccio spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale negli ultimi decenni. Chi lavora come dipendente oggi guadagna poco, è costretto a lunghi turni che spesso si protraggono anche oltre l’orario stabilito e si trova in una posizione di aperta subordinazione. Tutto ciò può apparire qualcosa di distante dalla situazione di chi lavora nelle università come insegnante o ricercatore/ricercatrice. Nel passato, gli accademici hanno rappresentato infatti una componente importante delle classi medie urbane. Questo era dovuto a due fattori: l’estrazione sociale di chi insegnava nelle università e lo stipendio percepito. Entrambe le condizioni si sono sbiadite, e la seconda molto più della prima.
In tutte le posizioni del pre-ruolo, chi fa ricerca e insegna è un lavoratore o una lavoratrice che fatica a far quadrare i conti. Chi fa un dottorato (minimo salariale di 1.195 euro mensili senza tredicesima) o ha un assegno di ricerca (come già visto, 1.417 euro) è addirittura classificabile sotto o quantomeno molto vicino alla soglia di povertà. Anche coloro che sono professori o professoresse di ruolo nello scaglione più basso non hanno un salario che differisca sostanzialmente da un operaio con inquadramento elevato e rilevanti premi di produzione. Il fortissimo processo di proletarizzazione che ha investito chi lavora nelle università ha quindi creato una questione salariale molto cogente che stimola, a sua volta, un collegamento diretto e naturale tra il precariato accademico e il mondo operaio, in senso largo inteso. In una stagione nella quale la parte padronale continua a spingere al ribasso i salari, rifiutando ad esempio di parlare di qualsiasi forma di aumenti per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, la convergenza deve darsi sulla parola d’ordine della reintroduzione di una scala mobile che adegui automaticamente i salari all’inflazione e che discuta degli aumenti nei rinnovi dei contratti collettivi nazionali, da introdurre anche per chi lavora in accademia.
Chi fa ricerca e insegna nelle università è una lavoratrice o un lavoratore dipendente atipica/o in quanto non timbra un cartellino. Questo è croce e delizia. Delizia, in quanto non esiste quel sequestro del corpo che obbliga milioni e milioni di dipendenti in ambienti chiusi per almeno 8 ore al giorno. Con alcuni limiti, esiste infatti la possibilità di svolgere la mansione in orari e posti diversi, garantendo quindi un certo grado di flessibilità. Croce, in quanto la fortissima competitività in entrata – meno del 10 percento di chi ottiene un dottorato riesce infatti poi a rimanere nelle università – spinge a ritmi di lavoro folli, che portano ad impiegare anche i weekend e riducono drasticamente lo spazio per il tempo libero, gli affetti e tutto ciò per cui è bello vivere. La ‘classica’ richiesta del movimento operaio di riduzione di orario a parità di salario riguarda quindi anche il mondo universitario, anche se prende una forma diversa.
Non potendo controllare infatti il tempo lavorato, deve rivolgersi a quanto prodotto. E nello specifico si esplica nella possibilità di pubblicare non più di un elaborato, libro o articolo che sia all’anno per finalità di valutazione scientifica. Questo non pone un limite a pubblicare saggi e/o articoli con finalità divulgativa (anzi, lo incentiva) e dovrebbe portare a numerosi altri vantaggi: riduzione delle pubblicazione accademiche, ma incremento della loro qualità; aumento del tempo per la continua formazione del corpo docente, fondamentale per chi svolga una funzione intellettuale; e soprattutto un ri-orientamento dei docenti verso la funzione dell’insegnamento, oggi completamente sottovalutata, e tutti quei momenti di interazione con la componente studentesca – dal ricevimento alla stesura e correzione della tesi, fino a giungere all’organizzazione di seminari su eventi di attualità e di interesse per chi studia nelle università.
La terza ed ultima parola d’ordine è quella del diritto all’abitare e alla mobilità. Si tratta di due aspetti fondamentali per tutti coloro che si trovano in una delle molteplici posizioni del pre-ruolo accademico. La forte mobilità intra-universitaria e l’assoluta incertezza su quanto potrà accadere al termine di contratti che spesso hanno la durata di appena 12 mesi obbliga infatti a vivere in affitto e/o a pendolare molto. Questa condizione è tipica anche per una buona parte del mondo studentesco, diciamo la quasi totalità dei fuori-sede, e per vasti settori operai. Decenni di neoliberismo hanno visto ridursi drasticamente le abitazioni ad affitto calmierato, mentre il governo attuale ha anche messo la privatizzazione delle ferrovie all’ordine del giorno.
Il diritto all’abitare e alla mobilità si basa sul controllo statale di questi due settori (o quantomeno una parte di quello immobiliare) e su prezzi calmierati per tutti i lavoratori e le lavoratrici dipendenti, così come le studentesse e gli studenti, che utilizzino i mezzi pubblici di trasporto e vivano in affitto.
Quanto detto fin qui e le tre parole d’ordine spese si misureranno con due test importanti a breve. Il primo è ovviamente lo sciopero generale chiamato da CGIL e UIL per il 29 novembre, data sulla quale anche buona parte del sindacalismo di base sta convergendo. Il secondo appuntamento è invece quello del 13 dicembre, quando la Rete Università per la Palestina – RUP, ha lanciato una giornata di sciopero per spingere con più forza il boicottaggio contro Israele. Viene spesso detto che aprire troppi fronti può essere deleterio per un movimento di protesta. Le ragioni addotte sono molte. Senza dubbio, alcune hanno la loro validità. Nel caso specifico però hanno poco valore. Perché non vi è sopravvivenza per il movimento di protesta contro il precariato universitario fuori da una convergenza larga con il mondo operaio e la componente studentesca. Nelle due date indicate, così come in tutte le altre che emergeranno, il mondo universitario in lotta è quindi chiamato ad intervenire attivamente, portando le proprie rivendicazioni e creando un fronte largo di critica a questo governo e alle sue politiche. Il momento è ora. Attendere ulteriormente vuol dire essere fuori tempo massimo.
Gianni Del Panta
Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).