di Salvatore Cappuccio

Potrà sembrare strano ma tra le nazioni più indebitate al mondo troviamo gli Stati Uniti d’America con un debito federale di circa 20.000 miliardi di dollari e con un debito complessivo (Federale, Enti locali, Corporation, salvataggio di banche, vari buchi di bilancio, ecc.) di circa 64.000 miliardi di dollari. Una cifra astronomica; una vera montagna di debiti, tale da far “impallidire” lo stesso debito pubblico italiano, che è di circa 2.200 miliardi.  Vale a dire 157.000 dollari per ogni contribuente statunitense. Una situazione del genere avrebbe portato qualunque altra nazione al fallimento finanziario ed alla bancarotta. Per molto meno, alla Grecia – con un debito pubblico di circa 400 miliardi –  sono state imposte manovre lacrime e sangue con tagli alle pensioni, ai salari, alla sanità e svendita di aziende pubbliche. Non molto difforme il trattamento per l’Italia a cui la BCE ed il FMI hanno chiesto di ridurre drasticamente il debito pubblico attuando privatizzazioni, tagli agli stipendi dei dipendenti pubblici, tagli alla sanita ed alle pensioni.
Risulta strano, quindi, capire come è possibile che la più grande potenze economica e commerciale del mondo possa avere un così grande debito con una bilancia commerciale in passivo ed allo stesso tempo riuscire ancora ad evitare il default.

Nel 2011 il Congresso americano con una legge ha dovuto aumentare il limite di indebitamento, altrimenti il governo sarebbe stato costretto a dichiarare il fallimento. Una grossa parte di questo debito è stato comprato dalla Cina (circa 1.300 miliardi di dollari), un’altra grossa fetta è nelle mani dell’Arabia Saudita ed una altra ancora nelle mani del Giappone. A ciò va aggiunto l’aumento delle spese militari di circa 54 miliardi di dollari annunciato da Trump (+10%). Considerato che gli effetti della crisi del 2008 si fanno ancora sentire sia sulle banche che sull’economia viva del paese, trovare ogni giorno liquidità per mantenere in piedi questo gigante economico-militare risulta sempre più difficile e non sempre è possibile ricorrere all’immissione sul mercato di cartamoneta, perché tale azione genera inflazione ed indebolisce la moneta negli scambi internazionali.

L’unica soluzione per uscirne è quella della vecchia politica delle aggressioni militari e del saccheggio dei paesi in via di sviluppo, considerato che non è possibile per gli USA – almeno per il momento – dichiarare guerra alla Cina per evitare di dover pagare il debito che con essa ha contratto. Mettere le mani sui paesi produttori di petrolio ancora fuori dal suo controllo (in questo momento Siria ed Iran e alcuni del sud America) resta l’unica opzione praticabile per risollevare le sorti della propria economica. Ciò può avvenire attraverso la destabilizzazione, colpi di stato ed aggressioni militari contro i paesi da conquistare, come successe col Governo di fronte popolare di Salvador Allende, dove fu fatto crollare il prezzo del rame per creare un malcontento generale e poi intervenire militarmente (dinamica che si sta producendo oggi col Venezuela di Maduro).
La stessa logica muove la volontà di aggressione alla Corea del Nord: bloccare ed incamerare gli investimenti bancari in Europa delle banche coreane (la Central Bank of the Democratic People’s Republic of Korea, la Daedong Credit Bank, la Daesong Bank North Korea e la Foreign Trade Bank of the Democratic People’s Republic of Korea) d’investimenti frutto di profitti realizzati in gran parte con la vendita di carbone ed alimentari alla Cina.
In questo modo si bloccano e si mettono le mani anche sui depositi delle banche cinesi che sono il partner finanziario principale nordcoreano.

Per rapinare un paese è necessario, però, preparare l’opinione pubblica a percepire come accettabile quest’atto. Una guerra di saccheggio imperialista diventa, così, una missione di pace della NATO per porre fine ad una sanguinosa e criminale dittatura, definizione che va bene per tutti gli Stati capitalistici, cioè per tutti quelli oggi esistenti nel mondo tranne Cuba (Stato operaio degenerato che si avvia alla sua dissoluzione).

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.