L’approccio caotico della transizione ecologica verso le energie rinnovabili in Sardegna è un caso da manuale dell’incompatibilità tra il capitalismo e la conversione dell’economia in un modello di sviluppo sostenibile.


Nuovi progetti di impianti per la produzione di energia rinnovabile in Sardegna stanno causando forti discussioni a causa dell’opposizione della popolazione dell’isola, in un contesto locale di crescente contestazione alle rinnovabili negli ultimi anni. Le polemiche sono esplose con la recente promulgazione del Decreto Aree Idoneeil quale impone alla Sardegna l’incremento di 6,2 GW di impianti rinnovabili entro il 2030 – e l’impressionante impennata di richieste per la costruzione di nuovi siti per un totale di 54 GW. Vista la diffusione e la dimensione della crescita prospettate, la gran parte dei sardi è preoccupata per l’impatto di questi progetti sul territorio, temendo nuovi saccheggi di risorse e ricchezza – come già successo in passato – e conseguenti danni economico-sociali, ambientali e paesaggistici.

Il 4 luglio le preoccupazioni della popolazione hanno avuto una risposta istituzionale tramite la promulgazione da parte della giunta regionale di centrosinistra di una moratoria di 18 mesi per l’installazione di nuovi impianti fotovoltaici ed eolici. Il 15 luglio, invece, è ufficialmente partita la raccolta firme per un referendum consultivo regionale contro i nuovi impianti, organizzata dai comitati locali che si sono mobilitati nei mesi precedenti. 

Questa dinamica ha portato a prese di posizione di totale negazione dell’assalto al rinnovabile da parte dell’associazionismo ambientalista mainstream, mentre l’attivismo più movimentista ha espresso posizioni moderatamente “critiche” per le evidenti speculazioni all’orizzonte. In particolare tra questi ultimi, Fridays For Future considera la situazione come l’effetto di una transizione ecologica “non gestita” che andrebbe regolamentata e “democratizzata” per essere messa al riparo da tentativi speculativi, criticando l’opposizione dei comitati come un ostacolo alla transizione in un contesto drammatico che richiede una veloce e mastodontica trasformazione produttiva. Una posizione sulla carta simile a quella del centrosinistra sardo, che con la moratoria appena entrata in vigore punta a “frenare la speculazione” senza frenare la transizione ecologica capitalista.

Nonostante nel dibattito pubblico il problema sia fondamentalmente diventato uno scontro sulla scala e la quantità degli impianti rinnovabili, in realtà vi sono degli elementi di complessità che vengono fortemente sottovalutati dai posizionamenti emersi. I comitati per il no mostrano evidenti derive localiste e “not in my backyard” – sia per la sottovalutazione del problema della transizione energetica che per l’idealizzazione del territorio sardo – ma al contempo emerge una forte incapacità della maggioranza dell’attivismo ecologista nel mettere a fuoco la natura e la pericolosità del fenomeno in azione

La quasi totalità dei posizionamenti si concentra molto sul sintomo della corsa all’oro delle rinnovabili, il quale però è il prodotto diretto di una dinamica specifica determinata dalla natura della transizione che si sta portando avanti. Un processo che segue un indirizzo politico-economico preciso – ovvero quello di mercato e nell’interesse dei profitti della classe capitalista – scelto da chi ci governa tra varie opzioni possibili, che pertanto non è l’unica realizzabile. Quest’ultimo aspetto è fortemente sottovalutato, come anche il fatto che il caso sardo possa essere considerato un prototipo dello scenario generale in una fase ancora incipiente della transizione nel contesto specifico della Sardegna.

Un caso da manuale di “capitalismo verde”

Il dato che più facilmente colpisce è senza dubbio l’enormità delle richieste giunte, per una potenza complessiva 9 volte superiore a quella individuata dal Decreto Aree Idonee e corrispondente a circa 12 volte il fabbisogno regionale. Uno studio della CNA sarda però invita a ridimensionare questi numeri – considerando che mediamente le richieste che vanno in porto sono circa la metà dopo un iter di 7 anni – sottolineando però come in ogni caso ci sia una evidente forte pressione delle aziende dell’energia rinnovabile per fini speculativi. Secondo il professor Livio de Santoli dell’Università Sapienza di Roma il valore aspettato di potenza che verrebbe effettivamente installata è stimabile tra i 15 e i 20 GW, quindi intorno a 4 volte il fabbisogno regionale stimato dal CNA.

Perché si è arrivati a questa situazione? Possiamo trovare buona parte della risposta nelle dinamiche di mercato. Da una parte gli investimenti tecnologici e gli incentivi hanno reso le fonti rinnovabili sempre più economiche e competitive, rendendole capaci di garantire margini di profitto sempre più alti. Dall’altra è evidente come il rischio derivante dagli investimenti nelle fonti fossili sia crescente con il passare degli anni, con il capitale fossile che assume sempre più la natura di una bolla economica che potrebbe esplodere. Quindi vi è una forte spinta di mercato affinché nel settore energetico vi siano nuovi investimenti che finanzino le infrastrutture rinnovabili, viste come una ghiotta nuova occasione di profitto e conseguentemente alimentando una vera e propria corsa all’oro “verde”. Corsa che si concentra in luoghi come la Sardegna per la grande disponibilità locale di sole e vento, che la rendono una fonte molto competitiva.

Anche per quanto riguarda il Decreto Aree Idonee, la disponibilità economica delle risorse rinnovabili è il criterio principale della ripartizione regionale degli obiettivi per il 2030, come ha spiegato chiaramente il professor Federico Butera del Politecnico di Milano in un intervento su La Repubblica:

Non c’è alcun riferimento alle emissioni. Se l’attuale assegnazione è stata eseguita seguendo le indicazioni del Decreto burden sharing (DM 15 marzo 2012), come è ragionevole supporre, le quote tengono conto “del potenziale economicamente sostenibile di fonti rinnovabili per la produzione elettrica”. Cioè chi ha più sole o vento, più contribuisce. E la Sardegna, come la Sicilia e la Puglia, è fra le regioni con più alto potenziale.

Economicamente sostenibile” ovviamente è da intendersi secondo il mercato, ideologicamente escludendo a priori qualsiasi alternativa che contempli forme di pianificazione pubblica. Nello stesso articolo invece il professor Pierpaolo Cazzola del European Transport and Energy Research Centre pone come centrale essere competitivi sul mercato sottolineando la compatibilità dei criteri adottati con il rapporto Draghi.

Tutti questi elementi mostrano chiaramente come la redditività del capitale “green” e la massimizzazione del processo estrattivo siano i criteri principali che stanno plasmando questa transizione “ecologica” a cui stiamo assistendo. Una dinamica che fa passare in secondo piano l’obiettivo del soddisfacimento dei bisogni materiali e che assume tutti i contorni di un saccheggio coloniale da parte delle multinazionali dell’energia, il quale si materializza sotto forma di aumento dell’antropizzazione del territorio, espropri e accumulazione di profitti stellari che verranno portati altrove.

Vista la drammaticità della crisi climatica, tutte queste problematiche potrebbero sembrare un prezzo “sopportabile” per riconvertire la produzione e almeno salvarci dalla catastrofe. Purtroppo non è affatto così, com’è dimostrato brutalmente dallo stesso caso della Sardegna. 

Nonostante l’impennata dell’energia green, difatti non stiamo affatto assistendo ad alcun significativo spostamento di capitale dal fossile al rinnovabile. Anzi, il fossile continua a crescere e spesso chi investe in rinnovabile ha anche abbondanti – se non maggioritari – asset nella produzione fossile (vedasi Eni). Lo scenario a cui stiamo assistendo è di un sostanziale affiancamento della produzione rinnovabile a quella fossile, in un quadro di continua crescita della domanda di energia spinta dall’espansione senza fine dei consumi. Ciò emerge in modo prepotente in Sardegna con i piani di metanizzazione dell’isola degli ultimi anni e la conversione della produzione a carbone in produzione a gas fossile, in perfetta continuità con il trend nazionale.

Lasciata in balìa del mercato, la transizione energetica è sostanzialmente svuotata di senso e strumentalizzata dal capitalismo nel nome della messa a profitto, determinando un processo complessivo che di ecologico non ha nulla.

Serve una transizione totalmente diversa: in armonia coi bisogni della popolazione e con l’ecosistema

Gli elementi emersi mostrano chiaramente come il problema non sia nelle fonti rinnovabili in sé e non sia semplicemente questione di scala della dimensione degli impianti. Del resto la piccola scala non è di per sé benigna ed è ingenuo credere di soddisfare il fabbisogno energetico solo con impianti sui tetti e comunità energetiche, come in parte rivendicato dai comitati locali. Piuttosto emerge in modo esplicito il ruolo negativo del capitalismo: la battaglia è tra la produzione per il profitto e la produzione per soddisfare i bisogni.

Ciò non dovrebbe stupire viste le contraddizioni che il capitalismo si porta, le quali sono causa materiale della crisi ecologica: infatti è proprio l’accumulazione di profitti in continua crescita la causa dell’estrazione illimitata di risorse tramite l’espansione crescente degli investimenti. Un saccheggio funzione del PIL, la cui crescita causa un aumento continuo della pressione antropica sugli habitat nel contesto di un pianeta limitato. Una dinamica nel nome della massimizzazione del profitto, che capovolge il rapporto tra bisogni e produzione tramite la spinta al consumismo e determina una produzione fine a sé stessa slegata dai bisogni reali. La voracità del capitale non permette alcuna possibile “crescita verde”, da considerarsi piuttosto una favola alimentata dal bisogno del capitalismo “green” di darsi basi ideologiche per acquisire consenso.

Spesso la crisi ambientale viene dipinta come un’occasione facilitata per attuare un grande cambiamento positivo nella nostra società, ma la tendenza generale ci mostra il contrario. Più la crisi peggiora, più la lotta per accaparrarsi le risorse diventa violenta: le dinamiche estrattiviste, espropriative, colonialiste e imperialiste del capitalismo si esasperano.

Una transizione energetica governata dal mercato e dalla logica del profitto perciò inevitabilmente presenta le peculiarità negative emerse nel caso sardo, se non peggio. Una passiva accettazione di questa dinamica che deleghi la risoluzione dei problemi a piccole correzioni “democratiche” e a una blanda regolamentazione “contro le speculazioni” – come auspicato da Fridays For Future e dal centrosinistra – è quindi assolutamente illusoria. Al contrario, la crisi ecologica pone nell’immediato l’urgenza di superare il capitalismo, pertanto ci serve una transizione di natura completamente diversa rispetto a quella irriformabile del capitalismo “verde”: occorre una transizione controllata e diretta dalla classe lavoratrice, l’unico soggetto in grado realmente di organizzare la produzione secondo bisogni e garantire la compatibilità con l’ambiente.

In questo senso è importante nell’immediato rivendicare in Sardegna e in ogni luogo la riconversione ecologica degli impianti fossili pre-esistenti sotto il controllo collettivo dei lavoratori e delle lavoratrici – seguendo l’esempio indicato dal Collettivo di Fabbrica dell’ex Gkn di Campi Bisenzio (FI) – per garantire una produzione eco-compatibile e socialmente utile, ridistribuendo lavoro e ricchezze.

Il controllo operaio della riconversione energetica sotto capitalismo è chiaramente una rivendicazione parziale in ottica provvisoria di acquisizione di forze e costruzione di un progetto di alternativa, dato che l’obiettivo a cui puntare è la rottura col capitalismo e quindi la transizione verso una società ecosocialista.

Quanto, come e perché si produce devono essere messi in discussione: serve produrre meno, trasportare meno, consumare meno, condividere di più. È necessario rompere con l’accumulazione capitalista e ri-organizzare collettivamente produzione, trasporti e consumi per soddisfare i bisogni dell’umanità in un’ottica egualitaria e di eco-compatibilità, garantendo la cura collettiva degli ecosistemi. 

Occorre individuare e rendere eco-compatibili le produzioni utili per il soddisfacimento dei bisogni reali, al contempo ricercando e smantellando le filiere dannose sviluppatesi a causa della sete di profitto dei capitalisti. L’efficienza energetica deve essere fortemente vincolata al livello legislativo, come anche la durabilità e l’obsolescenza dei prodotti, imponendo che siano riparabili e riciclabili. La produzione energetica deve essere rinnovabile e decentrata, per ridurre sprechi e permettere la democrazia energetica.

Quindi è necessario riorganizzare e redistribuire il lavoro – con l’obiettivo della piena occupazione e della riduzione dell’orario di lavoro (fondamentale per la riduzione della pressione sugli ecosistemi!) mantenendo e migliorando le retribuzioni – ma anche smantellare tutti i grandi gruppi industriali e finanziari, abolire il segreto bancario, espropriare senza indennizzi i capitalisti per liberare le risorse necessarie e assicurarsi che non causino più danno. Una trasformazione così profonda e complessa rende imprescindibile la pianificazione democratica della produzione e della società sotto il controllo e la direzione collettivi dal basso dei lavoratori e delle lavoratrici. 

Le crepe che ha prodotto e produrrà la crisi ambientale – oltre che l’accelerazione dei processi storici in tempo di crisi  – sono potenzialmente in grado di catalizzare tanto gli stravolgimenti del capitalismo “verde” quanto varianti più autoritarie, o al contrario trasformazioni rivoluzionarie anticapitaliste. La differenza sta tutta negli attori in gioco, pertanto è ormai sempre più urgente organizzarsi come lavoratori e lavoratrici per prepararsi a questa grandissima sfida e sconfiggere il capitalismo “verde”, rompendo con qualsiasi illusione di riforma dei processi di transizione pre-esistenti.

Giuseppe Lingetti

Nato a Roma nel 1993. Dottore di Ricerca in Fisica, ha militato nel Coordinamento dei Collettivi della Sapienza fino al 2018 e in Fridays For Future Roma fino a fine 2019. Attualmente lavora come programmatore software per un'azienda privata dell'industria ferroviaria.