Pubblichiamo un racconto personale, emblema di come questa società riesce a tirar fuori la peggior violenza razzista persino dai bambini. In una fase storica come questa, con imponenti mobilitazioni nel cuore dell’imperialismo mondiale, questo racconto può darci qualche elemento in più per poter comprendere come le oppressioni si facciano strada nella società, indirizzate contro “il debole” del momento. Il colore della pelle è certamente uno stimolo al razzista, un elemento imprescindibile per poter identificare “la giusta vittima”. Ma a noi occorre identificare il giusto aggressore: la società patriarcale e capitalistica è un cancro, il razzismo una sua metastasi!
Non ho mai parlato di questa storia, perché l’intolleranza e la cattiveria cieca fanno sentire le vittime di violenza, in realtà, i colpevoli. Colpevoli di essere sbagliati, diversi dai “normali” che sono lì pronti a rettificare la tua “diversità deviata”.
Avevo forse 9 o 10 anni, ero in quinta elementare e tornavo verso casa di nonna dopo essere uscito dal catechismo. Fui intercettato da un gruppo di coetanei, usciti dal catechismo anch’essi (sarebbe più consono definirlo branco). Ricordo che il mio primo sentimento fu di felicità, pensavo volessero semplicemente fare amicizia. Erano tutti di un altro istituto, ma tra loro c’era un mio compagno di classe che conoscevo dalla scuola materna, perciò la situazione non mi parve pericolosa.
In realtà tutto degenerò velocemente, tra insulti e strattoni, finendo con me per terra ricoperto di calci e sputi, a cui partecipò in maniera attiva anche il mio “amichetto d’infanzia”, che sentiva il dovere di comportarsi da “forte” per non essere escluso (oggi lui è nell’arma dei carabinieri).
Tutto questo successe non perché fossi gay o effemminato, ma perché ero (a loro dire) nero. Perché a Senise (il mio paese d’origine nell’entroterra lucano) nel 1995 non c’erano persone di colore ed essendo io di carnagione scura, ero il “Negro” da discriminare. Quell’esperienza mi lasciò un solco profondissimo nell’anima, mi svelò in un sol colpo che il mondo non era più quel campo di scoperta in cui esprimere sé stessi, ma un campo minato da cui proteggersi.
“La novità”, che fino ad allora percepivo come una sorpresa e quindi con gioia, si trasformò in paura dell’inaspettato, mentre “l’amicizia” che sembrava esser sempre stata rifugio, mutò in tradimento e menzogna. Io non ero pronto a tanta cattiveria e stupidità, forse ero ingenuo, forse avrei preferito rimanere tale. Ma il razzismo, che è un sentire stupido e insensato, era apparso prepotentemente nella mia vita, violando ogni speranza infantile.
Da quel giorno mi marchiarono con il nomignolo “Kinder Delice” perché ero marrone come il cioccolato e, come disse uno di loro, “non valevo più della merda”.
Io non sono nato né bianco e né nero, ma so di essere nato libero. Libero dalla cattiveria e dall’ignoranza che affligge le menti perverse e scarse di sensibilità di chi si affida a sentimenti così bassi. Io ero nato felice, eppure in un attimo tutto crollò.
È un dovere di tutti combattere il razzismo perché non serve essere nero, giallo o rosso per esserne vittima. Il razzismo si alimenta di paura del “diverso” e di rabbia sociale, sentimenti che vengono inculcati sin dalla giovane età. Intere generazioni sono cresciute con questi costrutti, calati dall’alto da chi tiene questa società soggiogata, sotto il controllo ideologico, col solo fine di evitare quelle mobilitazioni di massa che attualmente imperversano nel mondo, che chiedono giustizia sociale e la fine del razzismo e degli stati di polizia.
#stopracism #blacklivesmatter
Enrico Palazzo, classe ’85, è un DJ di origini lucane che vive tra Roma e Milano. Direttore artistico del MateraPride per Matera Capitale Europea della Cultura 2019.