Lo sciopero generale di lunedì ha avuto successo ben oltre il previsto, segnando un punto di svolta carico di potenziale per il movimento contro il genocidio in Palestina. A sorprendere non è stata solo l’ampiezza della partecipazione, ma il protagonismo di giovani, studenti, lavoratori non sindacalizzati. Ora la sfida è strategica: evitare derive avventuriste, contenere le competizioni interne rafforzando la democrazia del movimento e costruire un fronte unico di lotta. In questo senso, spingere Usb e Cgil a convocare uno sciopero generale unitario è una priorità cruciale.
I segnali nelle settimane precedenti non erano mancati – dalle manifestazioni di massa di Genova e Livorno guidate dai portuali ai cortei vibranti in molte città, dalle assemblee partecipate un po’ ovunque alla montante pressione sociale per ‘fare qualcosa’ per fermare il genocidio in Palestina. E nonostante questo, la portata dello sciopero generale di lunedì è andata oltre ogni aspettativa. L’ampiezza dei cortei, la loro radicalità e soprattutto l’irruzione sulla scena politica di settori che non erano stati coinvolti nei precedenti cicli di mobilitazione – giovani lavoratrici e lavoratori, non inquadrati sindacalmente e non facente parte dei tradizionali bastioni operai, così come l’allargamento della partecipazione a settori larghi di movimento studentesco e universitario – pongono con forza una riflessione strategica sulle prossime tappe. Non entriamo qui nei dettagli minuti, anche perché questi possono e devono trovare una declinazione specifica nei vari contesti cittadini. Ci soffermiamo invece su tre aspetti generali.
Primo, è importante affermare e ribadire una fortissima avversione a qualsiasi forma di avventurismo. La crescente marea di rabbia per quanto succede in Palestina da due anni a questa parte e per l’aperta complicità dei governi occidentali e mediorientali non deve darci l’illusione che ci troviamo di fronte a un movimento di massa consolidato. Semmai, è vero il contrario. L’obiettivo primario è quindi il consolidamento e l’allargamento del blocco sociale che è sceso in piazza lunedì. Questo non può e non deve avvenire attraverso l’idea che la spregiudicatezza di alcuni gruppuscoli e singoli nel condurre azioni eclatanti possa essere funzionale in tal senso. All’opposto, tale azioni rischiano di limitare piuttosto che ingrossare la partecipazione di massa. Sebbene i tentativi del governo e della stampa benpensante di dividere il movimento in ‘buoni’ e ‘cattivi’ siano da respingere con veemenza, non si blocca un paese realmente con l’idea che pochi si possono sostituire a un movimento di massa, il nostro motto deve essere: non dall’azione individuale al movimento di massa, ma dal movimento di massa al blocco completo di tutte le attività produttive, di ogni ufficio, e di ogni lezione.
Secondo, ogni fermento di piazza aumenta gli appetiti dei vari gruppi che insistono su un’area politica comune e la loro competizione. In un certo senso, il fenomeno è semplicemente una manifestazione della dinamica politica più generale: ogni organizzazione lotta per guadagnare militanti, spazio e visibilità nella prospettiva che le proprie posizioni politiche siano migliori e più corrette. Esiste però un limite oltre il quale tale competizione mette a rischio la tenuta e lo sviluppo del movimento stesso. E così facendo finisce, in ultima analisi, per porre in discussione la possibilità stessa per i molti gruppi politici dell’estrema sinistra di crescere e di uscire dalla posizione di subordinazione e insignificanza nella quale sono stati relegati negli ultimi decenni in Italia. In questi giorni sono già emersi segnali preoccupanti in tal senso. Si tratta adesso di evitare che la competizione tra gruppi tracimi. Non esiste né un antidoto né una soluzione ottimale a questo problema. In parte perché, come dicevamo, è congenito alla dinamica politica stessa. Esistono però alcuni meccanismi che possono aiutare a incanalare la competizione in strutture che contribuiscono a evitarne la deflagrazione in battaglia tra bande. Il migliore dei quali è la creazione di assemblee permanenti in ogni città, fortemente democratiche, organizzate in gruppi di lavoro e, quando le condizioni lo richiedono e lo consentono, con l’elezione di referenti costantemente revocabili con voto contrario dell’assemblea stessa.
Terzo e ultimo, il movimento deve porsi come obiettivo finale la creazione di rapporti di forza sufficienti a mettere in dubbio la stabilità del governo Meloni. Questo non deve però essere il prodotto di grigie operazioni parlamentari, ma piuttosto l’esito di una mobilitazione di massa, continuativa e intensa. Solamente questo pone l’asticella al livello che la situazione in Palestina richiede – ovvero, l’immediata cessazione di ogni complicità dello stato italiano con il genocidio perpetrato dallo stato sionista. La via maestra per iniziare questo percorso è la chiamata di uno sciopero generale unitario che crei le premesse per un’articolazione complessiva delle domande sociali, economiche e politiche che provengono dalla classe lavoratrice e dai settori popolari in generale. L’esempio su come fare in termini concreti giunge ancora una volta da Genova, dove nella giornata di giovedì 25 Usb e Cgil hanno siglato un accordo per una mobilitazione unitaria di sigle e lavoratori. Questo è un passaggio decisivo e che deve rapidamente estendersi a tutte le altre città e regioni italiane: la parola d’ordine del fronte unico delle lavoratrici e dei lavoratori deve diventare di uso e soprattutto pratica comune. Come i dati sulla partecipazione allo sciopero di lunedì scorso ci dicono, un vero e proprio sciopero generale non è possibile senza la partecipazione della Cgil. Questa ha subito uno smacco di portata storica. Il tentativo di chiamare uno sciopero a fine turno venerdì 19 nell’ottica di deflettere quello chiamato da Usb e altre sigle del sindacalismo di base per il 22 si è rivelato un vero e proprio boomerang, mostrando plasticamente lo scollamento tra la Cgil e una buona parte di quella società italiana – mondo del lavoro, ma non solo – alla quale necessariamente guarda. La volontà di essere presenti al presidio chiamato mercoledì 24 a Montecitorio, subendo fischi e una parziale contestazione, così come le parole espresse dal gruppo dirigente, a partire dal segretario stesso, indicano chiaramente una volontà della Cgil di andare a recuperare l’aria di dissenso che si è creata alla sua sinistra. Il pendolo del costante movimento oscillatorio che compie la burocrazia punta adesso a sinistra. Eppure questo non è sufficiente. L’oscillazione non è infatti un genuino riposizionamento, ma una mera mossa difensiva. Vuole occupare l’ampio spazio che si è creato alla sua sinistra e non fornire genuinamente sostegno alla mobilitazione. Se la burocrazia non viene incalzata, il suo oscillamento rischia quindi di essere limitato nella portata e modesto nella durata. Esiste però in questo momento la possibilità di esercitare una pressione reale sulla struttura della Cgil. Tale pressione in parte deve provenire dagli iscritti alla Cgil stessa. Mentre infatti il riposizionamento dei dirigenti non è necessariamente sincero, una fetta importante dei lavoratori e delle lavoratrici iscritti alla Cgil vuole contribuire in maniera decisiva a rompere la complicità dello stato italiano con il genocidio sionista. In parte però, la pressione può e deve anche montare, come questi giorni ci stanno mostrando, come ‘sfida esterna’. Tale sfida deve essere portata dai sindacati di base, ma ancor di più deve provenire dal movimento operaio strettamente inteso. È per questo che è assolutamente prioritario in questa fase lanciare assemblee unitarie e intersindacali in tutti i luoghi di lavoro dove questo sia possibile. Una terza e non meno importante pressione deve venire dalla società tutta. E qui un ruolo cruciale lo gioca il movimento studentesco e universitario. Grazie alla sua composizione e vitalità, al maggiore tempo a disposizione, alla concentrazione in strutture (scuole e università) che radunano centinaia e anche migliaia di studenti e alla possibilità di dar vita a mobilitazione estese e continuative, la partecipazione della componente studentesca è assolutamente indispensabile. In questo caso, così come per il movimento operaio, è poi giunto il momento di utilizzare la mobilitazione in favore della Palestina per lanciare una lotta più generale contro la militarizzazione, i bassi salari, i tagli alla spesa sociale, e l’imperante modello economico.
In poche settimane si è creata una situazione che era assolutamente inimmaginabile a metà agosto. Si tratta adesso di coltivare e allargare la breccia che si è aperta. Ricordandoci sempre che le mobilitazioni di massa non sono come i treni. Se ne perdiamo una, non esiste la possibilità di prendere la successiva. La ragione è semplice: questa potrebbe arrivare dopo molti anni. Il nostro tempo è adesso.
Gianni Del Panta
Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).