Nel loro libro, Fino all’ultimo di noi (2024. Roma: Red Star Press. 18 euro), il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) ripercorre la sua storia, dalla formazione ad oggi, ribaltando la narrazione di chi li dipinge come “un’associazione a delinquere”. Dalle pagine emerge lo spirito combattivo e determinato dei portuali, ancorati ai loro principi antifascisti, di classe e internazionalisti. La loro testimonianza offre spunti importanti per un’analisi sulla congiuntura politica che stiamo attraversando e quali siano gli strumenti più adatti di cui dotarsi per combattere il tentativo di scaricare la crisi su giovani e lavoratori nel quadro di un’economia sempre più “di guerra”.
Fino all’ultimo di noi”, racconta, con toni spesso molto conviviali ed informali le lotte che il CALP (Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali) ha affrontato nei suoi anni di attività fuori e dentro il porto di Genova, degli ideali a cui il collettivo si ancora e dei modi in cui esso è riuscito ad organizzare e portare avanti istanze di grande rilevanza politica. I membri del CALP decidono di scrivere questa sorta di “testamento” del loro operato e della loro visioni di classe anche per costruire una contro-narrativa a un’indagine per associazione a delinquere che li ha visti coinvolti dal giugno 2022.
A supporto del capo di imputazione pretestuoso, la procura di Genova ha messo in campo metodi come intercettazioni e, addirittura, blocchi stradali imbastiti apposta per fermare i lavoratori del collettivo. Questo è avvenuto ad esempio nel marzo 2021, quando alcuni membri del CALP si sono recati a Castiglion Fibocchi (in provincia di Arezzo) per appendere uno striscione che chiedeva giustizia per Martina Rossi, figlia di un portuale di Genova morta cadendo da un balcone durante una vacanza a Ibiza, cercando di sfuggire a un’aggressione sessuale perpetrata da due uomini residenti, appunto, nel paese toscano. Le indagini contro il collettivo hanno prodotto un’inchiesta di 1700 pagine che descrive dettagliatamente l’operato del gruppo di portuali. I motivi di tanto accanimento giudiziario da parte delle istituzioni è presto spiegato andando a ripercorrere come il CALP abbia rappresentato una vera e propria spina nel fianco per padroni e istituzioni nel corso dei suoi 13 anni di vita.
Il CALP nasce ufficialmente il 15 ottobre 2011, anche se nel libro di parla di “due nascite” ovvero due fasi nelle quale si cristallizzano, rispettivamente, gli elementi fondanti del collettivo e si forma il gruppo di lavoratori che lo compongono. La prima “nascita” è costituita dall’esperienza dell’assemblea permanente di Ponte Etiopia (2007), costituitasi a seguito delle manifestazioni in risposta alla morte di Enrico Formenti, un lavoratore del porto morto sul lavoro, schiacciato da due tonnellate di cellulosa. In quell’occasione i portuali avevano organizzato blocchi e manifestazioni per tutta la città, coinvolgendo anche gli studenti. Molti dei lavoratori che avrebbero poi dato vita al CALP si erano inoltre forgiati nelle lotte sindacali e del porto, ma anche nel movimento NO TAV in Val di Susa
La seconda fase, quella di formazione ufficiale del collettivo, ha come momento fondativo il viaggio di ritorno dalla grande manifestazione del 15 ottobre 2011, in cui – in risposta a una chiamata internazionale del movimento degli Indignados spagnolo contro le politiche di austerità – centinaia di migliaia di giovani, studenti e lavoratori erano scesi in piazza a Roma contro le politiche di tagli portate avanti dal governo Berlusconi. Si trattò dell’ultima fiammata dell’intenso periodo di mobilitazione cominciato con la crisi del 2008 e segnato dalle lotte contro la ristrutturazione del settore metalmeccanico, in particolare alla FIAT di Pomigliano, e contro la riforma dell’istruzione Gelmini, responsabile – insieme ai governi tecnici, PD, Lega, 5Stelle ecc. succedutisi nell’ultimo decennio e mezzo – della sostanziale privatizzazione e sottofinanziamento in cui scuola e università versano ancora oggi.
Il CALP nasce quindi nel fuoco di battaglie politiche importanti, anche a carattere nazionale e internazionale che spingono a una riflessione rispetto alla necessità di organizzarsi dal basso come lavoratori – da qui l’aggettivo “Autonomo” dopo “Collettivo”, oltre che per collegarsi alle tradizioni radicali dell’autonomia operaia. L’azione del collettivo è però ben radicata nel contesto delle tradizioni e delle trasformazioni del porto di Genova, il primo in Italia per traffico di merci e passeggeri ed uno dei più importanti del Mediterraneo. Il porto è un sistema produttivo estremamente complesso in cui, oltre alle attività di scarico merci dai porta container, dalle navi con-ro (container + rotaie) e ro-ro (roll on/off per i mezzi su gomma), ci sono anche le attività dei traghetti porta persone e crociere. L’accesso allo scalo è disciplinato da vari varchi dislocati da ovest a est e destinati alle diverse funzionalità del porto. Seguendo la memoria storica dei CALP, negli anni ’70 il porto di Genova era un amalgama di persone e lavoratori dai marinai agli spedizionieri, fino ai lavoratori portuali stessi, che convivevano in unico sistema organizzativo portuale. Con le privatizzazioni degli anni ’90 il porto venne diviso tra multinazionali, imprese e terminalisti che acquistarono i diritti di proprietà su diversi pezzi di molo, con l’effetto di frammentare e precarizzare sempre di più le varie figure lavorative.
La composizione dei lavoratori portuali è oggi in gran parte definita dalle varie compagnie appaltatrici dei terminal, sebbene esista ancora la Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie (CULMV) un ente cooperativista fondato nel 1964 per riunire i vari compartimenti operai presenti nel porto. A questi si aggiungono i lavoratori delle agenzie marittime e tutti gli altri lavoratori dell’indotto: riparatori, personale d’emergenza, manutentori, lavoratori del catering e delle pulizie, meccanici, gommisti e lavoratori del settore della ristorazione. L’importanza dell’esistenza di un collettivo come il CALP sta allora nel tentativo di unificare come forza non solo sociale, ma anche politica, tutti i lavoratori del porto, divisi da contratti e mansioni; divisione che l’impostazione burocratica delle dirigenze dei grandi sindacati non è in grado invece di contrastare, privilegiando i negoziati con le aziende all’organizzazione dal basso.
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La realtà portuale e l’attivismo del CALP contro il traffico di armi e l’estrema destra
Un’altra importante trasformazione che ha coinvolto il porto di Genova negli ultimi decenni è stato il suo declino in termini di snodo turistico e commerciale, parallelo a una tenuta, se non a un aumento di rilevanza, del suo ruolo di hub logistico-militare. Non è un caso allora che il CALP sia fortemente schierato contro la guerra, in una prospettiva di solidarietà con i popoli oppressi. Questa dimensione di lotta si rifà ad episodi come quello della nave Australe che nel 1973 partì da Genova, piena di viveri e medicinali, alla volta del Vietnam, mentre i portuali bloccavano le navi statunitensi in solidarietà con le guerra di liberazione condotta dalle masse del paese sud-est asiatico. Altri episodi più recenti, a cui anche alcuni membri del CALP hanno partecipato, sono stati il contrasto all’invio di un container militare in Kosovo in occasione della guerra nei Balcani il 25 aprile del 1999.
Arrivando a un periodo molto vicino a noi, i CALP fin dal 2014 organizzano blocchi contro la Bahri una compagnia logistica saudita che si avvale del porto di Genova per spostare armi ed altri materiali utilizzabili a scopo bellico appoggiandosi all’agenzia marittima italiana Delta. La Bahri ha operato nel conflitto in Yemen e ha trasportato armi per gli attacchi alla resistenza curda nel Rojava da parte del regime turco guidato da Erdogan. La lotta alla compagnia saudita si è configurata come una battaglia transnazionale ed internazionalista, con azioni messe in campo dalla Spagna (a Bilbao e Santander) al Canada (in particolare al porto di Saint John) fino ad arrivare in liguria dove 5 anni fa, grazie ad alcuni portuali, viene scoperto che un carico di generatori che le navi della Bahri dovevano caricare al porto di Genova era destinato a uso militare. Il 20 maggio 2019, la mobilitazione promossa dal CALP, insieme ad altre realtà politiche e comitati genovesi, induce anche la CGIL a chiamare uno sciopero. Quel giorno il collettivo, alla guida di centinaia di lavoratori, riuscì a bloccare l’attracco principale della nave “Bahri Yanbu”. Alla fine, il vascello fu lo stesso in grado di entrare nel porto, ma il presidio impedì che i generatori venissero caricati, mentre uno sciopero regionale della CGIL rese impossibile che l’operazione venisse effettuata tramite altri scali liguri.
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Un altro caposaldo delle battaglie politiche dei CALP è l’antifascismo, radicato nelle giornate di Genova del giugno 1960, le quali segnarono la ripresa del conflitto sociale in Italia dopo i ‘pacifi’ anni 50, con il protagonismo di una nuova generazione di lavoratori – i famosi “ragazzi con le magliette a righe” – meno irregimentati dalla retorica democratico-riformista del PCI togliattiano post seconda guerra mondiale (si veda per un quadro storico Nanni Balestrini.1988. L’Orda d’Oro. Milano: Feltrinelli). Come ricorda il CALP nel libro, quelle manifestazioni iniziarono a seguito di un attacco ai lavoratori portuali di Napoli, sospesi in occasione di una serie di scioperi a difesa delle condizioni di lavoro. L’asse delle mobilitazioni si spostò infine a Genova dove il 30 giugno era in programma un congresso del Movimento Sociale Italiano. Così i portuali genovesi e i lavoratori marittimi napoletani si unirono in una protesta che, nonostante la dura repressione, contribuì – insieme alle manifestazioni di piazza – all’annullamento dell’iniziativa neo-fascista nel capoluogo ligure.
Le lotte antifasciste dei CALP attraversano anche oggi l’Italia: membri del collettivo sono stati presenti nell’ultimo decennio da Milano (per commemorare Dax, ucciso dai neo-fascisti nel 2003), fino a Cremona (dove nel 2015 un gruppo di squadristi picchiò a sangue un compagno del centro sociale Dordoni), a rivendicare la chiusure delle sedi di Casapound, Forza Nuova ecc. Per i CALP “l’antifascismo non è un movimento di opinione, ma una pratica concreta di azione politica assolutamente legata alla lotta di classe […] l’antifascismo come valore non [è] relegabile a mero ruolo commemorativo delle lotte passate.” (CALP; “Fino all’ultimo di noi”; p. 205). Il contrasto alle organizzazioni neo-fasciste ha rappresentato un baricentro dell’attività del collettivo nella stessa Genova, in stretta sinergia con le lotte per il lavoro e contro la guerra, particolarmente nel 2019, un anno che lo stesso CALP chiama “la primavera genovese”, in quanto molto intenso, pieno di manifestazioni e picchetti non solo contro la guerra, ma anche contro i tentativi di radicamento dei gruppi di estrema destra nella città. Evento emblematico, la giornata del 23 maggio, quando migliaia di persone dietro lo striscione di Genova Antifascista (di cui il collettivo dei portuali è parte integrante) riuscì a impedire a Casapound di chiudere tranquillamente la campagna elettorale nella città medaglia d’oro per la resistenza.
Il ruolo repressivo dell’indagine ai danni del CALP e l’importanza delle lotte nei porti contro l’economia di guerra
Il libro del CALP nasce, come è già stato detto, sia dalla volontà del collettivo dei portuali genovesi di raccontare la propria storia, sia dalla necessità di impostare una narrazione in netto contrasto con quella degli inquirenti. La genesi dell’inchiesta che ha coinvolto il CALP aiuta a fornire un’immagine chiara sugli intrecci tra padronato e istituzioni che dominano il porto di Genova.
L’indagine per associazione a delinquere viene aperta principalmente a causa delle azioni intraprese per contrastare il commercio marittimo di materiale bellico. Negli atti dell’inchiesta vengono elencati numerosi reati, che prevedono condanne dai sei mesi agli otto anni di reclusione. Questi reati sono collegati sia all’attività politica antifascista che a quella antimilitarista. Lo sciopero del 2019, contro la compagnia Bahri (richiamato in in precedenza), ha giocato un ruolo determinante nel configurare il procedimento contro i CALP come un’inchiesta per associazione a delinquere. Infatti, appare chiaro come dietro questa impostazione si nascondano, neanche troppo velatamente, pressioni e denunce da parte di chi cura gli interessi della Bahri.
L’indagine ad oggi è archiviata, mentre l’ex presidente dell’autorità portuale, i terminalisti più importanti di Genova e vari esponenti dei consigli regionali e comunali, oltre all’ex presidente Toti, sono indagati per voto di scambio e finanziamenti illeciti. Nonostante possa sembrare grottesco che un collettivo di portuali venga indagato per associazione a delinquere, mentre i politici e gli imprenditori del porto sono corrotti e collusi con la mafia, non bisogna stupirsi. Le pressioni intimidatorie esercitate sui CALP sono parte di una strategia più ampia, che ha come scopo la soppressione delle lotte e delle azioni di boicottaggio. È evidente come sempre più spesso lo stato faccia gli interessi dei padroni, reprimendo scioperi e manifestazioni. In questa cornice la lotta dei CALP è estremamente importante per due motivi:
Innanzitutto dimostra che i lavoratori organizzati, oltre ad essere gli unici in grado di fermare il commercio di armi, rappresentano un pericolo concreto per la classe dominante, che vede i propri profitti minacciati da scioperi, boicottaggi e rivendicazioni, e cerca di farsi scudo a suon di denunce e repressione.
Inoltre, le azioni del collettivo aiutano a mettere in luce il nesso tra lotta di classe, economia di guerra e repressione. Dallo scoppio della guerra in Ucraina, e successivamente con l’intensificarsi della guerra genocidaria israeliana, in Europa e in Italia si è assistito a un’intensificazione dei tentativi di uscire dalla crisi multipla che attraversa il capitalismo tramite la preparazione all’eventualità di uno scontro tra grandi potenze. Anche gli Stati non direttamente coinvolti nei conflitti stanno riorganizzando le proprie economie in previsione di possibili impegni bellici futuri. Da un lato viene data priorità alle spese militari da un punto di vista fiscale, tagliando in altri settori come la sanità e l’istruzione, dall’altro diventa essenziale aumentare la capacità produttiva e l’efficienza. Un aumento che coincide con un maggior sfruttamento della forza lavoro, e di conseguenza una stretta oppressiva verso le lotte e rivendicazioni. Questa dinamica trova un riscontro evidente nel contesto italiano, dove la nuova legge di bilancio e il disegno di legge 1660 sulla sicurezza rappresentano la traduzione pratica di tali politiche.
Infatti, nonostante il governo sostenga di aver aumentato le spese per la sanità, la percentuale degli stanziamenti per la sanità in rapporto al PIL non aumenterà rispetto alla percentuale registrata nel 2024, ovvero il 6,3 per cento del PIL, un valore vicino ai minimi degli ultimi vent’anni e addirittura inferiore ai livelli pre-Covid. Si tratta quindi di un aumento apparente e insufficiente rispetto alle gravi carenze del sistema sanitario, che versa ormai in una situazione di crisi sistemica.
Anche dal lato dell’istruzione e dalla ricerca, il peggioramento è considerevole. La legge di bilancio 2025 conferma tagli molto pesanti sul Fondo di Finanziamento Ordinario destinato agli Atenei per le spese di personale e di funzionamento, che per alcuni atenei si colloca fra il 3% e il 4%, percentuali gravose per università che versano da anni in uno stato di sottofinanziamento. A questo taglio si aggiunge la legge di riforma del reclutamento del personale docente e di ricerca e l’organizzazione delle università che prevede solo figure precarie, senza alcuno sbocco di stabilizzazione.
Per quanto riguarda la scuola, sono previste riduzioni dell’organico che comportano la perdita di 5.660 docenti e di 2.174 unità di personale ATA. Una contrazione molto grave, considerando che la scuola, così come l’università e la sanità, avrebbero bisogno di investimenti consistenti piuttosto che di ulteriori diminuzioni di risorse.
Se da un lato stiamo assistendo a una diminuzione o a un mancato aumento degli investimenti nei servizi prioritari, dall’altro è in atto da anni un potenziamento sproporzionato della spesa nel settore della difesa. Nel decennio 2013-2023 le spese militari hanno registrato un aumento record: +46% nei Paesi NATO-UE e +30% in Italia, e per il futuro sono previsti ulteriori aumenti. Il governo ha programmato una spesa di 39 miliardi di euro nei prossimi tre anni, con una media di 13 miliardi all’anno.
In questo scenario, il ddl 1660 si inserisce in maniera assolutamente organica, nell’ottica di contenere un conflitto sociale che potrebbe opporsi a crisi ed “economia di guerra”. Il progetto di legge non rappresenta certo una novità assoluta nella gestione statale del dissenso. Dal decreto sicurezza firmato dagli esponenti PD Minniti e Orlando nel 2017, fino ad oggi, passando per il decreto sicurezza approvato da Salvini sotto il governo Conte nel 2018, governi di ogni colore hanno inasprito la legislazione contro blocchi stradali, occupazioni di case, dimostrazioni di piazza ecc. Inoltre, negli ultimi anni sono stati innumerevoli i casi in cui il ministro degli interni si è servito dello strumento delle precettazioni – previste dalla legge 146/1990 – come arma per contenere e invalidare varie lotte dei lavoratori nei servizi pubblici (trasporti, sanità, istruzione e pubblica amministrazione).
Detto questo è vero anche che il ddl 1660 rappresenta un passaggio di forte approfondimento della repressione con un’ulteriore criminalizzazione dei blocchi stradali – arma importante per scioperi in varie categorie – ma anche di manifestazioni dirette contro la realizzazione di grandi opere pubbliche, proteste nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e nelle carceri (questo insieme a tutta una serie di altri dispositivi odiosi, come la sostanziale introduzione del reato di opinione in merito al “terrorismo”).
Il quadro delineato si incrocia evidentemente con un incremento dei ritmi di lavoro che non coincide con aumenti salariali, in una situazione in cui le crescenti tensioni geopolitiche favoriscono processi inflazionistici che a loro volta aggravano le tendenze alla recessione economica (per via dell’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali). A tal proposito, il CALP denuncia nel libro come negli ultimi anni i terminalisti abbiano cercato di gestire la crisi spremendo al massimo i lavoratori e comprimendo le rivendicazioni salariali, con l’effetto di un aumento del rischio di incidenti sul lavoro (a luglio, con la CGIL,CISL e UIL e a ottobre, con USB, i portuali in tutta Italia hanno scioperato contro questa situazione e per un rinnovo del contratto nazionale, il quale – a causa della strategia a perdere delle dirigenze dei confederali – si è rivelato un vero e proprio bidone, venendo rigettato dai portuali di Genova e passando in referendum farsa, o con alti tassi di astensione in altri scali. Torneremo sul tema con un articolo apposito).
Situazione analoga ai porti è quella dei lavoratori delle ferrovie, dove c’è un costante peggioramento del rapporto vita-lavoro e un ristagno delle retribuzioni. Nel settore abbiamo assistito agli scioperi dei manutentori, contro un accordo peggiorativo, firmato dalle dirigenze dei confederali e da alcuni sindacati autonomi, che prevede la possibilità di turni di 7 giorni su 7 e impone domeniche obbligatorie, e a quelli dei macchinisti e del personale di bordo, che anche il 12 e 13 ottobre hanno scioperato sfidando l’invito alla revoca da parte della commissione di garanzia.
C’è una ragione se l’intensificarsi dello sfruttamento e della repressione colpisce in particolare portuali e ferrovieri, in quanto si tratta di lavoratori di settori strategici chiamati ad adattarsi ai ritmi di un’economia sempre più orientata al militarismo. Questo si traduce in una progressiva erosione delle tutele lavorative e nell’imposizione di misure più rigide per contenere le mobilitazioni politico-sindacali. Non stupisce quindi, l’accordo recente tra Ferrovie Italiane e la Leonardo nell’ambito della military mobility, Quest’ultima, iniziativa UE, è finalizzata ad aumentare l’efficienza delle infrastrutture di trasporto per permettere la movimentazione di risorse militari, anche con breve preavviso e su larga scala. L’accordo approfondisce il processo di militarizzazione delle ferrovie a cui si assiste da anni, incidendo negativamente sulla sicurezza ferroviaria, già in perenne stato critico.
Il libro dei CALP, ma soprattutto le loro lotte, ci hanno mostrato come la militarizzazione e la repressione siano già in atto da tempo, e quale sia la forza e il potere che hanno i lavoratori quando si uniscono, anche a livello internazionale. Per ribaltare i rapporti di forza e contrastare la guerra – dai porti alle fabbriche, fino alle università – è essenziale costruire un fronte comune tra i lavoratori, che parta dell’unione dei lavoratori delle industrie strategiche per il settore bellico e quei movimenti sociali e politici che rivendicano tanto la fine dei conflitti, quanto maggiori diritti. Bisogna ribadire che la militarizzazione combacia perfettamente con l’aumento dei profitti di pochi capitalisti e il peggioramento delle condizioni materiali ed economiche dei lavoratori. L’industria bellica deve essere contrastata non solo attraverso scioperi e manifestazioni, ma anche esercitando pressione sulle università per interrompere le collaborazioni di ricerca con le aziende produttrici di armi e con paesi colonialisti come Israele.
C’è un filo rosso che lega tutte le lotte, ma che talvolta si perde di vista. Le politiche degli ultimi decenni hanno eroso progressivamente diritti acquistati con anni di battaglie e vertenze e hanno creato gerarchie tra i contratti di lavoro, con lo scopo di disgregare e parcellizzare i lavoratori. Di conseguenza assistiamo a una moltitudine di lotte e rivendicazioni, spesso separate e non coordinate tra loro. Se vogliamo immaginare un futuro diverso da quello che si sta delineando, fatto di conflitti bellici, sfruttamento e collasso climatico, va costruito un movimento di classe che sia unito e radicale.
Laura Colli
Marco Adamo
Nata a Modena nel 1999, ha studiato prima a Bologna e poi a Firenze, specializzandosi in Economia dello Sviluppo. Partecipa al Circolo de la Voce delle Lotte di Firenze.