Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo scritto dalla compagna Roberta Massoni, lavoratrice del Porto di Cagliari iscritta al Sindacato Unitario Lavoratori.


[…] Iniziammo a chiedere incontri in azienda e in autorità portuale, ma ci ignoravano. Per loro eravamo dei rivoluzionari ribelli che volevano cambiare lo stato delle cose. Per loro fomentavamo gli operai a ribellarsi a quello status quo. Forse era cosi, ma i portuali dovevano capire che nessuno senza chiedergli qualcosa in cambio avrebbe salvato il loro lavoro. Nessuno avrebbe salvato la loro”giusta” retribuzione. Nessuno avrebbe salvato le loro “dignitose” condizioni lavorative. Nessuno se non loro stessi! Una mattina poi subì una minaccia. Mi lasciarono un biglietto sul parabrezza dell’auto:“Pensa a quello che fai. Oggi il biglietto domani fuoco”.

Il primo di diversi e palesi tentativi di intimidazione un vile atto che si mi fece preoccupare per l’incolumità personale mia anche dei miei cari, ma nello stesso tempo mi diede la forza per essere più determinata. Saremmo stati ancora più attenti ad operare a difesa dei diritti dei lavoratori in modo trasparente contro tutti quelli che si opporranno. Non avevamo ancora fatto alcuna azione sindacale, ma se quello era il risultato, era chiaro che eravamo nel giusto ed è per questo che capimmo che quella senza indugi era la nostra missione, pronti a confrontarci con tutti senza remore e senza presunzione. Volevamo solo difendere i nostri diritti e tutelare il posto di lavoro di tutti i portuali di Porto Canale.

Le nostre famiglie da a due anni ormai sono in affanno per la situazione economica precaria e i nostri figli non meritano certo questo. Di li a poche settimane dopo arrivo la prima convocazione in autorità portuale nella quale rappresentammo tutte le nostre preoccupazioni, che poi si sono avverate a distanza di due anni. Accordi sindacali integrativi imposti dalle aziende senza referendum, che gli stessi burocrati si sono dati per regolare tra loro la rappresentanza nel porto di Cagliari, non sono mai stati rispettati. Riuscimmo dopo uno sciopero nel gennaio 2015, quando eravamo appena 10 iscritti circa, a strappare un accordo apposito per i nostri associati il quale prevedeva una accettazione del lavoratore a dare disponibilità al di fuori del proprio turno programmato, passaggio invece obbligatorio nell’altro accordo.

Per assurdo chiedemmo, visto che l accordo fu siglato alla presenza dell’autorità, copia dell’accordo che non ci vollero dare mai nè completo nè firmato, perchè diceva che “una delle parti firmatarie non voleva apparire”. A tutt’oggi non capiamo il problema, se non qualche grande “motivo”. Da allora è successo di tutto: scioperi, blocchi spontanei, licenziamenti –  il mio compreso con conseguente successiva reintegra -, lavoratori che subiscono ripercussioni di ogni tipo. Mi rendo conto che la definizione di fascismo per l’autoritarismo brutale che colpisce lavoratrici e lavoratori può causare dissenso, polemica. Tuttavia come potrei definire la condizione di chi non è più libero di esercitare i suoi fondamentali diritti e se lo fa paga questo con la perdita del lavoro? Una perdita che nella nostra società è un tormento terribile, che ti condanna alla miseria alla disperazione. Come definire la prepotenza immorale di chi vuole costringerti a fare cose sbagliate o ingiuste e che se ti rifiuti ti colpisce personalmente? Come possiamo definire la cancellazione, nella vita delle persone dei diritti elementari delle persone?

Una volta tutto questo si chiamava fascismo. Forse altri possono trovare altre definizioni più corrette, meno forti ma io posso usare solo questa: neofascismo aziendale! Cosa certa è che nè io nè i lavoratori molleremo. Porteremo avanti le nostre battaglie e sarà una lotta dura contro i soprusi e le discriminazioni contro chi vuole togliere dignità all’essere umano più in generale.

Abbiamo affrontato grandi sacrifici, instabilità lavorativa, svariate mensilità aggiuntive ancora arretrate, nessuna risoluzione in merito al tfr in due aziende che non hanno mai versato lo stesso nei fondi, crediti importanti attestati dalla Dtl.

L’ennesima beffa arriva con la revoca ad aprile dell’autorizzazione all’art 17 che diede a noi speranza dell’immediato avvio dell’agenzia del lavoro portuale . Invece dopo quattro giorni l’autorità sospese la revoca da li non abbiamo più percepito stipendio, non siamo stati mai più avviati al lavoro, siamo letteralmente “ostaggio di questo sistema”.

Io vorrei che oggi questa diventi non solo una lotta per i diritti, ma anche una lotta per essere donne e uomini liberi e non servi che abbasseranno la testa al potere del padrone, per essere pronti a difendere il diritto ad una vita lavorativa serena e dignitosa, perché i diritti e la dignità non possiamo accettare siano una gentile concessione o un regalo.

Sono ormai tre mesi che non percepiamo lo stipendio e l’Autorità Portuale ci riferisce che l’Agenzia per il lavoro portuale si attiverà non prima della fine di Luglio, quando inizialmente ci avevano dato come data inizio giugno. Ciò significa che il primo stipendio non arriverà prima del mese di settembre quindi saremo per altri 3 mesi senza stipendio. 50 famiglie sono oramai ridotte alla fame.

Ci sentiamo “Ostaggi del Sistema ”. E’ surreale assurdo e ingiusto ma avevamo addirittura quasi sognato, di essere licenziati già tre mesi fa quando arrivò la revoca dell’autorizzazione alla C.L.P., poi sospesa, perché almeno se ci fossero stati i licenziamenti almeno la sopravvivenza delle 50 famiglie sarebbe arrivata con l’indennità di disoccupazione, invece l’intervento dell’autorità portuale ha reso vane tutte le speranze.
Aggiungo che voci di corridoio affermino che i futuri dirigenti della costituenda agenzia del lavoro stiano a dei licenziamenti. Noi vogliamo, qualora fosse vero, la partecipazione dell’autorità portuale nell’agenzia per il lavoro portuale, seppure con quote di minoranza, al fine di poter co-gestire con l’autorità l’azienda è non permettere che possano abusare dei lavoratori.

Sembra, infatti, che sempre questi futuri dirigenti stiano pensando di annullare i diritti acquisiti non riconoscendo il passaggio diretto ai lavoratori della Compagnia portuale destinati nella nuova agenzia. Vogliono applicarci il Jobs Act.

Per anni ci siamo alzati alle quattro alle cinque del mattino ed altri alla stessa ora andare a dormire per questo lavoro. Ci siamo addormentati, distrutti da ore di lavoro alienante e ripetitivo. Abbiamo sofferto comunque nel vedere che il nostro stipendio non bastasse mai. Ci siamo sentiti umiliati ogni volta che non percepivamo quanto dovuto. Ogni volta che mi hanno licenziato è stato per me logorante.
Ho visto manager chiedere di alzare sempre di più le rese senza minimamente riconoscere economicamente il lavoro svolto. Li ho visti emozionarsi inneggiando alla globalizzazione del denaro, ma dimenticando totalmente la globalizzazione dei diritti. Ho visto politici strapagati chiedere agli operai senza stipendio di fare sacrifici, perché non c’erano altre soluzioni. Ho visto sindacalisti dire che essendoci la crisi devi prendere quello che viene senza brontolare troppo.

Non si può più andare a lavorare con la macchina perché non abbiamo soldi per la benzina, non possiamo comprare il pane, il latte e tutte le cose che servono per la casa. Certe volte mi viene voglia di fare qualcosa di clamoroso, perché seriamente l’attenzione dell’opinione pubblica si interessi dei portuali, ma desisto per i miei figli. Una guerra contro un ente politico che non agisce contro le aziende che non pagano i lavoratori e vogliono mantenere il silenzio, coperti chissà da quali forti poteri.

La nostra ormai è una battaglia per la vita, per restituire dignità alle persone e non intendiamo fermarci.

Roberta Massoni

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.